In presenza di una procedura di esecuzione di pena detentiva inflitta all'estero, avviata sulla base della Convenzione di Strasburgo sul trasferimento delle persone condannate del 21 marzo 1983, la Corte d'appello deve determinare la pena da eseguire nello Stato applicando i criteri previsti dall'art. 10 della Conv. cit., espressamente richiamati dall'art. 3 della l. n. 257 del 1989 - avente carattere di specialità rispetto all'art. 735 cod. proc. pen.; sicchè essa è tenuta ad attenersi alla durata della pena come fissata dallo Stato di condanna con il limite della sua incompatibilità per durata e natura, che giustifica la possibilità di un adattamento della sanzione.
Il limite alla esecuzione di una condanna stanzierà da eseguire in Italia secondo la disciplina della Convenzione i Strasburgo del 1983 sono i "principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale" e i "diritti inalienabili della persona", che costituiscono limite all'ingresso delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali il nostro ordinamento "si conforma" ex art. 10 Costituzione.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
(ud. 04/05/2006) 22-06-2006, n. 21955
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LATTANZI Giorgio - Presidente
Dott. LEONASI Raffaele - Consigliere
Dott. AGRO' Antonio Stefano - Consigliere
Dott. SERPICO Francesco - Consigliere
Dott. ROSSI Agnello - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
F.V.;
Procuratore Generale della Corte d'Appello di Palermo;
avverso la sentenza del 04/05/2005 della Corte d'Appello di Palermo;
visti gli atti, la sentenza denunziata e il ricorso;
udita in camera di consiglio la relazione fatta dal Consigliere Dott. LEONASI;
letta la requisitoria del Pubblico Ministero in persona del sost. Procuratore Generale Dott. MONETTI che ha concluso per l'annullamento senza rinvio della sentenza per la parte in cui ha sottratto dalla pena il periodo di tempo in cui F. era sottoposto alla misura cautelare della presentazione alla polizia giudiziaria; respingere nel resto il ricorso del F..
Svolgimento del processo
1. Avendo il Governo del Regno di Spagna richiesto la estradizione di F.V., cittadino italiano, per la esecuzione di sentenza di condanna alla pena di anni quattro mesi sei di reclusione inflitta in quello Stato per concorso nel reato di violenza sessuale, l'interessato rifiutava il proprio consenso, chiedendo di potere espiare la pena in Italia.
2. Nei confronti dell'estradando, privato della libertà personale per un giorno siccome raggiunto da mandato di arresto dell'A.G. spagnola e costituitosi in carcere, il Presidente della Corte d'Appello di Palermo convalidava l'arresto ma, ritenendo di "intensità sfumata" il pericolo di fuga, applicava le meno afflittive misure della presentazione quotidiana all'autorità di p.s. e del divieto di espatrio.
3. Nelle more del procedimento estradizionale, il Procuratore Generale presso la stessa Corte, su conforme richiesta del Ministro della Giustizia, ha promosso il procedimento di riconoscimento della sentenza spagnola, atto finalizzato appunto alla espiazione della pena in Italia, possibilità sulla quale si è già espressa favorevolmente l'A.G. spagnola.
4. Riuniti i due procedimenti, la Corte d'Appello ha, da un lato, preso atto che, nella situazione creatasi con le nuove richieste, non debba farsi luogo alla estradizione, dall'altro ritenuto sussistenti i presupposti del riconoscimento ex art. 733 c.p.p. e le condizioni di cui all'art. 10 della Convenzione sul trasferimento delle persone condannate, adottata a Strasburgo il 21 marzo 1983 (ratificata dall'Italia con L. 25 luglio 1988 n. 334), sicché ha, per quanto qui d'interesse, deciso di: determinare in quattro anni e sei mesi di reclusione la pena che dovrà essere espiata in Italia; rigettare la richiesta di riduzione avanzata dall'interessato; scomputarsi e il giorno di reclusione già sofferto con l'arresto e - "secondo i vigenti criteri di ragguaglio" - il periodo di sottoposizione alle misure coercitive aventi effetto fino alla pronunzia della sentenza stessa.
5. Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione il P.G. presso la Corte palermitana che con motivo unico ha lamentato violazione dell'art. 606, lett. b) in relaz. all'art. 657 c.p.p. e alla L. 3 luglio 1989, n. 257, art. 3, sotto il profilo che le disposte misure coercitive, proprio perché non detentive, non possono essere scomputate dalla durata di esecuzione della pena.
6. Ha proposto ricorso anche il difensore del condannato, sostanzialmente dolendosi del mancato accoglimento della domanda di "ridimensionamento" della pena inflitta dall'A.G. spagnola, per effetto del giudizio di non incompatibilità tra quel trattamento sanzionatorio e quel che si sarebbe potuto infliggere, secondo il principio di conversione, in base alla legge italiana.
Lamenta in particolare, col primo motivo, violazione degli artt. 9 e 11 della Convenzione nel comb. disp. degli artt. 730 e segg. c.p.p., dell'art. 12 c.p. e della L. n. 257 del 1989, art. 3. Il relativo argomentare può così riassumersi a sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p.: l'art. 735 c.p.p. individua i criteri che il giudice deve adottare nella "determinazione della pena", richiamando anzitutto la procedura della "conversione"; nell'ambito della convenzione sul trasferimento si distingue a seconda che la esecuzione della pena abbia o meno avuto inizio; a queste due diverse situazioni corrispondono le distinte procedure esecutive della "continuazione della esecuzione" e della "conversione" della pena, ossia la sostituzione di quella inflitta nello Stato di condanna con altra prevista dalla legge dello Stato di esecuzione; nel "Rapporto esplicativo" si sottolinea come il potere di adattamento della sanzione è fondato sulla necessità di assicurare una "sostanziale corrispondenza" tra i due diversi trattamenti, esigenza particolarmente sentita nei casi nei quali la "non perfetta corrispondenza dei due sistemi" potrebbe dar luogo a "sostanziali iniquità" in sede di esecuzione; l'art. 11 della Convenzione prevede per lo Stato di esecuzione la impossibilità di determinare una pena più elevata persino nel caso in cui quella inflitta dallo Stato di condanna sia inferiore al limite minimo previsto dalla legge del primo; si desume da questo quadro un impianto sistematico che muove nella direzione di affidare allo Stato di esecuzione un preciso potere di incidenza e nel procedimento di conversione e in quello di continuazione, entrambi ispirati al principio che in sede di esecuzione non si può mai trasmodare in un'accentuazione della pena e che anzi questa va mitigata quando si verifichi, in sede di riconoscimento, una difformità ingiustificata; anche a volere accettare, come fa la Corte d'Appello, il limite della "rottura dell'ordinamento" (al quale peraltro, nella nota sentenza Baraldini, la Corte Costituzionale fa riferimento ma con riguardo a una fase decisionale diversa), la verifica sottesa al potere di adattamento non può prescindere dalla valutazione del fatto-reato e dalla comparazione tra la pena in concreto inflitta all'estero e di quella applicabile in caso analogo nello Stato italiano (qui si ricordano le innovazioni che, aderendo al comune sentire, il legislatore italiano ha di recente introdotto nei delitti di violenza sessuale, fissando per la condotta di gruppo, qual è considerata quella in esame nelle due legislazioni, pena - sei-dodici anni - sensibilmente inferiore a quella di 12-15 anni prevista dalla legge spagnola).
Col secondo motivo si deduce violazione ed errata applicazione degli artt. 62 bis, 132 e 133 c.p. e difetto di motivazione: la Corte d'Appello ha ritenuto di non dover concedere le attenuanti generiche, oltre che per la preclusione già detta, perché lo stato d'incensuratezza sarebbe già stato tenuto presente dall'A.G. spagnola con l'applicazione di una sorta di attenuante sussumibile nello schema dell'art. 62 bis c.p.; considerazione errata, se si tien presente la prospettiva di reinserimento sociale del condannato, alla quale è ispirato l'art. 62 bis che a sua volta indica la incensuratezza del giudicabile come uno dei tanti criteri che sono da tenere in conto nella determinazione del trattamento più adeguato.
7. Con memoria tempestivamente depositata lo stesso difensore ha contrastato il ricorso del P.G. col rilevare che correttamente la Corte territoriale ha equiparato alla detenzione quelle misure cautelari fortemente limitative della libertà personale, applicando in via analogica la L. n. 689 del 1981, art. 57 come modif. da L. n. 296 del 1993 in tema di effetti delle pene sostitutive e criteri di ragguaglio; ove questa interpretazione non dovesse essere accettata, la Corte di Cassazione non potrebbe esimersi dal sollevare questione di legittimità costituzionale della vigente disciplina per evidente violazione degli artt. 2, 3, 13, 16 e 27 Cost.Ha ribadito poi gli argomenti già svolti a sostegno del proprio ricorso, specificando in conclusione che per garantire vera corrispondenza del trattamento sanzionatorio alla legislazione italiana, va considerato che: la Corte spagnola ha riconosciuto la c.d. riduzione di due gradi (per intensa riduzione della capacità di intendere e di volere, dovuta ad assunzione di alcolici e cocaina, e per lo stato di incensuratezza); ha quindi determinato pena di poco inferiore al terzo del massimo edittale (15 anni) sicché, applicando la stessa proporzione alla legislazione italiana (massimo edittale per l'art. 609 octies c.p. anni dodici), si sarebbe dovuta determinare la pena in anni quattro (un terzo) con ulteriore riduzione per le attenuanti generiche.
Motivi della decisione
1. E' da accogliere anzitutto il ricorso del P.G., fondato sul chiaro e tassativo tenore dell'art. 657 c.p.p. dove si prevede che ai fini della determinazione della pena detentiva sia computato soltanto il periodo di "custodia cautelare".
1.1. La questione di legittimità costituzionale - sollevata in un caso nel quale erano sub iudice arresti domiciliari e misure cautelari come quelle qui applicate - è stata già ritenuta manifestamente infondata dalla Corte Costituzionale (ordinanza n. 215/1999) con riferimento agli artt. 3 e 27 Cost. Con riguardo a queste norme nessun argomento nuovo il ricorrente offre, mentre su un piano sostanzialmente assertivo è rimasto il richiamo agli altri parametri costituzionali. Vale forse aggiungere che già con Sez. VI C.C. 23/3/95, Dhaoudi, rv. 201445 si era ritenuta la manifesta infondatezza, anche con riguardo all'art. 13, comma 2, decisione che qui si ricorda siccome offre spunto per rilevare come l'apparente rigore formale della disposizione ex art. 657 c.p.p. trovi bilanciamento nei provvedimenti volti al reinserimento del condannato che l'ordinamento penitenziario largamente riconosce (il riferimento viene qui fatto per quanto interessa all'interno del problema di pene inflitte e da eseguire in Italia, senza intento di investire la particolare materia all'esame dov'è in discussione altro).
2. Infondato è invece il ricorso del F..
3. Il primo articolato motivo enuncia proposizioni spesso in sé non inesatte ma di certo inapplicabili alla fattispecie della quale, anzi, il ricorrente sembra trascurare la impostazione di fondo, ispirata in modo dichiarato, e talora implicito, a principi di segno non equivoco
4. Anzitutto, in tema di attuazione della Convenzione di Strasburgo, la L. 3 luglio 1989, n. 257, art. 3, comma 2 secondo il quale la corte d'Appello determina la pena sulla base dei criteri di cui all'art. 10 della Convenzione stessa, ha connotati di specialità, sicché non è stato abrogato dall'art. 735 c.p.p., comma 2 che riguarda, in generale, tutti i casi di riconoscimento di una sentenza straniera ai fini dell'esecuzione (Sez. V, 15/11/1993, Di Carlo).
5. La Corte Territoriale ha ben chiarito - e la cosa non è contestata - che qui si tratta di trasferimento, su richiesta, di persona condannata, secondo le regole proprie del regime pattizio, che può trovare applicazione anche se la persona non è fisicamente presente nello Stato della condanna: avendo l'esecuzione avuto inizio (con la detenzione, sia pure per un solo giorno, conseguente proprio al titolo esecutivo formatosi all'estero) sarebbe irragionevole, oltre che inutilmente farraginoso e gravoso per il condannato, procedere per esigenze di pura forma al doppio trasferimento. Non pare che vi sia stata evasione del condannato con fuga verso il paese di origine (art. 68 della Convenzione di applicazione dell'Accordo di Schengen) ma neppure in questo caso l'applicazione che qui si è fatta del presupposto della continuazione risulterebbe inaccettabile.
6. Ora, il punto nodale è che - come bene illustrato dalla Corte Territoriale - l'Italia all'atto della ratifica della Convenzione di Strasburgo ha fatto uso della facoltà riconosciuta a ciascuna parte contraente dall'art. 3, comma 3 della Convenzione stessa, escludendo dagli effetti del trasferimento la possibilità della conversione della condanna accettando quindi la sola possibilità della continuazione (art. 3 della legge di ratifica, richiamante l'art. 9, par. 1, lett. "b" della Convenzione).
Ciò comporta - per l'art. 10 della Convenzione, espressamente richiamato anche dalla della L. n. 257 del 1989, art. 3 (norme di attuazione della convenzione sul trasferimento delle persone condannate) - che lo Stato di esecuzione "è vincolato alla natura giuridica e alla durata della sanzione come stabilite dallo Stato di condanna", fatte salve la incompatibilità (per natura o durata) della sanzione e la possibilità di adattamento "se la sua legge lo esige" (art. 10, comma 2): anche in quest'ultimo caso, peraltro, vanno rispettate, per quanto possibile, le corrispondenze, purché non ne risulti una sanzione più gravosa di quella imposta dallo Stato di condanna ovvero eccedente il massimo previsto dalla legge dello Stato di esecuzione.
E', come si vede, una griglia a maglie ben definite e strette affatto diversa da quella che l'art. 11 della Convenzione predispone per l'ipotesi di conversione: regime che quindi vanamente il ricorrente tenta, nella sostanza, di parificare con argomentazioni suggestive, peraltro cadendo in una vistosa contraddizione quando (fol. 7 del ricorso) collega la "non perfetta coincidenza dei due sistemi penali" al rischio di "sostanziale iniquità" (oltre tutto la non sovrapponibilità completa di due ordinamenti, sia pure riferita a un solo fatto-reato, è cosa che nel sistema si da per scontata).
6.1. Chiaro è, invece, che proprio al limite della sostanziale iniquità ovvero a quello della "rottura dell'ordinamento" (sentenza Baraldini) la Corte di Palermo si è riferita quando ha inteso rendere in termini più icastici l'attributo "incompatibili" adoperato dall'art. 10.
7. Seguendo dunque questa linea, la sentenza impugnata considera i limiti edittali rispettivamente previsti per il fatto-reato dalle due legislazioni, per arrivare correttamente alla conclusione che la pena inflitta dal giudice spagnolo non solo è ben lungi dal violare i principi appena ripetuti, ma addirittura risulta - per "elementi e criteri del tutto analoghi "a quelli a disposizione dell'interprete italiano (cfr. requisitoria del P.G.) - " perfettamente in linea con la pena astrattamente irrogabile nel nostro ordinamento" (si rammenta che l'art. 609 octies c.p. prevede, pur nella ipotesi non circostanziata, minimo edittale di sei anni). Si è escluso (e si esclude) in definitiva che vi sia stata una qualsiasi violazione dei "principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale" e dei "diritti inalienabili della persona" che costituiscono limite all'ingresso delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali il nostro ordinamento "si conforma" ex art. 10 Cost., comma 1 (ancora da sentenza Baraldini, sub n. 3.1.).
8. Quanto finora detto è di per sé sufficiente per disattendere il secondo motivo del ricorso: si può solo aggiungere, visto che si è voluto insistere sulla questione delle generiche, che persino di questo la decisione gravata (fol. 10) si da carico, così precludendo, se mai ve ne sia, ogni altro spazio al giudice della legittimità.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata per la parte relativa allo scomputo - dalla pena da eseguire - del periodo di sottoposizione a misure coercitive non detentive, parte che elimina; rigetta il ricorso del F. che condanna al pagamento delle spese del procedimento.
Manda alla Cancelleria per la trasmissione di copia della sentenza al Ministero della Giustizia.
Così deciso in Roma, il 4 maggio 2006.
Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2006