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Coltivazione di marijuana non giunta a maturazione non è reato

26 marzo 2012, Nicola Canestrini

Giusti i principi espressi dalla Corte Costituzionale (sent. 360/1995) non è punibile la coltivazione di una pianta il cui ciclo non si è completato, non avendo prodotto principi attivi e non essendo quind rilevabile in concreto l'effetto stupefacente.

Vedi anche: La non punibilità della coltivazione di marijuana

CORTE DI CASSAZIONE, IV SEZ. PENALE, 28 OTTOBRE 2008 - 14 GENNAIO 2009, N. 1222

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza emessa il 23.10.2003, la Corte di appello di Ancona ha confermato la sentenza pronunciata il 3.2.1998 dal tribunale di Urbino, con la quale N. D. veniva condannato alla pena di 1 anno e 4 mesi di reclusione e lire 7.000.000 di multa, in quanto ritenuto colpevole del reato ex art. 73 co. 1 e 4 del DPR 309/90, per aver coltivato, senza la prescritta autorizzazione, 23 piantine di sostanza stupefacente, tipo cannabis sativa, in una fascia di terreno nei pressi della propria abitazione.

Nella motivazione della corte di merito, in via preliminare, si osserva che l'attività di coltivazione di sostanze stupefacenti o psicotrope costituisce reato, indipendentemente dalla destinazione e dall'uso che l'autore intende fare della sostanza.
Il richiamo fatto dall'appellante all'art. 75 della medesima normativa non è pertinente, in quanto le uniche attività che vengono sottratte al rilievo penale e ricomprese nella figura dell'illecito amministrativo sono quelle di importazione, acquisto e detenzione, in caso di destinazione della sostanza a uso personale. Tale disciplina è pienamente coerente con la maggiore pericolosità della coltivazione, in quanto mirata alla produzione di nuova sostanza stupefacente.
Secondo la corte di appello, non ha rilevanza l'assenza di principio attivo nelle 23 piantine, non ancora giunte a maturazione, in quanto è stato accertato, tramite consulenza tossicologica che le piante che avevano attecchito nel terreno, se lasciate giungere a maturazione, avrebbero prodotto una notevole quantità di principio attivo. La S.C. ha precisato che la effettiva tossicità delle piante e la quantità di sostanza drogante dalle stesse ricavabile non rilevano ai fini della configurabilità del reato (sez. IV 16.1.2002, n. 6851; id 18.5.2001, 36524).
Nel ricorso a questo giudice, il N. esprime la doglianza sulla violazione di legge per inosservanza, da parte della sentenza impugnata, dell'orientamento interpretativo della Corte costituzionale, secondo cui la non punibilità per uso personale va estesa alla coltivazione di sostanze stupefacenti (sentenza 360/95).
La motivazione è carente, laddove afferma che le piante sarebbero giunte a maturazione producendo sostanza psicotropa, avendo attecchito al terreno, in quanto per giungere a maturazione e a produrre sostanza drogante sono necessari altri fattori favorevoli (terreno, clima etc), la cui esistenza non è stata accertata. Si profila quindi l'ipotesi di omissione di concreto accertamento della messa in pericolo del bene protetto.
Motivi della decisione
L'esame della fondatezza o meno delle censure mosse alla sentenza impugnata comporta necessariamente e preliminarmente l'analisi dell'interrogativo centrale della questione interpretativa: quale sia il bene giuridico che il legislatore, con la normativa penale in materia di stupefacenti, intenda tutelare, nel contesto della dovuta osservanza del principio di offensività.
Nella sentenza della Corte costituzionale - interpretativa di rigetto della questione di legittimità sollevata sullo stesso argomento - (sentenza n. 360 del 24 luglio 1995, (in Cass.pen.,1995, n. 1679) - si fa esplicito riferimento alla salute quale bene tutelato dalla disciplina sugli stupefacenti e al pericolo che da questi possono derivare a tale bene -. Nella sentenza è rinvenibile la interpretazione fatta propria dal giudice delle leggi come l'unica conforme alla Costituzione e come tale avente efficacia diretta nel giudizio a quo e efficacia riflessa in altri giudizi (vedi Sez .un, 29.2.2000, Musitano, in Cass. pen. 2000, n. l056 con i richiami a Sez. un. 16.12.1998, Alagni; Sez. un. 13.6.1998, Gallieri; Sez. un. 13.12.1995, Clarke).
Nel senso indicato da questa sentenza può essere individuato nella salute il bene tutelato dalla normativa in esame nella prospettiva del suo rispetto per il principio di offensività (o di necessaria lesività). Tale principio comporta che la incriminazione di un fatto attinente a una sostanza stupefacente è giustificata solo se offensivo (espressione comprensiva sia della lesione che della messa in pericolo) della salute, bene/interesse di rilevanza costituzionale. Il bene della libertà personale, cui l'art. 13 Cost. riconosce rilievo fondamentale tra i diritti della persona, può essere sacrificato solo a seguito di offesa di un bene/interesse del medesimo rango.
Il presupposto fondamentale di legittimazione della scelta punitiva è quindi la tutela della salute dei consumatori (attuali e potenziali) e la rilevanza costituzionale del bene è garantita dal chiaro ed inequivoco riferimento agli articoli 2 e 32 della Carta fondamentale.
La costituzionalizzazione di questo principio si collega alla concezione materiale o realistica del reato: tale concezione, riconoscendo il reato come fatto conforme al modello legale e lesivo dell'interesse tutelato, in caso di scissione tra tipicità e offensività, disconosce rilevanza penale al fatto - tipico ma non offensivo - accertato dal giudice. Secondo tale concezione, l'art. 49 cpv del codice penale costituisce - più che un completamento della disciplina del delitto tentato, attraverso l'affermazione della non punibilità dei tentativo impossibile - un principio generale, operante in ogni settore dell'ordinamento, in base al quale non sono punibili i comportamenti conformi al tipo descrittivo, ma non lesivi dell'interesse protetto.
Va ancora richiamata la citata sentenza della Corte costituzionale, in tema di coltivazione di sostanze stupefacenti (n. 360/1995):
?La verifica del rispetto del principio di offensività come limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore ordinario nel perseguire penalmente condotte segnate da un giudizio di disvalore implica la ricognizione della astratta fattispecie penale, depurata dalla variabilità del suo concreto atteggiarsi nei singoli comportamenti in essa sussumibili. Operata questa astrazione degli elementi essenziali del delitto in esame, risulta una condotta (quella della coltivazione di piante da cui sono estraibili principi attivi di sostanze stupefacenti) che ben può valutarsi come ?pericolosa?, ossia idonea ad attentare al bene della salute dei singoli per il solo fatto di arricchire la provvista esistente di materia e quindi di creare occasioni di spaccio di droga; tanto più che l'attività produttiva è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi coltivabili.
Si tratta quindi di un tipico reato di pericolo connotato dalla necessaria offensività, proprio perché non è irragionevole la valutazione prognostica sottesa alla astratta fattispecie criminosa di attentato al bene giuridico protetto. E - come già questa Corte ha avuto occasione di rilevare (sent. n. 133 del 1992 e n. 333 del 1991, ma cfr. anche sent. 62 del 1986) - non è incompatibile con il principio di offensività la configurazione di reato di pericolo presunto, né nella specie è irragionevole o arbitraria la valutazione, operata dal legislatore, nella sua discrezionalità, della pericolosità connessa alla condotta di coltivazione?.
È condivisibile la posizione della dottrina, secondo cui il bene della salute tutelato dalla disciplina sugli stupefacenti va inteso non come diritto soggettivo individuale, ma come bene di cui l'individuo è portatore nell'interesse della collettività. Questi reati sono tali in quanto pongono in pericolo - in forme più o meno incisive - la salute degli assuntori, a seguito di prolungate assunzioni, nessuna delle quali è normalmente idonea a compromettere il bene tutelato.
Si tratta dunque di reati di pericolo astratto, destinati a sanzionare condotte seriali con effetti cumulativi, in quanto fonti di pericolo del verificarsi non già di una lesione, bensì di una situazione pericolosa per il bene della salute (in tal senso la sentenza S.U. 28605/08, in tema di coltivazione, li ha classificati come reati di pericolo).
Essenziale connotato è quindi la dimostrazione della probabilità di un evento lesivo, attraverso la dimostrazione dell'efficacia drogante della sostanza, a prescindere della idoneità concreta dell'assunzione a ledere la salute del consumatore.
Secondo il giudice delle leggi (sentenza 360/1995), diverso profilo è quello dell'offensività specifica della singola condotta in concreto accertata dal giudice: ove questa sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta ?perché la indispensabile connotazione di offensività in generale di quest'ultima implica di riflesso la necessità che anche in concreto la offensività sia ravvisabile almeno in grado minimo, nella singola condotta dell'agente, in difetto di ciò venendo la fattispecie a rifluire nella figura del reato impossibile (art. 49 c.p.)?.
Seguendo tale chiave interpretativa, va dimostrata con assoluta certezza, al di là di ogni ragionevole dubbio, che la sostanza detenuta sia in grado di produrre effetti droganti.
La sentenza delle S.U., sempre in tema di coltivazione di sostanze stupefacenti (n. 28605 del 2008), affermata la offensività in astratto della condotta di coltivazione di piante da cui è ricavabile sostanza stupefacente, esamina la necessità ?della verifica - demandata al giudice di merito - dell'offensività specifica della singola condotta in concreto accertata. Il principio della offensività - in forza del quale non è concepibile un reato senza offesa (nullum crimen sine iniura), secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, opera su due piani ?rispettivamente della previsione normativa, sotto forma di precetto rivolto al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo o comunque la messa in pericolo di un bene o interesse oggetto di tutela penale (offensività in astratto), e della applicazione giurisprudenziale (offensività in concreto), quale criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice, tenuto ad accertare che il fatto reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l'interesse tutelato? (così testualmente la Corte cost. n. 265/05, e in senso conforme, vedi pure le decisioni 360/95, 263/00, 519/00, 354/02).
Nella specie, la Corte costituzionale, come già si è detto, con la sentenza n. 360 del 1995, ha ritenuto che la condotta di coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanza stupefacenti integra un tipico reato di pericolo presunto, connotato dalla necessaria offensività della fattispecie criminosa astratta. In ossequio, però, al principio di offensività inteso nella sua accezione concreta, spetterà al giudice verificare se la condotta, di volta in volta contestata all'agente ed accertata, sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto risultando in concreto inoffensiva.
La condotta è inoffensiva soltanto se il bene tutelato non è stato leso o messo in pericolo anche in grado minimo (irrilevante, infatti, è a tal fine il grado dell'offesa), sicché con riferimento allo specifico caso in esame, la 'offensività' non ricorre soltanto se la sostanza ricavabile dalla coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile?.
Questa prospettiva interpretativa della Corte costituzionale è stata seguita in maniera prevalente dalle decisioni della S.C., che hanno escluso la sussistenza del reato ex art. 73 DPR 309/90, qualora la sostanza stupefacente o psicotropa, pur essendo ricompresa nelle tabelle allegate alla legge, sia priva di qualsiasi efficacia farmacologica e quindi sia inidonea a determinare l'effetto drogante.
Secondo sez. IV n. 601 del 28.2.1997, Iannelli, rv 208011 ?il reato di cessione va escluso, per inidoneità del mezzo, quando il principio attivo contenuto nella dose ceduta sia di entità tale da non poter produrre un concreto effetto drogante, che in tal caso il fatto è solo apparentemente, ma non sostanzialmente, conforme al modello legale, dato che l'impossibilità che si produca l'effetto che la legge mira ad impedire lo priva dell'essenziale requisito dell'offensività, correlata al principio di legalità? (conf. IV, 19.12.1996, Dongiovanni, rv 206652; VI, 15.10.1996, Basseoni, rv 206578; IV, 3.11.1993, Rassid, rv 196606; IV 9.11.1993, Nabil, rv 196949).

L'esclusivo riferimento costituzionale come indice di ricerca del bene tutelato da queste norme sugli stupefacenti viene abbandonato dalla giurisprudenza minoritaria, che è sostenuta da una decisione delle Sezioni Unite del 24.6.1998, n. 9973, che ha affermato il principio di diritto così massimato:

?In tema di stupefacenti, scopo dell'incriminazione delle condotte previste dall'art. 73 DPR 309 del 1990 è quello di combattere il mercato della droga espellendolo dal circuito nazionale, poiché, proprio attraverso la cessione al consumatore, viene realizzata la circolazione della droga e viene alimentato il mercato di essa che mette in pericolo la salute pubblica, la sicurezza e l'ordine pubblico, nonché il normale sviluppo delle giovani generazioni. Ne consegue che, avendo, nel nostro ordinamento, la nozione di stupefacente natura legale - nel senso che sono soggette alla normativa che ne vieta la circolazione tutte e soltanto le sostanze stupefacenti indicate negli elenchi appositamente predisposti - la circostanza che il principio attivo contenuto nella singola sostanza oggetto di spaccio possa non superare la cosiddetta soglia drogante, in mancanza di ogni riferimento parametrico previsto per legge o per decreto, non ha rilevanza ai fini della punibilità del fatto?.

È evidente che la sentenza - dinanzi all'accertamento dell'assenza di pericolo specifico per il bene della salute - fa ricorso alla sussistenza del pericolo per beni giuridici non contemplati dalla Carta Costituzionale - inserendo il tema della necessaria lesività in un contesto di plurioffensività, ricavato dalla ratio legis.

Il bene della salute, come parametro di selezione qualitativa della meritevolezza della pena, viene affiancato da altri beni/interessi, ritenuti strumentali alla tutela del primo - che è quindi ridimensionato come strumento di orientamento dell'intervento punitivo dello Stato - o viene sovradimensionato, mediante il ricorso a beni giuridici di vaga determinazione, che ne ampliano la sua influenza, pur in assenza di specifica offensività.

In tal modo l'assenza di efficacia drogante e quindi l'assenza del pericolo di offensività specifica per il bene della salute non esclude la rilevanza penale del fatto, in quanto l'attitudine offensiva della condotta viene proiettata su interessi visti come strumenti per una mediata tutela del bene costituzionalmente protetto (quale la lotta al mercato della droga), o su valori, quali la sicurezza e l'ordine pubblico e il normale sviluppo delle giovani generazioni, visti come strumenti per una più estesa tutela di questi beni.

Questo indirizzo interpretativo è stato seguito da Cass. 13 maggio 1999, n. 6864, Trovato rv 214204 secondo cui il divieto di circolazione coinvolge tutte le sostanze specificamente indicate negli elenchi allegati, indipendentemente dalla presenza dei canonici principi attivi nei quantitativi commercializzati ?conseguentemente, la circostanza che il principio attivo contenuto nella singola sostanza oggetto di spaccio possa non superare la cosiddetta soglia drogante, non ha alcuna rilevanza ai fini della punibilità del fatto?. Sulla stessa linea sono IV, 15.5.2003, De Paoli rv 225127; IV 13.6.2001, Pannella, rv 219778; VI 8.11.2000, Giallonardo, rv 217533.
Sull'opposto versante, pur dopo la decisione delle S.U., è sez. IV, 12.1.2000, Fucile, rv 215876.
L'abbandono del riferimento costituzionale quale indice di ricerca degli interessi tutelabili, comporta il venir meno della funzione del principio di offensività quale criterio di controllo della aderenza ai principi costituzionali dell'intervento repressivo.
È stato sostenuto dalla dottrina che si cade così in un equivoco metodologico, determinando una confusione tra e l'omnicomprensivo e dilatabile concetto di ratio legis e il concetto di bene giuridico, che dovrebbe essere assunto come interesse predefinito e preesistente rispetto alla legislazione penale, legittimato da norme costituzionali anche implicite e funzionalmente destinate a delimitare l'area del penalmente rilevante.
Non va inoltre sottovalutata la rilevanza della Costituzione non solo come limite ma anche come base giustificativa, sotto il profilo della ragionevolezza, dell'intervento punitivo dello Stato. Ogni scelta di politica criminale che voglia rispettare il principio di uguaglianza/ragionevolezza (art. 3 Cost.) è condizionata dall'esito positivo del vaglio sul razionale bilanciamento dei beni/interessi contrapposti o la proporzione tra mezzi approntati e il fine asseritamente perseguito.
Il principio di ragionevolezza è pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale come altro limite per il diritto penale (vedi, tra le altre, la sentenza della Corte costituzionale n. 364/1988, che sottolinea ?la necessità che il diritto penale costituisca davvero la extrema ratio di tutela della società, sia costituito da norme non numerose, non eccessive rispetto ai fini di tutela, chiaramente formulate, dirette alla tutela dei valori di rilievo costituzionale?).
Nel doveroso bilanciamento di principi di rango costituzionale con il principio cardine della libertà personale si pone il problema della possibilità che questo bilanciamento coinvolga i generici beni che sono indicati nella sentenza delle Sezioni Unite del 1998 (?la salute pubblica, la sicurezza e l'ordine pubblico, nonché il normale sviluppo delle giovani generazioni?) non presenti esplicitamente nella Costituzione, ma che ricorrono come valori guida di scelte di politica criminale (prevalentemente contingenti, per ricorrenti ?emergenze?).
Questa punizione - ove la si consideri razionalmente ingiustificata o proporzionalmente non adeguata - non è giustificabile mediante il richiamo alla natura di reati di pericolo presunto, riconosciuta ai reati in tema di stupefacenti. Dinanzi al paradosso di condotte tipiche ma concretamente non pericolose per la salute individuale e collettiva tutelata dalla Costituzione, il giudice, guidato dal combinato disposto dei principi di offensività e della ragionevolezza, deve chiedersi se possa esercitare il potere punitivo dello Stato, sacrificando la libertà personale, per tutelare il bene della salute, dinanzi a una offensività, non ravvisabile neanche in grado minimo, nella singola condotta dell'agente. Come già detto, per essere meritevole di punizione, la condotta tipica deve avere come oggetto sostanze stupefacenti aventi un requisito formale (rientrare negli elenchi delle tabelle) e sostanziale (avere efficacia stupefacente o psicotropa e quindi capacità o potenzialità lesiva). In caso di assenza di quest'ultimo, deve escludere la rilevanza penale del fatto.
Venendo alla fattispecie in esame, deve concludersi che in concreto non è rilevabile e quindi non è suscettibile dell'accertamento chiesto al giudice l'effetto stupefacente in una pianta il cui ciclo non si è completato e che quindi non ha prodotto sostanza idonea a costituire oggetto del concreto accertamento della presenza di principi attivi.
La prognosi espressa dal consulente tecnico sulla futura esistenza dei principi attivi non può equivalere all'accertamento richiesto al giudice dalla Corte costituzionale e dalle Sezioni Unite, all'esito del quale può ritenersi dimostrata l'offensività della condotta dell'agente, nella sua accezione concreta.
Questo accertamento a futura memoria, in cui si ipotizza - più che la attuale produzione di principi attivi - l'attuale assenza di ostacoli alla futura produzione di principi attivi, non può fondare una dichiarazione di responsabilità in un ordinamento in cui, inoltre, vige il principio della presunzione di non colpevolezza.
Pertanto, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio, perché il fatto non sussiste.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.