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Contraffazione grossolana non salva venditrice ambulante (12673/19 Cass.)

21 marzo 2019, Cassazione penale

Il reato di commercio di prodotti con segni falsi non protegge l'acquirente, ma la fede pubblica, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi e segni distintivi, che individuano le opere dell'ingegno e i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione anche a tutela del titolare del marchio; si tratta, pertanto, di un reato di pericolo, per la cui configurazione non occorre la realizzazione dell'inganno non ricorrendo quindi l'ipotesi del reato impossibile qualora la grossolanità della contraffazione e le condizioni di vendita siano tali da escludere la possibilità che gli acquirenti siano tratti in inganno.

Il delitto di ricettazione (art. 648 cod. pen.) e quello di commercio di prodotti con segni falsi (art. 474 cod. pen.) possono concorrere, atteso che le fattispecie incriminatrici descrivono condotte diverse sotto il profilo strutturale e cronologico, tra le quali non può configurarsi un rapporto di specialità, e che non risulta dal sistema una diversa volontà espressa o implicita del legislatore.

Corte di Cassazione

sez. II Penale, sentenza 6 dicembre 2018 – 21 marzo 2019, n. 12673
Presidente Cammino - Relatore Beltrani

Ritenuto in fatto

Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d'appello di Napoli, in riforma della sentenza emessa in data 21.10.2011 dal Tribunale di Napoli - sez. Ischia, ha dichiarato MO. LU., in atti generalizzata, colpevole di ricettazione e vendita di beni recanti marchi contraffatti, condannandola alla pena ritenuta di giustizia.
Contro tale provvedimento, l'imputata (con l'ausilio di un difensore iscritto nell'albo speciale della Corte di cassazione) ha proposto ricorso, denunziando i seguenti motivi, enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att. c.p.p.:
I - violazione dell'art. 648 c.p. e difetto assoluto di motivazione (ritenendo di aver documentato di avere acquistato la merce che si assume ricettata ed illecitamente posta in vendita presso un fornitore ufficiale attraverso l'esibizione delle relative fatture; il fatto che la merce fosse falsa non dimostrerebbe automaticamente la consapevolezza di ciò in capo all'imputata; mancherebbe comunque la prova dell'effettività della contraffazione contestata):
II - mancanza di dolo;
III - ingiustificato diniego della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis c.p.;
IV - intervenuta prescrizione (le fatture risalgono al 2008).
All'odierna udienza pubblica, è stata verificata la regolarità degli avvisi di rito; all'esito, la parte presente ha concluso come da epigrafe, ed il collegio, riunito in camera di consiglio, ha deciso come da dispositivo in atti, pubblicato mediante lettura in udienza.

Considerato in diritto

Il ricorso è integralmente inammissibile perché presentato per motivi in parte non consentiti, in parte manifestamente infondati.

1. I primi due motivi, riguardanti l'affermazione di responsabilità, sono del tutto generici (in difetto del compiuto riferimento alle argomentazioni contenute nel provvedimento impugnato) nonché manifestamente infondati, in considerazione dei rilievi con i quali la Corte di appello - con argomentazioni giuridicamente corrette, nonché esaurienti, logiche e non contraddittorie, e, pertanto, esenti da vizi rilevabili in questa sede - ha motivato la contestata statuizione, valorizzando la accertata falsità dei beni de quibus (non contestata neppure dal giudice di primo grado, sulla base dei condivisi rilievi della PG operante, professionalmente esperta in materia), l'attitudine dei beni de quibus ad essere confusi con quelli originali e le accertate modalità di esposizione per la vendita di essi, con indicazione "copia non conforme all'originale" e prezzo di vendita notevolmente inferiore a quello mediamente applicato negli ordinari canali di distribuzione; inoltre, si è verificato che prodotti del tipo di quelli de quibus, possono essere messi in commercio unicamente da licenziatari autorizzati, e la MO. non lo era.

1.1. In tal modo, la Corte di appello si è correttamente conformata all'orientamento di questa Corte (Sez. V, sentenza n. 5260 dell'11 dicembre 2013, dep. 3 febbraio 2014, CED Cass. n. 258722), ferma nel ritenere che integra il delitto di cui all'art. 474 cod. pen. la detenzione per la vendita di prodotti recanti marchio contraffatto senza che abbia rilievo la configurabilità della contraffazione grossolana, considerato che l'art. 474 cod. pen. tutela, in via principale e diretta, non già la libera determinazione dell'acquirente, ma la fede pubblica, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi e segni distintivi, che individuano le opere dell'ingegno e i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione anche a tutela del titolare del marchio; si tratta, pertanto, di un reato di pericolo, per la cui configurazione non occorre la realizzazione dell'inganno non ricorrendo quindi l'ipotesi del reato impossibile qualora la grossolanità della contraffazione e le condizioni di vendita siano tali da escludere la possibilità che gli acquirenti siano tratti in inganno.
Questa Corte ha anche chiarito (Sez. II, sentenza n. 12452 del 4 marzo 2008, CED Cass. n. 239745) che il delitto di ricettazione (art. 648 cod. pen.) e quello di commercio di prodotti con segni falsi (art. 474 cod. pen.) possono concorrere, atteso che le fattispecie incriminatrici descrivono condotte diverse sotto il profilo strutturale e cronologico, tra le quali non può configurarsi un rapporto di specialità, e che non risulta dal sistema una diversa volontà espressa o implicita del legislatore.

2. Il terzo motivo non è consentito perché è stato dedotto per la prima volta in questa sede di legittimità, non avendo costituito oggetto di una formale richiesta, sia pure in via gradata (rispetto alla principale richiesta di rigetto dell'appello del P.M.): all'ud. 19.4.2016, il difensore aveva concluso chiedendo unicamente la conferma della sentenza di primo grado.

3. Il quarto motivo è manifestamente infondato, poiché, per quanto riguarda la ricettazione, il termine di prescrizione sarebbe comunque decorso dopo la data della sentenza di appello; per quanto riguarda l'altro reato, che deve ritenersi consumato dalla data indicata nel capo d'imputazione, analogamente il termine di prescrizione è decorso dopo la data della sentenza di appello.

3.1. Non può porsi in questa sede la questione della declaratoria della prescrizione eventualmente maturata dopo la sentenza d'appello, in considerazione della totale inammissibilità del ricorso. La giurisprudenza di questa Corte ha, infatti, più volte chiarito che l'inammissibilità del ricorso per cassazione «non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 c.p.p.» (Cass. pen., Sez. un., sentenza n. 32 del 22 novembre 2000, CED Cass. n. 217266: nella specie, l'inammissibilità del ricorso era dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi, e la prescrizione del reato era maturata successivamente alla data della sentenza impugnata con il ricorso; conformi, Sez. un., sentenza n. 23428 del 2 marzo 2005, CED Cass. n. 231164, e Sez. un., sentenza n. 19601 del 28 febbraio 2008, CED Cass. n. 239400).

4. La declaratoria d'inammissibilità totale del ricorso comporta, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché - apparendo evidente dal contenuto dei motivi che ella ha proposto il ricorso determinando la causa d'inammissibilità per colpa (Corte cost., sentenza 13 giugno 2000, n. 186) e tenuto conto dell'entità della predetta colpa, desumibile dal tenore delle rilevate cause d'inammissibilità -della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende a titolo di sanzione pecuniaria.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle ammende.
Sentenza con motivazione semplificata.