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Condotta azzardata, ma colpa non diventa dolo (Cass. 32275/22)

2 settembre 2022, Cassazione penale

Un comportamento improntato a grave azzardo non può essere definito doloso, quasi che la distinzione tra dolo e colpa fosse basata su un dato "quantitativo" della sconsideratezza della condotta (uguagliando la maggiore sconsideratezza al maggiore tasso di rappresentazione e volizione), piuttosto che su un accurato esame delle specificità del caso concreto, attraverso il quale pervenire al dato differenziale di fondo: ossia attribuire o meno al soggetto attivo un atteggiamento di volizione dell'evento lesivo o mortale (intesa in senso ampio, ossia comprensiva dell'accettazione dell'eventualità concreta).

Il vizio di travisamento della prova può essere dedotto con il ricorso per cassazione, nel caso di cosiddetta "doppia conforme", sia nell'ipotesi in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice, sia quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Sez. I, Sent., (data ud. 29/04/2022) 02/09/2022, n. 32275

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TARDIO Angela - Presidente -

Dott. CENTOFANTI Francesco - Consigliere -

Dott. POSCIA Giorgio - rel. Consigliere -

Dott. MAGI Raffaello - Consigliere -

Dott. CENTONZE Alessandro - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

C.M., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 30/10/2020 della Corte di assise di appello di Torino;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. GIORGIO POSCIA;

sentita la requisitoria con cui il Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. COCOMELLO ASSUNTA, ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;

sentiti i difensori del ricorrente avv.ti AC e AP che hanno insistito per l'accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 30 ottobre 2020 la Corte di assise di appello di Torino ha, per quanto qui di interesse, parzialmente riformato la sentenza del G.i.p. del Tribunale di Asti (emessa all'esito di giudizio abbreviato) in data 14 giugno 2019 e ha dichiarato C.M. colpevole del delitto di cui all'art. 575 c.p., in relazione all'art. 577 c.p., n. 2 e art. 61 c.p., n. 1, 5 e 11, così come originariamente contestato al capo A), nonchè del reato di cui al capo B) della rubrica e, previo riconoscimento del vincolo della continuazione e delle attenuanti generiche ritenute equivalenti rispetto alle contestate aggravanti, lo ha condannato alla pena di anni quattordici e mesi quattro di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali, e lo ha dichiarato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e in stato di interdizione legale per la durata della pena.

C.M. era imputato:

A) "del delitto previsto e punito dall'art. 575, in relazione all'art. 577 c.p., n. 2, art. 61 c.p., n. 1, 5 e 11, per avere cagionato la morte di T.G.B. degente presso l'Ospedale di (OMISSIS), affidato alle sue cure in veste di infermiere di reparto; nella specie, somministrandogli, senza alcuna prescrizione, al solo fine di agevolarne la sedazione, provocandone la morte per insufficienza respiratoria acuta ed importante edema polmonare emorragico acuto in grave inibizione del sistema nervoso centrale, generando effetti inibitori centrali a livello terapeutico rispetto alla terapia psicofarmacologica di fondo, midazolam per via endovenosa anche in assenza della prudente predisposizione delle condizioni e delle modalità di distribuzione del farmaco; inoltre, ometteva di fornire ai soccorritori rianimatori le doverose informazioni circa l'avvenuta e continuata somministrazione del midazolam, impedendo di fatto la immediata e pronta somministrazione di farmaci con effetti antitetici a quelli nefasti in corso (farmaci antagonisti presenti nel reparto); con le circostanze aggravanti di avere commesso il fatto usando sostanze venefiche, agendo per motivi abietti e futili, dettati dalla esigenza di sedazione del paziente per scongiurare un continuo monitoraggio delle condizioni dello stesso, approfittando di circostanze di tempo, di luogo e di persona, anche in ragione dell'età, dello stato psicofisico e del ricovero in una struttura ospedaliera, affidato così alle cure di personale specializzato, tali da ostacolare la difesa pubblica e privata, oltre che agendo con abuso di prestazione d'opera, avendo somministrato un farmaco letale fuori dalla prescrizione medica e del tutto contro indicato rispetto alle condizioni generali del paziente curate con una adeguata terapia in corso; segnatamente, la somministrazione del farmaco midazolam si andava ad aggiungere al trattamento terapeutico in atto con diverso farmaco di tipo benzodiazepinico regolarmente prescritto in cartella clinica, causando una tossicità da sovradosaggio con conseguente (nota) depressione respiratoria, circostanza taciuta al personale medico intervenuto nella fase della rianimazione con conseguente decesso, eziologicamente collegato alla sua condotta. In (OMISSIS)";

B)"del delitto previsto e punito dall'art. 476 c.p. perchè, quale infermiere professionale che ha avuto in cura il paziente T.G.B. presso l'Ospedale (OMISSIS) quale pubblico ufficiale nell'esercizio delle funzioni nella redazione del diario infermieristico incorporato nella cartella clinica, alterava un atto vero, facendo materialmente aggiungere alla tirocinante R.Y. (indotta allo scopo) come colei che aveva già materialmente vergato il diario la frazione /2 alla somministrazione del farmaco onde fare apparire un dosaggio dimezzato di entumin. In (OMISSIS) il 26 ottobre 2015".

2. Il G.i.p., con la sentenza di primo grado, ha riqualificato il fatto di cui al capo A) della rubrica come omicidio colposo e - previo riconoscimento della diminuente del rito - ha condannato C.M. alla pena di anni tre e mesi quattro di reclusione per il reato sub A) e alla pena di anni due e mesi quattro per quello sub B) e così, complessivamente, ad anni cinque e mesi otto di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali, con la pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici e dell'interdizione legale per la durata della pena inflitta.

Il primo giudice, inoltre, ha escluso la continuazione tra i due reati contestati stante il loro differente elemento psicologico.

2.1. La sentenza di primo grado ha dato rilievo alle dichiarazioni rese dalla tirocinante R.Y., definita dal G.i.p. il "motore" della vicenda avendo stimolato, con le proprie dichiarazioni, l'atto di denuncia formalizzato dall'ufficio legale dell'ospedale di (OMISSIS) dopo che essa (affidata a C.M. che era il suo tutor) ne aveva parlato con alcuni colleghi e altre persone, tra cui anche un suo professore universitario.

In particolare, la tirocinante aveva dichiarato che il giorno 27 ottobre 2015, appena dopo le ore 14.00, il C. - che poco prima le aveva detto di non avere intenzione di passare un pomeriggio come quello del giorno precedente, durante il quale il paziente T. era stato molto agitato e difficile da gestire - aveva iniettato il contenuto di una siringa da 10 ml nella flebo del citato degente che poi ha mandato a goccia vigorosa (circa 1 o 2 gocce al secondo). Dopo circa quindici minuti il paziente era del tutto soporoso in stato di evidente sedazione; intorno alle ore 15.30 il colorito del T. era diventato sempre più giallognolo con un respiro affannoso, dopo di che il colorito era divenuto sempre più grigio e il respiro si caratterizzava per l'emissione di un fischio. Successivamente l'imputato aveva utilizzato il defribrillatore e aveva chiamato altri infermieri; sopraggiunto un medico anestesista per un altro paziente, resosi conto della situazione aveva iniziato le manovre per rianimare il paziente, ma inutilmente in quanto egli moriva poco dopo.

La R. inoltre ha riferito che il C., dopo il decesso, le aveva chiesto di modificare la cartella infermieristica nel senso di aggiungere a penna /2 in modo da documentare il dosaggio di mezza fiala di talofen anzichè di una intera.

Alla denuncia aveva poi fatto seguito la riesumazione del corpo del T. e i successivi accertamenti di natura farmacologica effettuati dal consulente del Pubblico ministero.

Il G.i.p., quindi, ha ritenuto che quanto riferito dalla R. non lasciava dubbi in merito agli accadimenti; inoltre, ha ipotizzato - anche sulla base di altre testimonianze - che il C. avesse l'abitudine di somministrare dosi eccessive e non prescritte di sedativi al fine di rendere innocui i pazienti più agitati.

Sulla base delle varie testimonianze ha, poi, escluso che il midazolam fosse stato somministrato nel corso delle operazioni di rianimazione.

2.2. Inoltre, il G.i.p. ha fatto proprie le conclusioni cui erano giunti i periti da lui nominanti (dottori R.F. e L.F.A.), i quali avevano concluso nel senso che la somministrazione del midazolam - in associazione con la terapia farmacologica somministrata al paziente - aveva rivestito un ruolo causale o concausale nel determinismo della morte, a prescindere dalle altre sostanze rinvenute nel corpo riesumato del paziente e, soprattutto, da quelle la cui somministrazione era stata imposta dalla situazione di emergenza provocata dal midazolam, tenuto anche conto che, a livello diagnostico, non erano emersi elementi o circostanze tali da far desumere che il paziente potesse andare incontro al peggioramento repentino che aveva comportato l'intervento del rianimatore, peraltro non chiamato dall'imputato.

Al contrario, il G.i.p. non ha ritenuto condivisibili le censure espresse dalla difesa circa la possibilità che la morte del T. potesse essere dipesa dal rinvenimento nel cadavere di atropina, adrenalina e cloatipina indipendentemente dalla somministrazione del midazolam. Nel cadavere riesumato del T., infatti, era stato rinvenuto del midazolam, nonchè sertralina, clotiapina, aloperidolo, promazina, nebivololo, ketorolac e atropina (queste due ultime sostanze, assieme al midazolam, non rientranti tra i farmaci in prescrizione); infine, nella sede di probabile accesso venoso era stata riscontrata la presenza di midazolam, atropina e clotiapina.

Analogamente, il G.i.p. ha ritenuto dimostrata, sulla base della testimonianza della R. e della consulenza grafologica fatta espletare dal Pubblico ministero, la falsificazione del diario infermieristico incorporato nella cartella clinica (materialmente effettuata dalla tirocinante, ma avvenuta su indicazione dell'imputato) con l'aggiunta della frazione /2 alla somministrazione del farmaco allo scopo di fare apparire un dosaggio dimezzato dell'entumin. 2.3. Quanto all'elemento soggettivo del reato, ha escluso la configurabilità nella fattispecie del dolo eventuale (come invece sostenuto dalla pubblica accusa), ritenendo piuttosto sussistente la colpa cosciente dell'imputato, poichè - pur in presenza di dubbi derivanti dalle qualità personali e dal comportamento tenuto da C.M. (soprattutto nella fase di rianimazione) - egli non aveva voluto l'evento mortale e nemmeno se lo era rappresentato in termini concreti.

3. La Corte di assise di appello - investita dalle impugnazioni del Pubblico ministero, dell'imputato e delle parti civili (che poi hanno rinunciato al loro gravame avendo ottenuto, nelle more, il risarcimento del danno da parte della competente A.S.L.) - ha riformato la decisione del primo giudice nei termini sopra indicati ritenendo fondato il gravame del Pubblico ministero mentre ha respinto quello proposto da C.M..

3.1. In particolare, la Corte territoriale - che ha escluso la necessità di rinnovare l'istruttoria come invece richiesto dalla difesa - ha riconosciuto l'imputato colpevole dei reati ascrittigli, nella loro originaria formulazione (ritenendo sussistente l'elemento psicologico del dolo eventuale quanto alla prima imputazione), riuniti sotto il vincolo della continuazione, dando particolare rilievo allo stesso materiale probatorio sul quale la sentenza di primo grado aveva fondato la propria decisione, vale a dire le testimonianze della tirocinante R.Y., del medico anestesista V.d.B.O.A. e degli infermieri B.S. e G.S. e gli esiti degli accertamenti peritali, e valorizzando quanto riferito dalla indicata tirocinante, che aveva assistito personalmente ai fatti.

Pertanto, anche secondo la sentenza impugnata, la responsabilità del C. è da ascrivere alla sommatoria della terapia psicofarmacologica di fondo, alla quale era sottoposto il paziente, con la somministrazione del midazolam per via endovenosa, non indicata e non prescritta.

3.2. La Corte è però giunta a una differente conclusione rispetto all'elemento soggettivo del reato, accogliendo, come detto, l'appello della pubblica accusa.

Infatti, ha richiamato la nota sentenza n. 38343/2014 delle Sezioni Unite sulla vicenda Thyssen (peraltro citata anche dal primo giudice) per precisare che, se nella prima fase (vale a dire quella della somministrazione al T. del midazolam) possono ragionevolmente individuarsi i peculiari caratteri della colpa cosciente, nella seconda fase (in cui il C. ha omesso di segnalare ai rianimatori cosa aveva aggiunto alla soluzione fisiologica) gli elementi della colpa cosciente non sono più ravvisabili.

Ad avviso della Corte di appello, sussiste, nella fattispecie, il primo indicatore cui fa riferimento la citata sentenza delle Sezioni Unite, vale a dire la "lontananza dalla condotta standard", poichè l'imputato è andato oltre la sfera a lui consentita somministrando il midazolam non prescritto, ha causato una significativa limitazione funzionale dell'organismo del paziente e si è collocato agli antipodi rispetto alla posizione di garanzia che gli competeva quale operatore sanitario.

Poi ha ritenuto che, quanto alla "personalità ed alle precedenti esperienze dell'imputato", gli elementi depongano per la sussistenza del dolo in considerazione dell'esperienza professionale dell'imputato.

Con riferimento all'indicatore della "durata e ripetizione della condotta", il giudice di appello ha osservato che C.M. aveva avuto un'ora di tempo per riferire cosa aveva somministrato al paziente e consentire ai rianimatori di utilizzare l'antidoto e che, quindi, anche tale elemento costituisce un elemento di conferma circa la sussistenza del dolo eventuale.

Si sono, poi, richiamati gli altri elementi indicati nella ripercorsa sentenza delle Sezioni Unite, come la condotta successiva al fatto, il fine della condotta, la probabilità di verificazione dell'evento, le conseguenze negative, il contesto lecito o illecito, il "controfattuale" alla stregua della prima formula di Frank (ritenuta però non pienamente applicabile al caso di specie) per confermare la ricorrenza, nella fattispecie, del dolo eventuale.

In conclusione, la Corte di assise di appello come prima, previo riconoscimento del vincolo della continuazione tra i reati ascritti e delle attenuanti generiche ritenute equivalenti rispetto alle contestate e ritenute aggravanti, ha condannato l'imputato alla pena di anni quattordici e mesi quattro di reclusione.

4. Avverso la citata sentenza C.M., per mezzo dei difensori di fiducia avv.ti AP e AC, propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi.

4.1. Con il primo lamenta, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), c.p.p., l'erronea declaratoria di inammissibilità della richiesta di rinnovazione della istruzione dibattimentale per illogicità, per carenza di motivazione e per inosservanza di norme processuali, con particolare riferimento alla memoria difensiva depositata dalla difesa alli esito dell'udienza del 30 ottobre 2020, ritenuta inammissibile dalla Corte di assise di appello in quanto contenente motivi nuovi.

In particolare, contesta che fossero stati proposti motivi nuovi, avendo in realtà la difesa riassunto nella memoria i motivi di gravame e insistito per la riapertura dell'istruzione dibattimentale mediante la rinnovazione della perizia medico-legale e di natura tossicologica al fine di chiarire i molteplici dubbi sollevati già in primo grado e riproposti nell'atto di appello (da pag.20 a pag.34) rispetto, principalmente, alle cause del decesso.

4.2. Con il secondo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), per erronea valutazione della sussistenza degli elementi costitutivi della condotta contestata all'imputato e del nesso causale per illogicità, contraddittorietà e carenza di motivazione sul punto.

In particolare, il ricorrente evidenzia la illogicità e contraddittorietà della motivazione rispetto alla valutazione della testimonianza di R.Y. ritenuta pienamente attendibile dai giudici di entrambi i gradi; al contrario l'avere la stessa taciuto, durante la fase della rianimazione, quanto sapeva non è censurabile solo sotto il profilo morale, ma rappresenta una vera omissione di soccorso se accompagnata dalla consapevolezza di fuorviare l'attività rianimatoria.

Le dichiarazioni della R., in quanto potenzialmente indagabile, non potevano quindi essere valutate alla stregua di quelle rese da un teste neutrale.

Inoltre, il ricorrente lamenta la contraddittorietà della motivazione rispetto al colloquio avuto con il Dott. V. (al quale il C. aveva chiesto, dopo il decesso del T., se un'autopsia avrebbe consentito di accertare le cause della morte) che è stato travisato dai giudici di merito nel suo vero significato.

4.3. Nel ricorso si evidenzia poi la contraddittorietà della motivazione anche rispetto al nesso causale, per l'accertamento del quale è stata chiesta una nuova perizia medico-legale e tossicologica per derimere i dubbi sulla idoneità dei tessuti prelevati dal cadavere per stabilire il citato nesso causale, per il proficuo svolgimento delle operazioni peritali e per svolgere indagini tossicologiche di certa valenza probatoria.

Inoltre, la motivazione della Corte territoriale è mancante rispetto ai dubbi sollevati circa la congruità della terapia farmacologica, cui era sottoposto il paziente, essendosi invece ritenuto in modo apodittico che il decesso fosse legato alla somministrazione del midazolam e al mancato uso del farmaco antagonista.

Il giudice di appello non ha motivato poi le ragioni in base alle quali si poteva escludere che le condizioni di salute del paziente potessero giustificare il peggioramento delle sue condizioni di salute, così come non è stato spiegato perchè le attività di rianimazione siano state tutte eseguite in modo corretto e in conformità delle linee guida, mancando la prova che - a fronte di una corretta rianimazione - il T. non avrebbe potuto comunque sopravvivere così come che - in ipotesi di somministrazione del farmaco antagonista - egli sarebbe sicuramente sopravvissuto.

4.4. Con l'ultimo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), la manifesta carenza, illogicità e contraddittorietà della motivazione con particolare riferimento alla individuazione dell'elemento soggettivo del reato ritenendo che, in realtà, da parte della Corte territoriale non sia stato fatto buon governo dei principi contenuti nella più volte citata sentenza n. 38343/2014 delle Sezioni Unite, con conseguente erronea interpretazione circa le norme in tema di distinzione tra colpa cosciente e dolo eventuale.

In particolare, l'imputato censura la decisione per avere trasposto meccanicamente i principi enunciati dalla sentenza Thyssen nella fattispecie senza adattarli nella concreta realtà di fatto.

Egli, in sostanza, osserva che il dolo eventuale richiede un elemento di adesione della volontà all'elemento collaterale che non può prescindere da una chiara e razionale raffigurazione del proprio agire in relazione al contesto effettivo e al contesto rappresentato nella propria psiche; al contrario, la Corte di assise di appello ha errato in quanto ha identificato il contesto effettivo e la rappresentazione soggettiva senza svolgere un'adeguata analisi di ciò che si materializzava nella psiche dell'agente; in tal modo, quindi, la Corte ha eluso la domanda se egli si sia o meno reso conto che il peggioramento delle condizioni del paziente dipendesse dalla somministrazione del midazolam e si sia effettivamente reso conto di avere in mano il potere di interrompere la progressione dell'aggravamento delle condizioni mediante la somministrazione del farmaco antagonista.

Inoltre, il suo ruolo di garanzia non può essere ritenuto sufficiente a superare il criterio della certezza che il comportamento prudente avrebbe evitato l'evento collaterale poichè egli non è un medico e quindi non è in possesso delle relative conoscenze.

Infine, con il ricorso si contesta l'interpretazione data dal giudice di appello in ordine alla sussistenza degli indici rivelatori di cui alla citata sentenza Thyssen. Quanto alla lontananza dalla condotta standard, il ricorrente evidenzia che nello stesso capo di imputazione è esclusa la volontà di uccidere il paziente, ma invece si indica il fine lecito di calmare il paziente, di talchè si verte in tema di colpa.

Con riferimento alla personalità, alla storia e alle precedenti esperienze lavorative, evidenzia che, essendo egli un infermiere, la somministrazione del midazolam è avvenuta nella prima parte dell'azione, senza valutarne gli effetti e la interferenza con la terapia in atti, e quindi anche tale condotta è di natura colposa.

Per la durata e la ripetizione della condotta il giudice di appello non ha tenuto conto che l'imperizia, che ha caratterizzato la prima parte dell'azione, si è riverberata sulla seconda e ha dato rilievo unicamente al tempo di durata della rianimazione (circa un'ora) senza tenere conto della concitazione, della emergenza e della sua partecipazione alle attività di rianimazione; elemento, quest'ultimo, che depone contro la sussistenza del dolo eventuale.

Quanto poi alla condotta successiva al fatto, l'eventuale sensazione di avere paura e di avere sbagliato, presentatasi nella sua mente dopo la morte del paziente, non può essere equiparata, ad avviso del ricorrente, ad avere voluto il fatto. Nè, per il fine della condotta, la Corte distrettuale ha dedicato alcun cenno al fatto che egli non aveva nulla da guadagnare dalla morte del paziente.

Rispetto alla probabilità di verificazione dell'evento, il ricorrente osserva che se tutto fosse stato chiaro sin dall'inizio, egli avrebbe dovuto rispondere per la prima fase a titolo di dolo e non di colpa come invece contestato nel capo di imputazione. In realtà, la valutazione della probabilità della verificazione dell'evento deve necessariamente essere valutata dal punto di vista dell'agente, avendo riguardo alla percezione che egli ne ha avuto ex ante.

Quanto poi all'indice delle conseguenze negative o lesive anche per l'agente in caso di verificazione dell'evento, il ricorrente evidenzia di non avere avuto alcun movente e che gli svantaggi che ne avrebbe avuto sono evidenti.

Infine, rispetto agli indici del contesto lecito e illecito e alla c.d. prima formula di Frank, osserva che nei casi controversi deve trovare applicazione il generale principio del favor rei.

5. Il ricorrente ha depositato motivi aggiunti con riferimento all'elemento psicologico del reato e ha insistito sul riconoscimento della natura colposa del reato ulteriormente richiamando e illustrando, sul punto, i contenuti della più volte citata sentenza delle Sezioni Unite sul caso Thyssen.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è fondato per le ragioni di seguito indicate.

2. Anzitutto si osserva che la memoria depositata dalla difesa nel corso dell'udienza del 30 ottobre 2020 non contiene motivi nuovi, ma riassume gli originari motivi di gravame tra cui, in particolare, la richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, articolata nelle pagine da 20 a 34 dell'atto di appello, con particolare riferimento alla sollecitata nuova perizia medico-legale e tossicologica.

3. Con riferimento al secondo motivo deve ricordarsi che il vizio di travisamento della prova può essere dedotto con il ricorso per cassazione, nel caso di cosiddetta "doppia conforme", sia nell'ipotesi in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice, sia quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti (tra le altre, Sez. 4, n. 35963 del 3/12/2020, Rv. 280155).

Orbene, nel caso di specie, può escludersi il lamentato travisamento delle prove dichiarative, considerato che entrambi i giudici di merito hanno motivato in modo adeguato e coerente circa la credibilità della teste R.Y. tenuto conto della indimostrata presenza di motivi di risentimento di quest'ultima nei confronti dell'imputato e dell'assenza di contraddizioni nella sua deposizione.

4. Diverse, invece, sono le valutazioni che si impongono in ordine all'elemento psicologico del reato così come delineato dalla Corte territoriale.

Al riguardo va ricordato che, secondo la giurisprudenza di legittimità (segnatamente, Sez. U, n. 38343 del 24/4/2014, Espenhahn, Rv. 261105), per la configurabilità del dolo eventuale, anche ai fini della distinzione rispetto alla colpa cosciente, occorre la rigorosa dimostrazione che l'agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta aderendo psicologicamente a essa e a tal fine l'indagine giudiziaria, volta a ricostruire l'iter e l'esito del processo decisionale, può fondarsi su una serie di indicatori quali: a) la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa; b) la personalità e le pregresse esperienze dell'agente; c) la durata e la ripetizione dell'azione; d) il comportamento successivo al fatto; e) il fine della condotta e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali; f) la probabilità di verificazione dell'evento; g) le conseguenze negative anche per l'autore in caso di sua verificazione; h) il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l'azione nonchè la possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, che l'agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell'evento (cosiddetta prima formula di Frank).

4.1. Nell'ordinamento italiano la graduazione della responsabilità in siffatte ipotesi si colloca in un'area individuabile attraverso le sfumature della interpretazione della sfera volitiva dell'agente.

E' peraltro vero che le importanti affermazioni contenute nella nota sentenza relativa al caso Thyssenkrupp consentono di ricavare il grado di responsabilità soggettiva (colposa o dolosa) del soggetto attivo non solo dall'indagine personologica sul soggetto attivo, sui motivi determinanti la sua azione, ma altresì dalla caratterizzazione del fatto storico per come esso si presenta nel suo svolgimento diacronico (prima, durante e dopo la consumazione del reato), senza trascurare - dato, questo, di peculiare importanza nel caso di specie - le conseguenze negative per l'autore che possano derivare dalla sua condotta.

Deve, quindi, evitarsi di ricondurre nel fuoco del dolo ogni comportamento improntato a grave azzardo, quasi che la distinzione tra dolo e colpa fosse basata su un dato "quantitativo" della sconsideratezza della condotta (uguagliando la maggiore sconsideratezza al maggiore tasso di rappresentazione e volizione), piuttosto che su un accurato esame delle specificità del caso concreto, attraverso il quale pervenire al dato differenziale di fondo: ossia attribuire o meno al soggetto attivo un atteggiamento di volizione dell'evento lesivo o mortale (intesa in senso ampio, ossia comprensiva dell'accettazione dell'eventualità concreta).

4.2. Venendo al caso di specie, questa Corte osserva che la motivazione della sentenza impugnata per sostenere la sussistenza del dolo eventuale, nei termini delineati dalle Sezioni Unite, non risulta convincente.

In particolare, la Corte di assise di appello non ha spiegato - sulla base di quali elementi di natura scientifica - abbia ritenuto sicuro che nella fattispecie, tenuto conto delle condizioni di salute del paziente al momento della rianimazione, l'eventuale somministrazione del farmaco antagonista avrebbe senza dubbio salvato la vita del T. e che, quindi, sussiste il nesso eziologico tra il mancato uso dell'antidoto e l'evento morte.

Analogamente, il giudice di appello non risulta avere motivato circa la consapevolezza dell'imputato che il suo silenzio - serbato nel corso delle attività di rianimazione - fosse idoneo a provocare il decesso del degente proprio in ragione del mancato utilizzo del citato antidoto.

4.3. La citata carenza motivazionale, considerati i principi fissati in materia dalle Sezioni Unite, inficia il ragionamento svolto dalla Corte distrettuale per sostenere la configurabilità del dolo eventuale nel corso della seconda fase della condotta oggetto della imputazione a carico di C.M., non avendo la sentenza impugnata adeguatamente spiegato perchè l'antidoto avrebbe sicuramente salvato la vittima nonchè la consapevolezza dell'imputato circa le fatali conseguenze determinate dalla mancata rappresentazione da parte sua di avere somministrato il midazolam.

5. Si impone, quindi, l'annullamento con rinvio - a diversa sezione della Corte di assise di appello di Torino - della sentenza impugnata per un nuovo giudizio alla luce dei rilievi sopra indicati.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di assise di appello di Torino.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 29 aprile 2022.

Depositato in Cancelleria il 2 settembre 2022