In tema di detenzione di sostanze stupefacenti, integra la connivenza non punibile una condotta meramente passiva, consistente nell’assistenza inerte, inidonea ad apportare un contributo causale alla realizzazione dell’illecito, di cui pur si conosca la sussistenza, mentre ricorre il concorso nel reato nel caso in cui si offra un consapevole apporto - morale o materiale - all’altrui condotta criminosa, anche in forme che agevolino o rafforzino il proposito criminoso del concorrente.
Corte di Cassazione
sez. IV Penale, sentenza 19 giugno – 2 luglio 2020, n. 19875
Presidente Fumu – Relatore Cenci
Ritenuto in fatto
1. Il Tribunale per il riesame di Bologna, adito ai sensi dell’art. 309 c.p.p., a scioglimento della riserva assunta all’esito dell’udienza camerale del 25 novembre 2019, con provvedimento del 27 novembre - 27 dicembre 2019 ha confermato integralmente l’ordinanza con cui il G.i.p. del Tribunale di Parma il 7 novembre 2019, all’esito dell’udienza fissata per la convalida dell’arresto operato dalla polizia giudiziaria, ha applicato, per quanto in questa sede rileva, a M.L. in relazione a fatti di droga la misura cautelare della custodia in carcere.
2. M.L. è indagato per detenzione a fine di cessione, in concorso con il cognato C.E. , di otto panetti di cocaina, del peso complessivo di più di 8,5 kg., rinvenuti dalla polizia giudiziaria il 4 novembre 2019 all’interno di un garage le cui chiavi erano nella disponibilità di entrambi; con l’aggravante per entrambi della ingente quantità del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, ex art. 80, e per il solo M.L. della recidiva reiterata e specifica.
3. Ricorre per la cassazione dell’ordinanza l’indagato, tramite difensore di fiducia, affidandosi a tre motivi, con i quale denunzia violazione di legge (i primi due motivi) e difetto di motivazione (il terzo).
3.1. Con il primo motivo, in particolare, lamenta la ritenuta violazione dell’art. 309 c.p.p., comma 10.
Il ricorrente rammenta che il dispositivo del provvedimento di rigetto è stato depositato il 27 novembre 2019, sicché si sarebbe dovuta depositare la motivazione entro il trentesimo giorno, cioè il 27 dicembre 2019, ed afferma di essersi più volte informato presso la Cancelleria, tramite collega difensore, circa l’avvenuto deposito o meno dell’ordinanza, ricevendo sempre risposta negativa e ciò "dalla data del 27.11.2019 e fino ai primi giorni di gennaio (2020)" (così alla p. 4 del ricorso); e che, avendo programmato di recarsi ulteriormente in Cancelleria il 17 gennaio 2020 di persona al fine di chiedere un’attestazione circa il mancato deposito e così poter chiedere al Tribunale la declaratoria di perdita di efficacia dell’ordinanza, il giorno 16 gennaio 2020 è stata notificata a mezzo posta elettronica certificata (p.e.c.) l’ordinanza di rigetto.
Ciò posto, il difensore avanza sospetti circa la veridicità dell’attestazione dell’avvenuto deposito entro il trentesimo giorno, poiché altrimenti - si opina nel ricorso - non si spiegherebbe "come mai l’ordinanza, completa di motivazione, o anche solo l’avviso di deposito, sono stati notificati la bellezza di 20 giorni dopo la sua pubblicazione e non nell’immediatezza (... e nemmeno) come mai, in tutti gli accessi effettuati dopo il 27.12.2019, la cancelleria dichiarava che allo stato nessun deposito era ancora avvenuto, quando invece le motivazioni erano state rese già conoscibili ai terzi" (così alla p. 5 del ricorso).
Il ricorrente si dichiara consapevole che "(...) la questione potrebbe essere risolta con una querela di falso nei confronti dell’assistente giudiziario che ha apposto timbro e sottoscrizione attestanti l’avvenuto deposito nella data del 27.11.2019. Ma di certo risulta evidente che l’attesa per una decisione di tale azione civile richiederebbe troppo tempo; tempo che il soggetto in vinculis non può permettersi, (... sicché) sarebbe allora più opportuno far coincidere il termine di trenta giorni stabiliti dall’art. 309 c.p.p., comma 10, per la stesura della motivazione non solo con la pubblicazione ma anche con la sua integrale notificazione al difensore (o perlomeno con la notificazione dell’avviso di deposito della stessa). Ciò eviterebbe tutti i dubbi su eventuali retrodatazioni dell’avvenuto deposito in cancelleria dell’ordinanza completa di motivazione. L’articolo in esame (cioè l’art. 309 c.p.p., comma 10, ad avviso del ricorrente,) risulta quindi illegittimo in quanto fa dipendere lo scadere di un termine perentorio con il compimento di un "atto interno" degli uffici giudiziari esulante dal controllo della difesa (...) Si potrebbe contraddire che basterebbe, come peraltro era intenzione di questo difensore, recarsi in cancelleria al fine di farsi rilasciare una dichiarazione di "mancato deposito"; ma non sarebbe difficile da immaginare che in mancanza di una norma processualpenalistica che legittimi una tale richiesta, gli assistenti giudiziari saranno poco propensi a rilasciare una dichiarazione in tal senso (al fine di non assumersi alcuna responsabilità " (così alle pp. 5-6 del ricorso).
In conseguenza, si chiede alla Corte di cassazione di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 309 c.p.p., comma 10, nella parte in cui non prevede che la misura cautelare perda efficacia ove entro i termini prescritti l’ordinanza sia, oltre che depositata, notificata al difensore.
3.2. Con l’ulteriore motivo il ricorrente censura la violazione dell’art. 110 c.p. e il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, essendo illegittima, erronea e non adeguatamente motivata la conferma da parte del Tribunale del quadro indiziario a carico di M.L. .
In realtà, ad avviso della difesa, le pp. 8-10 dell’ordinanza impugnata potrebbero compendiarsi nella frase l’indagato "non poteva non sapere", trascurando i consolidati principi di legittimità in tema di distinzione tra concorso, materiale ovvero morale, nel reato, da un lato, e, dall’altro, connivenza non punibile, tale ultima essendo, ad avviso della difesa, la effettiva posizione del ricorrente, che si è limitato a mettere a disposizione del cognato - fratello della moglie - il garage, senza nemmeno la prova che M. sapesse, al momento della consegna delle chiavi, che il cognato avrebbe in seguito utilizzato il locale per nascondere la droga ("Quello che il C. avrebbe fatto successivamente alla consegna delle chiavi (avvenuta (...) in settembre), M.L. non poteva saperlo nè prevederlo": così alla p. 9 del ricorso).
Nè sarebbe verosimile che più di 8 kg di droga siano rimasti nel garage per due mesi, dalla consegna delle chiavi, avvenuta nel mese di settembre, sino a novembre: ad avviso del ricorrente, "È infatti massima d’esperienza che il soggetto incaricato di ricevere, per poi rivendere, il carico di stupefacente soprattutto se di ingente quantità - tenda a custodirlo per il più breve lasso di tempo possibile al fine di evitare di essere scoperto" (così alla p. 9 del ricorso).
Si confuta, poi, la pertinenza dei precedenti di legittimità richiamati nell’ordinanza impugnata dai giudici di merito, contrapponendo ad essi altri precedenti che si stimano, invece, applicabili al caso di specie.
3.3. Infine, mediante l’ultimo motivo M.L. si duole della illogicità e contraddittorietà della motivazione in relazione alla consapevolezza da parte di M.L. della presenza della droga nel proprio garage.
Il ricorrente evidenzia come il Tribunale di Bologna abbia ritenuto che l’indagato fosse consapevole della presenza della droga nascosta nel proprio locale in base alle seguenti ragioni:
1) in primo luogo, in base alla "massima di esperienza per cui un narcotrafficante (C.E.) non possa custodire la droga nel garage in uso comune di un parente senza rendere edotto quest’ultimo e coinvolgerlo rimunerativamente nell’attività illecita per il rischio di perdere l’enorme valore del carico per l’affidamento all’imprevedibile comportamento e reazione di un custode inconsapevole di ciò che custodisce" (così alla p. 13 del ricorso);
2) inoltre, perché "C.E. , era in procinto di allontanarsi per un certo periodo dall’Italia, dunque sarebbe stato impensabile che lo stesso potesse lasciare lo scatolone con la cocaina in garage alla mercè del cognato inconsapevole" (così alla p. 14 del ricorso);
3) ancora, perché "C. , evitando di far conoscere al cognato l’esistenza della sostanza nel garage di quest’ultimo, l’avrebbe fatto esporre ad un grave pericolo per la libertà personale, in caso di rinvenimento della droga da parte delle forze dell’ordine" (così alla p. 14 del ricorso);
4) infine, perché la polizia giudiziaria, appostata il (omissis) , ha visto M.L. con la propria auto raggiunger C.E. , scendere dal veicolo e salire su quello di C. , quindi uscire dall’abitacolo con una busta in mano e recarsi nel garage, da cui poi è uscito ma senza la busta, con ogni probabilità contenente qualcosa di illecito e lasciata all’interno (p. 15 del ricorso).
Sul presupposto che tali siano le ragioni fondanti la motivazione dell’ordinanza impugnata, le riferite proposizioni vengono sottoposte a critica.
3.3.1. Quanto alla prima, alla ritenuta "massima di esperienza per cui un narcotrafficante (C.E. ) non possa custodire la droga nel garage in uso comune di un parente senza rendere edotto quest’ultimo e coinvolgerlo rimunerativamente nell’attività illecita per il rischio di perdere l’enorme valore del carico per l’affidamento all’imprevedibile comportamento e reazione di un custode inconsapevole di ciò che custodisce", il ricorrente ne contrappone un’altra, secondo cui "la custodia di un carico di droga di così rilevanti dimensioni fa propendere per una vendita quasi immediata della stessa a seguito della ricezione (...) Dunque, che bisogno c’era di informare il cognato della presenza - occulta della sostanza quando molto probabilmente lo stesso non se ne sarebbe neanche accorto (...) Ed anche se l’avesse scoperto, probabilmente il C. confidava che lo stretto legame di parentela con il M. avrebbe comunque convinto quest’ultimo a parlare della faccenda con il cognato prima di denunciarlo alle autorità (anche questa è massima d’esperienza meritevole di attenzione). In ogni caso, agli atti non è stata fornita la prova del fatto che il M. fosse stato effettivamente remunerato per l’aiuto presuntivamente fornito al C. nell’attività di spaccio" (così alle pp. 13-14 del ricorso).
3.3.2.Quanto, poi, all’assunto secondo cui "C.E. , era in procinto di allontanarsi per un certo periodo dall’Italia, dunque sarebbe stato impensabile che lo stesso potesse lasciare lo scatolone con la cocaina in garage alla mercè del cognato inconsapevole" (così alla p. 14 del ricorso), si osserva che l’assunto contrasta con quanto dichiarato da C. al G.i.p. nell’interrogatorio il 7 novembre 2019, cioè di avere detto al cugino che c’era la droga nel garage solo pochi minuti prima dell’intervento della polizia, che C. non sarebbe mai partito per l’estero asciando la droga incustodita e che ne aveva parlato con i cognato il giorno prima, ossia il 3 novembre 2019, confidando che, in ragione del legame di parentela, sarebbe stata evitata ogni denuncia.
3.3.3.In relazione all’affermazione che "C. , evitando di far conoscere al cognato l’esistenza della sostanza nel garage di quest’ultimo, l’avrebbe fatto esporre ad un grave pericolo per la libertà personale, in caso di rinvenimento della droga da parte delle forze dell’ordine" (così alla p. 14 del ricorso), se ne evidenzia la ritenuta illogicità, in quanto il pericolo per la libertà di M.L. vi sarebbe stato sia se consapevole sia se inconsapevole di quanto contenuto nel garage; e "in ogni caso, nell’ordinanza non vengono spiegate quali siano le altre "innumerevoli alternative" possedute dal C. al fine dell’occultamento dello stupefacente" (così alla p. 14 del ricorso).
3.3.4. Infine, quanto al rilievo che la polizia giudiziaria appostata il (OMISSIS) , ha visto M.L. con la propria automobile raggiunger C.E. , scendere dal veicolo e salire su quello di C. , quindi uscire dall’abitacolo con una busta in mano e recarsi nel garage, da cui poi è uscito ma senza la busta, con ogni probabilità contenente qualcosa di illecito e lasciata all’interno (p. 15 del ricorso), si osserva che al momento della perquisizione nel garage non è stato trovato denaro, ipoteticamente contenuto nella busta, che non vi è prova che vi fosse droga ulteriore rispetto a quella trovata nei panetti e che il Tribunale ha trascurato che entrambi gli indagati hanno dichiarato che nella busta vi era un regalo di C.E. , per il figlio di M.L. .
Si chiede, dunque, l’annullamento dell’ordinanza impugnata.
4. Il P.G. della Corte di cassazione nelle conclusioni scritte del 14 maggio 2020 ha chiesto dichiarasi manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale ed inammissibile il ricorso.
Considerato in diritto
1. La questione di legittimità costituzionale prospettata con il primo motivo di ricorso è manifestamente infondata.
L’intera costruzione si basa, infatti, su una mera illazione, che cioè il Cancelliere abbia posto in essere un falso attestando una data di deposito dell’ordinanza difforme dal vero; nè il ricorrente introduce alcun serio elemento, a parte quanto riferitogli da un innominato collega incaricato di chiedere notizie in Cancelleria, che possa far pensare ad una data di deposito diversa dal vero.
Manifestamente destituita di fondamento risulta la ipotizzata questione di legittimità, chiedendosi, in ultima analisi, alla Corte costituzionale una pronunzia additiva al dichiarato - inaccettabile, nei termini di sospetto in cui è espresso scopo di prevenire false attestazioni da parte di pubblici ufficiali che sono tenuti, per "statuto professionale", a certificare il vero, garantendo, tra l’altro, la data del deposito e, così, l’esercizio del diritto di difesa. Non senza considerare che nel ricorso si adducono variabili difficoltà fattuali nella conoscenza del deposito del provvedimento che sono del tutto irrilevanti per la valutazione di costituzionalità.
2. Quanto al secondo ed al terzo motivo, si osserva che in buona sostanza, i giudici di merito (pp. 5-6 e 8-10 del provvedimento impugnato) ritengono l’odierno ricorrente complice del cognato e non solo connivente con lo stesso perché:
1) sia M.L. che C.E. , avevano pacificamente le chiavi del garage in cui era contenuta la droga; il primo, infatti, aveva stipulato nei primi giorni di settembre 2019 un contratto di affitto tramite la moglie e pochi giorni dopo aveva dato una chiave del locale al cognato, mantenendone una per sé;
2) due giorni prima della perquisizione, la mattina del (OMISSIS) , i due sono stati visti dalla polizia giudiziaria in atteggiamento sospetto fuori del garage ed il ricorrente entrare con una busta di grandi dimensioni in mano, per poi uscire dal locale senza di essa;
3) M.L. ha - si è stimato - implausibilmente negato l’incontro, osservato dalla polizia giudiziaria, del pomeriggio del (OMISSIS) , negatoria dalla quale il Tribunale desume che si tratti di qualcosa di illecito;
4) sarebbe inverosimile che M.L. non si sia accorto della presenza di due pani di droga, visto che continuava ad avere accesso al garage, ove conservava gli alimenti necessari per l’attività della sua pizzeria;
5) più in generale, i due sono stati osservati più volte incontrarsi e recarsi al garage;
6) atteso lo stretto grado di parentela tra gli indagati e l’elevato pericolo in caso di ritrovamento della droga, nonostante i due abbiano dichiarato di avere rivelato (C.E. ) e saputo (M.L. ) della presenza della droga solo poco prima dell’intervento della polizia, ad avviso del Tribunale per il riesame sarebbe inverosimile che colui che nasconda la sostanza (C.E. ), per di più ove in procinto di allontanarsi per l’estero, non informi l’altro (M.L. ), che ha del pari la materiale disponibilità del locale.
2.1. Si tratta di motivazione nel complesso adeguata, logica e congrua, che resiste alle censure difensive, tutte peraltro costruite in fatto.
2.2. Quanto alla differenza tra connivenza e complicità, il Tribunale ha fatto corretta applicazione dei principi di diritto già in più occasioni puntualizzati dalla S.C. Infatti (a titolo di esempio):
"In tema di detenzione di sostanze stupefacenti, integra la connivenza non punibile una condotta meramente passiva, consistente nell’assistenza inerte, inidonea ad apportare un contributo causale alla realizzazione dell’illecito, di cui pur si conosca la sussistenza, mentre ricorre il concorso nel reato nel caso in cui si offra un consapevole apporto - morale o materiale - all’altrui condotta criminosa, anche in forme che agevolino o rafforzino il proposito criminoso del concorrente" (Sez. 3, n. 41055 del 22/09/2015, Rapushi ed altro, Rv. 265167);
"In tema di detenzione di sostanze stupefacenti, la distinzione tra connivenza non punibile e concorso nel reato commesso da altro soggetto va individuata nel fatto che la prima postula che l’agente mantenga un comportamento meramente passivo, inidoneo ad apportare alcun contributo causale alla realizzazione del reato, mentre il secondo richiede un consapevole contributo positivo - morale o materiale - all’altrui condotta criminosa, anche in forme che agevolino o rafforzino il proposito criminoso del concorrente" (Sez. 3, n. 34985 del 16/07/2015, Caradonna e altro, Rv. 264454);
"Ai fini della sussistenza del concorso di persone nel reato, non basta un comune interesse accompagnato da vincoli interpersonali o un ruolo di virtuale adesione al delitto ma occorre un contributo concreto alla realizzazione dello stesso" (Sez. 6, n. 9575 del 30/04/1999, Lisciotto, Rv. 214317);
"Ai fini della sussistenza del concorso di persone nel reato è necessario un contributo causale in termini, sia pur minimi, di facilitazione della condotta delittuosa mentre la semplice conoscenza o anche l’adesione morale, l’assistenza inerte e senza iniziative a tale condotta non realizzano la fattispecie concorsuale" (Sez. 4, n. 3924 del 05/02/1998, Brescia ed altri, Rv. 210638);
"In tema di concorso di persone nel reato, si configura la partecipazione morale e non la mera presenza passiva allorquando la mancata assunzione di qualsiasi iniziativa e il mantenimento di un atteggiamento di "non intervento" esprime una condotta obiettivamente e logicamente valutabile come adesione all’altrui azione criminosa, con il correlativo rafforzamento della volontà dell’esecutore materiale" (Sez. 5, n. 2 del 22/11/1994, dep. 1995, Sbrana e altro, Rv. 200310).
3. In conclusione, alla presa d’atto circa la manifesta infondatezza sia della prospettata (con il primo motivo) questione di costituzionalità sia del contenuto del secondo e del terzo motivo di ricorso consegue, di necessità, la statuizione in dispositivo; con condanna del ricorrente al versamento alla Cassa delle ammende della somma indicata nella misura stimata conforme a diritto ed equa.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.