1- Le origini della libertà di manifestazione del pensiero ed i suoi limiti: il problema del rapporto con l'art. 340 c.p.
Una questione apparentemente superata e pacifica secondo la granitica giurisprudenza di legittimità attiene alla sussistenza del reato di cui all'art. 340 c.p. "interruzione di pubblico servizio" in rapporto all'illecito amministrativo di cui all'art. 1 bis d. lgs. n. 66 del 1948 "blocco di binari".
Come si è anticipato, l'avvenuto superamento della questione appare a chi scrive meramente apparente; la presente disamina, infatti, intende mettere in luce i punti maggiormente controversi del caso sul piano dogmatico, proponendo una rimeditazione della problematica, anche alla luce del più recente e migliore insegnamento delle Sezioni Unite della Cassazione in materia di conflitto apparente di norme.
Orbene, nella pratica giuridica riemerge periodicamente l'esigenza di dare un inquadramento confacente ai principi democratici cristallizzati nella Costituzione Repubblicana, alla condotta di coloro che, oggi come ieri, esprimono la propria opinione attraverso legittime e pubbliche manifestazioni.
La libertà di manifestazione del pensiero è da sempre collegata alla nascita e al progresso dello Stato liberale ed è stata considerata lo specchio dei mutamenti che si sono verificai nei rapporti fra Stato e cittadini.
E' nel periodo dell'illuminismo che viene teorizzata originariamente la libertà di espressione, ed una sua prima applicazione pratica si è avuta nelle Costituzioni Americane e nella Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo del 1789 (art. 11), veri e propri elementi fondanti la moderna concezione dello Stato di diritto.
Da questo periodo in poi, in via progressivamente crescente le Carte fondamentali dei moderni Stati hanno contenuto un riferimento ai diritti fondamentali dell'uomo, fra i quali è menzionata la libertà di manifestazione del pensiero. Tuttavia, il processo è stato graduale, si pensi che lo Statuto Albertino non conteneva menzione di siffatta libertà, ma solo della libertà di stampa, nei limita stabiliti dalla legge che ne reprimeva gli abusi.
Una espressa suggello Costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero si è avuto in Italia solo con la Costituzione Repubblicana del 1948, momento dal quale si è iniziato a concepire tale tutela in necessario ed indissolubile collegamento con l'essenza stessa di essere umano.
Talvolta accade, tuttavia, che la libertà di manifestazione del pensiero, tutelata dall'art. 21 Cost., venga esercitata travalicando i limiti che le sono propri e comprimendo la sfera di altri diritti, anche essi costituzionalmente rilevanti; così avviene, ad esempio, laddove sia leso il bene giuridico del buon andamento dell'amministrazione ex art. 97 Cost.
Del difficile equilibrio fra le predette esigenze si trova testimonianza nelle sentenze che inquadrano la condotta di quei manifestanti, i quali spinti da motivazioni ed ideali anche condivisibili, esprimono il proprio dissenso rispetto a decisioni politiche, ponendo in essere atti che talora interrompono attività necessarie per l'intera collettività.
A tal riguardo, si pensi ai recenti fatti di occupazione dei binari ferroviari ad opera di giovani manifestanti decisi ad opporsi con decisione al trasporto di materiale per la costruzione o all'ampliamento di basi militari o di grandi opere infrastrutturali.
Nelle suindicate ipotesi l'interrogativo che si pone all'interprete è capire se vi siano gli estremi per l'integrazione della fattispecie astratta di interruzione di pubblico servizio, e laddove tali estremi sussistano, se effettivamente l'art. 340 c.p. sia l'unica norma applicabile al caso concreto.
A tal proposito occorre pur brevemente ricordare che la fattispecie astratta di cui all'art. 340 c.p. "interruzione di pubblico servizio" è stata introdotta dal legislatore a tutela dell'interesse alla continuità e regolarità dell'esercizio dei pubblici servizi e dei servizi di pubblica necessità. Ai fini della sussistenza del reato occorre sicuramente un apprezzabile disguido al buon andamento dei servizi pubblici, non bastando ad integrare la fattispecie un comportamento solo potenzialmente idoneo a cagionare il fatto. Con riferimento al caso dianzi menzionato della manifestazione con sit-in sui binari ferroviari, è rilevante ai sensi dell'art. 340 c.p. il solo comportamento che sia casualmente idoneo a cagionare un ritardo significativo dei convogli rispetto all'orario di arrivo nelle successive stazioni.
2- I criteri risolutivi del conflitto apparente di reati
Una volta formulate tali precisazioni, a volte per nulla superflue, l'analisi si snoda attraverso l'esame del ben più pregnante problema dell'effettivo inquadramento giuridico della fattispecie concreta, nei termini che segue.
Occorre, a tal fine, premettere che l'art. 340 c.p. è norma di carattere sussidiario, come si evince dall'inciso iniziale ("fuori dei casi preveduti da particolari disposizioni di legge"); ciò significa che trova applicazione solo nel caso in cui il fatto non sia espressamente previsto da specifiche disposizioni legislative. A tal riguardo non si dubitava in passato che nell'ipotesi di blocco ferroviario o stradale, trovasse applicazione l'art. 1 del d. lgs. n. 66 del 1948 prev. che puniva con la reclusione chiunque, al fine di impedire od ostacolare la libera circolazione, deponeva o abbandonava congegni o altri oggetti di qualsiasi specie in una strada ferrata od ordinaria o comunque ostruiva od ingombrava, allo stesso fine, la strada stessa.
Il problema della integrazione del reato di cui all'art. 340 c.p. nell'ipotesi di blocco ferroviario è nato, invece, a seguito delle modifiche apportate al d. lgs. n. 66 del 1948 (introdotto l'art. 1 bis) dal d. lgs. 507 del 1999, che ha depenalizzato la condotta di chi, al fine di impedire od ostacolare la libera circolazione, depone od abbandona congegni o altri oggetti di qualsiasi specie in una strada ordinaria o comunque ostruisce o ingombra una strada ordinaria o ferrata, prevedendo la mera punibilità con sanzione amministrativa. In particolare, è stata introdotta la clausola di sussidiarietà recante "se il fatto non costituisce reato".
Ebbene, la questione, che da subito si è posta all'attenzione dei pratici, attiene al rapporto fra il reato di cui all'art. 340 c.p. e l'illecito amministrativo di cui all'art. 1 bis d. lgs. n. 66 del 1948, in relazione alla fattispecie concreta di coloro che occupano una strada ferrata nell'ambito di una manifestazione. La problematica involge il più generale tema del concorso o conflitto apparente di norme.
Come è noto, il concorso o conflitto apparente di norme è la situazione in cui più norme appaiono tutte applicabili ad un medesimo fatto, ma in realtà una soltanto è ad esso riferibile, di talché in luogo di integrarsi un concorso fra una pluralità di reati si ha unicità di reato. A supporto di tale asserto tradizionalmente in dottrina viene avanzato l'esempio della condotta di furto di un oggetto altrui di tenue valore per provvedere ad un grave ed urgente bisogno. In tale ipotesi, si dice, sembrerebbe applicabile indifferentemente sia la condotta di cui all'art. 624 cp., sia quella di cui all'art. 626/1 n. 2 cp. "furto in stato di bisogno"; invece, in base alla regola suddetta solo la seconda norma ricomprende la presente fattispecie concreta e quindi, solo quest'ultima è applicabile.
Dunque, si è in presenza di un mero conflitto apparente di norme quando vi è una pluralità di norme applicabili; vi è identità del fatto, che appare contemplato da più norme; sussiste l'applicabilità di una sola norma.
Tale regola trova fondamento nel "principio del ne bis in idem sostanziale", che in tutte le ipotesi di concorso norme vieta di addossare più volte lo stesso fatto all'autore.
Ora, il tema generale da sempre al centro del dibattito scientifico attiene alla scelta dei criteri risolutivi del concorso apparente di norme.
A tal riguardo il primo criterio è stato individuato dal legislatore nella parte generale del codice penale, stabilendo all'art. 15 che "quando più leggi penali regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito".
Tale disposto normativo è stato tradizionalmente inteso dalla dottrina e dalla giurisprudenza nel senso che, ai fini del conflitto apparente, tutti gli elementi costitutivi di una fattispecie (generale) sono contenuti in un'altra fattispecie (speciale), la quale a sua volta ne contiene di ulteriori cd. specializzanti . Inoltre, la Cassazione sul punto ha precisato in modo suggestivo che le due disposizioni devono apparire "come due cerchi concentrici, di diametro diverso, per cui quello più ampio contiene in sé quello minore, ed ha inoltre, un settore residuo, destinato ad accogliere i requisiti aggiuntivi della specialità" .
Tuttavia, occorre sin da subito osservare che del principio di specialità è stata proposta più di una interpretazione. A tal proposito, parte della dottrina e un orientamento giurisprudenziale , accolto anche di recente in tema di rapporti fra delitto di maltrattamenti in famiglia e violenza sessuale , in base all'interpretazione dell'inciso "stessa materia" di cui all'art. 15 c.p., hanno affermato che per aversi specialità vi deve essere oltre al rapporto species a genus, anche la omogeneità dell'oggetto giuridico tutelato dalle due fattispecie incriminatrici.
In altre parole, secondo quest'ultima posizione, l'applicabilità del criterio di specialità sarebbe subordinato anche all'apprezzamento che le fattispecie poste a confronto tutelino lo stesso bene giuridico. In tal caso sarebbe, allora, da escludere il rapporto di specialità fra la norma che configura la violenza privata (art. 610 cp.) e quella che incrimina la violenza o minaccia a pubblico ufficiale (art. 336 cp.), essendo i beni rispettivamente protetti nell'un caso della libertà individuale, e nell'altro della pubblica amministrazione.
Inoltre, occorre fare menzione di un altro orientamento, a dire il vero poco seguito in giurisprudenza. Si parla volgarmente della c.d. "tesi del fatto concreto". I sostenitori di tale teoria ritengono che il concetto di "stessa materia", menzionato dal legislatore al capoverso dell'art. 15 c.p., farebbe riferimento non solo alle ipotesi nelle quali un medesimo fatto rientri nell'ambito di applicazione di più norme incriminatrici, ma anche a quelle in cui un medesimo fatto concreto sia riconducibile a due o più figure criminose, pur se tra le medesime non sussiste in astratto un rapporto di genere a specie.
A tal fine in dottrina viene menzionato il caso di scuola, dato dal rapporto fra millantato credito (art. 346 cp.) e truffa (art. 640). Si osserva che, ponendo a confronto le rispettive fattispecie incriminatrici astratte nessuna contiene in sé l'altra con l'aggiunta di uno o più elementi specializzanti; tuttavia, un rapporto di interferenza può realizzarsi fra le due norme incriminatrici se il reato di millantato credito è condotta rilevante ai fini della commissione del reato di truffa (peraltro la giurisprudenza non ha ritenuto l'esempio calzante, non ravvisando in tale ipotesi specialità).
Infine, altra parte della dottrina e della giurisprudenza ha esteso il rapporto di specialità ai casi di c.d. specialità reciproca, che sussistono quando nessuna norma è speciale o generale, ma ciascuna è ad un tempo generale e speciale, perché entrambe presentano elementi specifici ed elementi generici rispetto ai corrispondenti elementi dell'altra.
In tali ipotesi l'individuazione della norma applicabile, dicono le Sezioni Unite della Cassazione (C S.U. 30-4-'76), va operata con riferimento al criterio della maggiore specialità, ossia si deve attribuire prevalenza all'elemento più conforme alle esigenze di tutela della fattispecie concreta, anche con riferimento al più severo trattamento punitivo. Ad esempio tra gli artt. 336, 337 c.p. che puniscono i delitti di violenza o resistenza al pubblico ufficiale e l'art. 186 c.p.m.p., che punisce il delitto di insubordinazione con violenza. Le prime due norme presentano l'elemento specializzante del dolo specifico, mentre il reato di cui all'art. 186 c.p.m.p. presenta la qualifica del soggetto attivo di militare. Viene ritenuta,allora, prevalente l'art. 186 c.p.m.p. in quanto avente un più severo trattamento punitivo.
Accanto, al rigoroso criterio di specialità, altra parte della dottrina e alcuni orientamenti giurisprudenziali hanno ritenuto, tuttavia, che possa essere utile strumento di risoluzione del concorso apparente di norme il principio di sussidiarietà.
Secondo tale principio la norma principale esclude l'applicabilità della norma sussidiaria. A tal fine, si ritiene sussidiaria la norma che tutela un grado inferiore dell'identico interesse che è tutelato dalla norma principale in grado superiore, sicché la norma principale esaurisce l'intero disvalore del fatto. Quindi, si ha sussidiarietà fra due norme che tutelano lo stesso bene giuridico, ma ne prevedono un diverso grado di offesa.
In alcuni casi è lo stesso legislatore che indica un rapporto di sussidiarietà tramite l'utilizzo di una "clausola di riserva", come avviene nel reato di abuso di ufficio (art. 323) il quale è integrato, per espresso disposto legislativo, quando non risultino applicabili altre fattispecie più gravi poste sempre a tutela della pubblica amministrazione.
Tuttavia vi sono anche casi di sussidiarietà tacita come nel caso del rapporto fra la contravvenzione degli atti contrari alla pubblica decenza (art. 726 cp.) e il delitto di atti osceni (art. 527 cp.), ossia due figure di reato entrambe poste a protezione di un bene omogeneo, che si diversificano solo in ragione della diversa intensità dell'aggressione al medesimo bene arrecata.
Infine, ultimo ma non in ordine di importanza, è il criterio dell'assorbimento o della consunzione. Si tratta di un principio, elaborato in dottrina e accolto anche in giurisprudenza, non logico, ma di valore, impiegato per risolvere casi di conflitto apparente tra norme non risolubile con il criterio di specialità.
Il principio di consunzione esclude il concorso di reati quando la concretizzazione di un reato (ad esempio l'omicidio) comporta, secondo l'id quod plerumque accidit, la realizzazione di un altro reato (ad esempio la violenza sessuale), il quale, secondo una valutazione normativo sociale, appare assorbito al primo.
Tale regola troverebbe fondamento normativo nell'art. 15 c.p., laddove l'inciso "salvo che sia altrimenti stabilito" porrebbe una deroga all'utilizzo del principio di specialità.
In tali ipotesi, la giurisprudenza ritiene che la norma prevalente sia quella che prevede il più severo trattamento sanzionatorio, in quanto più grave è il reato e il disvalore del fatto.
3- I criteri risolutivi del conflitto apparente fra reato ed illecito amministrativo
Orbene, con particolare riguardo al rapporto fra illecito penale ed illecito amministrativo sanzionanti in via apparente il medesimo di comportamento, emergono le stesse difficoltà evidenziate con riguardo al tema del concorso apparente di reati. Stabilisce, infatti, l'art. 9 della l. n. 689 del 1981, che "quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, ovvero da una pluralità di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative, si applica la disposizione speciale".
A tal proposito prima dell'intervento del legislatore all'inizio degli anni '80, ogni qual volta sussisteva un concorso fra norme penali e norme che comminavano sanzioni amministrative, il problema veniva risolto con l'applicazione del cumulo delle sanzioni previste da illecito penale ed amministrativo .
Un mutamento di rotta si è verificato con l'entrata in vigore dell'art. 9 della l. n. 689 del 1981, che, seppur con alcune diversità testuali (in particolare la presenza dell'inciso "stesso fatto" al posto di quello "stessa materia", nonché l'assenza della clausola derogatoria "salvo che sia diversamente stabilito") ha riprodotto il principio sancito dall'art. 15 c.p.
Anche rispetto a tale materia il tenore letterale dell'art. 9 l. n. 689 del 1981 ha dato adito a dubbi interpretativi, nonostante l'illusoria chiarezza testuale. Difatti, si è dibattuto a lungo sulle modalità di risoluzione del conflitto nel concorso fra reato e illecito amministrativo, ed anche in tale ipotesi la giurisprudenza non è giunta a conclusioni univoche.
Si potrebbe asserire che pur variando i fattori del problema (illecito penale ed illecito amministrativo) il prodotto non cambia. In altri termini, anche in tale occasione, nonostante la più recente introduzione legislativa di cui alla l. n. 689 del 1981 (rispetto all'art. 15 c.p.), i parametri ermeneutici giurisprudenziali appaiono caratterizzati da notevole eterogeneità e ancora lontani dall'assicurare quella certezza del diritto da sempre anelata nella materia penalistica.
In concreto, gli orientamenti pretori appaiono combattuti fra coloro che paiono accogliere criteri di risoluzione c.d. strutturali e chi pare proporre meccanismi risolutivi fondati su apprezzamenti di valore, che assicurano maggiore elasticità nella risoluzione del caso concreto.
Un recente caso paradigmatico di tali difficoltà è costituito dal rapporto fra fattispecie astratta di cui all'art. 624 c.p. "furto" e la condotta di "prelievo abusivo di acque" sanzionata amministrativamente ex art. 17 r.d. n. 1775 del 1933 c.d. "T.U. acque pubbliche", come modificato dall'art. 23 d. lgs. n. 152 del 1999.
Ora, l'art. 93 "T.U. acque pubbliche" dispone che l'utilizzazione delle acque sotterranee per usi domestici può essere liberamente effettuata dal proprietario del fondo, purché vengano osservate le cautele prescritte dalla legge. Peraltro, il d. lgs. '99/152 all'art. 23 ha previsto la punibilità con una sanzione amministrativa dell'utilizzazione dell'acqua pubblica per uso industriale (ma non per uso domestico) senza provvedimento autorizzativo dell'autorità competente.
Ebbene, proprio rispetto al rapporto fra la predetta disposizione sanzionatoria amministrativa e la fattispecie di furto sono emersi rilevanti e non ancora sopiti contrasti in merito al criterio da adottare per risolvere l'ormai noto conflitto fra concorso fra illecito penale ed amministrativo. A tal fine, un orientamento emerso in seno alla giurisprudenza di legittimità ha accolto un criterio di valore, concludendo per la sussistenza del concorso e quindi del cumulo fra sanzione penale ed amministrativa.
In concreto, considerando che con la sanzione penale si tutelerebbe la proprietà e con quella amministrativa la salubrità delle acque, secondo tale pronuncia della Cassazione non potrebbe affermarsi la sussistenza di un conflitto apparente di norme.
Come si è tuttavia anticipato, un altro orientamento della Suprema Corte, sempre più numeroso al riguardo , non ha condiviso la precedente impostazione. Invero, non si è condivisa l'idea che il predetto giudizio possa essere fondato su un principio di valore, ossia l'identità di bene giuridico tutelato dalle fattispecie.
Secondo quest'ultima impostazione, ai fini di una corretta interpretazione dell'art. 9 l. n. 689 del 1981 sarebbe più corretto avere riguardo alla struttura delle fattispecie astratte poste a confronto.
Postulando tale criterio, allora la Suprema Corte ha osservato che le disposizioni in questione appaiono omogenee, in quanto regolano la stessa materia, (ossia l'impossessamento e la sottrazione di un bene altrui per proprio vantaggio), salva la presenza di alcuni elementi di specialità della fattispecie di cui al T.U. sulle acque pubbliche (rappresentati dall'oggetto dell'azione, ossia l'acqua pubblica, e dal dolo specifico, dovendo individuarsi il profitto perseguito nelle finalità industriali) rispetto alla norma incriminatrice di cui all'art. 624 c.p.
4- La questione del rapporto fra reato ex art. 340 c.p. e illecito amministrativo di cui all'art. 1 bis d. lgs. n. 66 del 1948
Ora, a seguito di questo copioso, ma necessario excursus, occorre ritornare al tema oggetto della presente disamina, ossia il rapporto fra il reato ex art. 340 c.p. e l'illecito amministrativo di cui all'art. 1 bis d. lgs. n. 66 del 1948 "blocco di binari".
A seguito della novella legislativa ex d. lgs. n. 507 del 1999, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che l'art. 1 bis d. lgs. n. 66 del 1948 si riferisce ai soli casi in cui detta condotta non si concretizzi in un impedimento effettivo e reale alla libera circolazione; pertanto nell'ipotesi in cui i congegni indicati nell'art. 1 bis abbiano cagionato la cessazione temporanea del servizio pubblico, il fatto è riconducibile alla fattispecie residuale di cui all'art. 340 c.p.. Tale conclusione è stata argomentata sul rilievo che l'art. 1 bis prevede una clausola di assorbimento o consunzione tale per cui il sistema sanzionatorio amministrativo resta applicabile solo se il fatto, per il suo concreto atteggiarsi, non sia di tale gravità da realizzare una fattispecie di reato, ivi compresa quella prevista dall'art. 340 c.p.
Ebbene, le suindicate conclusioni raggiunte dalla Cassazione appaiono, a parere di chi scrive, per più versi criticabili.
In primo luogo, il ricorso a criteri di valore come quello della consunzione o assorbimento, per risolvere questioni di conflitto apparente di norme, è stato definitivamente criticato dalla recente giurisprudenza della Cassazione a Sezioni Unite nel 2005 (Cass. Sez. Un. 20.12.2005 n. 41164 in tema di rapporto fra ricettazione ex art. 648 c.p. e detenzione e immissione in commercio di supporti audiovisivi illecitamente riprodotti ex art. 171 ter l. n. 633 del 1941), che giunge ad assumere una netta presa di posizione favorevole al principio di specialità.
Le Sezioni Unite osservano, infatti, che il ricorso a criteri di valore quale il principio di consunzione, in quanto non previsto dalla legge, non è idoneo ad assicurare certezza, ed è in contrasto col principio di legalità.
In particolare, si afferma che la clausola di salvezza di cui all'art. 15 c.p. non può essere sufficiente a fondare altri criteri di composizione dei conflitti diversi e meno rigorosi da quello di specialità, salvo non vi sia una espressa clausola normativa di riserva al riguardo ("Tuttavia i criteri di assorbimento e di consunzione sono privi di fondamento normativo, perché l'inciso finale dell'art. 15 c.p. allude evidentemente alle clausole di riserva previste dalle singole norme incriminatrici, che, in deroga al principio di specialità, prevedono, sì, talora l'applicazione della norma generale, anziché di quella speciale, considerata sussidiaria; ma si riferiscono appunto solo a casi determinati, non generalizzabili. E infatti è appunto un'esplicita clausola normativa di riserva a escludere il concorso tra le condotte di produzione e di immissione in circolazione dei supporti illecitamente prodotti. Inoltre i giudizi di valore che i criteri di assorbimento e di consunzione richiederebbero sono tendenzialmente in contrasto con il principio di legalità, in particolare con il principio di determinatezza e tassatività, perché fanno dipendere da incontrollabili valutazioni intuitive del giudice l'applicazione di una norma penale"), cosa della quale si dubita nel caso oggetto del presente procedimento.
A tal proposito, si osservi che anche il tenore letterale degli artt. 340 c.p. e 1 bis d. lgs. n. 66 del 1948 non è univoco. Infatti, è pur vero che la clausola di consunzione contenuta all'art. 1 bis fa riferimento alle ipotesi in cui "il fatto non costituisce reato", ma è anche vero che una clausola di sussidiarietà è prevista all'art. 340 c.p., laddove è prevista la punibilità del fatto "fuori dei casi preveduti da particolari disposizioni di legge" (di legge, senza specificare di reato o di illecito amministrativo).
Allora, è chiaro che la conclusione secondo cui la fattispecie concreta di blocco dei treni rientrerebbe nell'ipotesi di cui all'art. 340 c.p., la quale a sua volta assorbirebbe la fattispecie astratta di cui all'art. 1 bis, non può essere affermata in termini apodittici, come ritiene la giurisprudenza di legittimità, ma deve essere quantomeno assistita dal beneficio del dubbio.
In altre parole, quanto l'autore intende mettere in luce è la difficoltà di risolvere la predetta questione alla luce delle clausole di riserva previste espressamente dal legislatore. Si potrebbe sostenere, infatti, che a causa di un difetto di coordinamento legislativo, se si seguissero alla lettera le clausole di esclusione predette si arriverebbe alla paradossale conclusione che nessuna delle due norme incriminatrici sarebbe applicabile. Invero, da una parte sarebbe esclusa l'applicabilità della fattispecie di cui all'art. 1 bis d. lgs. n. 66 del 1948 in base all'inciso "se il fatto non costituisce reato", dall'altra non potrebbe operare neppure la norma di cui all'art. 340 c.p. in forza dell'asserto ivi contenuto: "fuori dei casi preveduti da particolari disposizioni di legge".
Per evitare siffatto corto circuito normativo, si propone di risolvere questa difficile ipotesi di conflitto apparente di norme in base principio di specialità, previsto dall'art. 9 della l. n. 689 del 1981.
A tal riguardo, si deve osservare che mentre la disposizione di cui all'art. 340 c.p. punisce il cagionare un'interruzione al servizio pubblico, invece l'art. 1 bis d. lgs. n. 66 del 1948 incrimina la specifica condotta di chi ostacola la libera circolazione ingombrando una strada ferrata. Quindi è chiaro il rapporto fra le due fattispecie sia di species a genus, infatti il "blocco dei binari" (contemplata dall'art. 1 bis) è solo una delle modalità attraverso le quali può essere determinata un'interruzione del servizio pubblico (di cui all'art. 340 c.p.).
Infine, il "cerchio si chiude" osservando come l'illecito amministrativo in parola sia caratterizzato dal dolo specifico ("al fine di ostacolare o impedire la libera circolazione"), elemento idoneo a conferire ulteriore specialità rispetto alla fattispecie di cui all'art. 340 c.p., che richiede quale elemento soggettivo il dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di interrompere l'ufficio o il servizio, o di turbarne il funzionamento.
Tale conclusione, non è per nulla peregrina, tanto che già in passato è stata sostenuta dalla giurisprudenza di merito , seppur timidamente.
Ora, la suindicata impostazione dovrebbe essere rivalutata alla luce delle recente giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione, le quali hanno riaffermato con grande forza l'esclusione del principio di consunzione fra i criteri compatibili col principio di legalità e tassatività.
Dunque, a parere dell'Autore la condotta di chi occupa i binari ferroviari a seguito di una manifestazione, cagionando ritardo nei trasporti, non integra il reato di cui all'art. 340 c.p., ma il mero illecito amministrativo di cui all'art. 1 bis d. lgs. n. 66 del 1948.
Si deve allora concludere che l'odierna impostazione realizza un ragionevole equilibrio fra la tutela della collettività nell'affidamento dei servizi pubblici e la libertà di manifestazione del pensiero, troppo spesso sacrificata sull'altare della ragion di Stato.