Lo Statuto dei lavoratori, nel limitare la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, non precludono a quest’ultimo di ricorrere ad agenzie investigative, purché queste non sconfinino nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria riservata direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori e giustificano l’intervento in questione non solo per l’avvenuta prospettazione di illeciti e per l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione; inoltre, il suddetto intervento deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero adempimento dell’obbligazione.
Il potere dell’imprenditore di controllare direttamente o indirettamente l’adempimento delle prestazioni lavorative, nei limiti sopra evidenziati, non è escluso dalle modalità di controllo che può legittimamente avvenire anche occultamente, senza che vi ostino né il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione dei rapporti, né il divieto di cui all’art. 4 della legge n. 300/1970 riferito esclusivamente all’uso di apparecchiature per il controllo a distanza.
Le garanzie previste dalla legge operano esclusivamente con riferimento all’esecuzione della attività lavorativa in senso stretto, non estendendosi, invece, agli eventuali comportamenti illeciti commessi dal lavoratore in occasione dello svolgimento della prestazione che possono essere liberamente accertati dal personale di vigilanza o da terzi.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 17 gennaio – 4 aprile 2018, n. 8373
Presidente Di Cerbo – Relatore Cinque
Fatti di causa
1. Con la sentenza n. 5779/2015 la Corte di appello di Roma ha confermato la pronuncia del 14.1.2014 emessa dal Tribunale della stessa città con la quale era stata respinta la domanda proposta da T.P. , ex dipendente Unipol con qualifica di funzionario di terzo grado, volta ad ottenere l’accertamento della illegittimità del licenziamento intimato al lavoratore in data 26.9.2011 ed il suo annullamento, con conseguente reintegrazione nel posto di lavoro e condanna della società al risarcimento del danno, in misura pari alle mensilità di retribuzione maturate dalla data del ricorso fino alla data di riammissione in servizio.
2. A fondamento del decisum la Corte territoriale ha rilevato che: a) la contestazione disciplinare, intervenuta dopo 45 giorni, era tempestiva avendo riguardo alla data della effettiva e certa conoscenza dei fatti, al periodo feriale intercorso e alla complessità della organizzazione aziendale; b) la sanzione irrogata era proporzionata rispetto ai fatti contestati; c) la problematica sulla illegittimità dei controlli volti dalla agenzia investigativa, in violazione degli artt. 2, 3, e 4 legge n. 300/1970, era una questione nuova perché prospettata per la prima volta in appello e, comunque, infondata perché l’attività investigativa era finalizzata non all’accertamento delle modalità di adempimento dell’obbligazione lavorativa, bensì alla verifica se il dipendente si fosse assentato, senza giustificato motivo o permesso dal luogo di lavoro.
3. Avverso questa sentenza T.P. ha proposto ricorso per cassazione affidato a sette motivi.
4. Ha resistito con controricorso la società.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta la nullità della sentenza, ex art. 360 n. 4 cpc, per violazione dell’art. 77 cpc, per non avere i giudici di merito rilevato cha sia la procura alle liti contenuta nella memoria difensiva di primo grado che la procura alle liti contenuta nella memoria difensiva di secondo grado della società erano nulle in quanto furono rilasciate da soggetti privi di validi poteri rappresentativi, senza spendita dei relativi poteri rappresentativi e senza produzione in giudizio di documenti attestanti la sussistenza di tali poteri.
2. Con il secondo motivo il T. sostiene la nullità della sentenza, ex art. 360 n. 4 cpc, per violazione dell’art. 437 cpc per la ritenuta novità, da parte della Corte territoriale, della questione processuale riguardante la inutilizzabilità della relazione investigativa a mente degli artt. 2 e 3 St. Lav., nonché la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 437 cpc, essendo stata ritenuta, sempre dalla Corte distrettuale, non rilevabile di ufficio la questione di una prova vietata dalla legge.
3. Con il terzo motivo si censura l’ingiustizia della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3 e 4 dello St. lav. in ordine al controllo a distanza del lavoratore nonché degli artt. 2104 e 2106 cpc e consequenziale ulteriore violazione della regola di giudizio del’onere della prova ex art. 2697Cc circa l’impiego di indagini svolte da agenzie investigative.
4. Con il quarto motivo il ricorrente si duole della nullità della sentenza (art. 360 n. 4 cpc) per violazione delle norme sul principio dispositivo (art. 99 e 115 cpc), del libero convincimento (art. 116 cpc), della regola generale della tassatività del catalogo dei mezzi di prova nonché degli artt. 244 e 257 bis cpc in uno alla illegittimità della stessa per violazione e falsa applicazione (art. 360 n. 3 cpc); nonché degli artt. 2, 3 e 4 dello Statuto dei Lavoratori e degli artt. 2699 e ss cc in tema i prova documentale; nonché del principio per cui le prove atipiche - ad effetto meramente indiziario - devono essere corroborate da prove piene e comunque non sono mai utilizzabili se acquisite in violazione dei divieti posti da norme sostanziali o processuali, con la conseguente ingiustizia della sentenza, ex art. 360 n. 3 cpc, per ulteriore violazione della regola dell’onere della prova ex art. 2697 cc: nella fattispecie in esame la relazione della agenzia investigativa avrebbe dovuto essere avvalorata in giudizio con prove piene.
5. Con il quinto motivo il T. deduce l’ingiustizia della sentenza impugnata per violazione e/o falsa applicazione (art. 360 n. 3 cpc) dell’art. 2697 cc sull’onere della prova sia degli artt. 2, 3 e 4 della legge n. 300/1970, per essere stata erroneamente rilevata dalla Corte territoriale, la giusta causa del licenziamento, la proporzionalità della misura nonché per non essere stato considerato che: a) egli era stato impegnato in attività non lavorative al di fuori dell’ufficio; b) non aveva violato il complessivo "monte ore"; c) non era stato verificato se si fosse trattenuto in ufficio oltre il normale orario di lavoro e quali erano stati i risultati raggiunti.
6. Con il sesto motivo si rileva l’ingiustizia della sentenza, in relazione alla proporzionalità tra i fatti contestati e il provvedimento espulsivo, anche sotto il profilo dell’insufficienza della motivazione ex art. 360 n. 5 cpc e/o nullità della sentenza ex art. 360 n. 4 cpc, in relazione all’art. 132 comma 2 cpc, per motivazione totalmente omessa o solo apparente.
7. Con il settimo motivo il ricorrente lamenta l’ingiustizia della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione ex art. 360 n. 3 cpc, degli artt. 2119 cc, dell’art. 1 della legge n. 604/1966, degli artt. 1455, 2106, 2119 e 2697 cc, per totale assenza -sia in punto assertivo che dimostrativo - del pregiudizio agli scopi aziendali che la resistente avrebbe subito in conseguenza dell’inadempimento del dipendente.
8. Il primo motivo è inammissibile.
9. Nel processo civile l’invalidità della costituzione di una delle parti non integra una nullità rilevabile di ufficio, senza alcun limite, in ogni stato e grado del giudizio, sicché è da ritenersi preclusa, in sede di cassazione, la questione della irregolarità della costituzione di una delle parti in primo grado ovvero in secondo grado qualora la questione non sia stata sollevata tempestivamente nei gradi di merito (in termini Cass. 4.4.2008 n. 8806; Cass. 18.5.2017 n. 12461; Cass. 12.1.2006 n. 403).
10. Nella fattispecie in esame, il vizio delle procure di primo e secondo grado è stato eccepito solo nel presente giudizio di cassazione, con la conseguenza che esso è tardivo ed inammissibile.
11. Per ragioni di pregiudizialità logico-giuridica deve essere esaminato dapprima il terzo motivo riguardante, in sostanza, la asserita illiceità dell’impiego delle investigazioni private commesse a terzi, nel caso concreto, perché finalizzato all’accertamento dell’inadempimento del dipendente alla prestazione lavorativa.
12. Il motivo è infondato.
13. Giova precisare che l’attività del T. si svolgeva non solo nei locali dell’azienda, ma anche esternamente; che era tenuto al rispetto dell’orario di lavoro di 37 ore settimanali e che doveva attestare la propria presenza al lavoro con un’unica timbratura giornaliera del badge, effettuabile nell’arco della giornata, abitualmente all’uscita del lavoro.
14. Orbene, la disposizione dell’art. 2 dello Statuto dei lavoratori, nel limitare la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, non precludono a quest’ultimo di ricorrere ad agenzie investigative, purché queste non sconfinino nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria riservata dall’art. 3 dello Statuto direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori e giustificano l’intervento in questione non solo per l’avvenuta prospettazione di illeciti e per l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (cfr. Cass. 14.2.2011 n. 3590); inoltre, il suddetto intervento deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero adempimento dell’obbligazione (Cass. 7.6.2003 n. 9167).
15. Le garanzie degli artt. 2 e 3 citati operano, infatti, esclusivamente con riferimento all’esecuzione della attività lavorativa in senso stretto, non estendendosi, invece, agli eventuali comportamenti illeciti commessi dal lavoratore in occasione dello svolgimento della prestazione che possono essere liberamente accertati dal personale di vigilanza o da terzi.
16. Orbene, nella fattispecie il convincimento della Corte territoriale si è basato sull’esito di un’attività investigativa, oggetto anche di prova testimoniale degli investigatori, rientrante nei poteri di controllo datoriale, in quanto esercitata in luoghi pubblici, onde è stato accertato, per 10 giorni, non solo il mancato rispetto dell’orario giornaliero di lavoro ma anche che, in orario di lavoro, al di fuori dell’ufficio, il T. non aveva svolto alcuna attività lavorativa.
17. Deve, pertanto, ritenersi corretto il riferimento dei giudici di seconde cure al fatto che, nel caso in esame, il controllo non era diretto a verificare le modalità di adempimento dell’obbligazione lavorativa, bensì le cause dell’assenza del dipendente dal luogo di lavoro, concernenti appunto il mancato svolgimento dell’attività lavorativa da compiersi anche all’esterno della struttura aziendale.
18. La ritenuta liceità del controllo rende, altresì, prive di fondamento le doglianze sulla violazione degli artt. 2104 e 2106 cc perché il potere dell’imprenditore di controllare direttamente o indirettamente l’adempimento delle prestazioni lavorative, nei limiti sopra evidenziati, non è escluso dalle modalità di controllo che può legittimamente avvenire anche occultamente, senza che vi ostino né il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione dei rapporti, né il divieto di cui all’art. 4 della legge n. 300/1970 riferito esclusivamente all’uso di apparecchiature per il controllo a distanza (in termini cfr. Cass. 10.7.2009 n. 16196).
19. Il rigetto del terzo motivo rende inammissibile la trattazione del secondo, riguardante la pretesa nullità della sentenza gravata per avere ritenuto questione nuova e, in quanto tale/preclusa in appello, la tematica sulla illegittimità del controllo la quale, riguardando una prova vietata dalla legge, avrebbe dovuto essere valutata in ogni stato e grado ex officio.
20. La pronuncia impugnata è, infatti, sorretta sul punto da due ragioni distinte ed autonome (tardività ex art. 437 cpc della eccezione e liceità del controllo), ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, di talché essendo divenuta definitiva, come sopra visto, per la infondatezza della relativa doglianza, una delle argomentazioni che la sorreggono, diventa superfluo l’esame dell’altra.
21. A ciò si aggiunga che il ricorrente neanche ha censurato espressamente il richiamo della Corte di merito all’onere che incombeva su parte attrice in prime cure (T.P. ) di attivarsi ex art. 420 c. 1 cpc per essere autorizzato alla modifica della domanda, qualora avesse dimostrato di essere venuto a conoscenza delle modalità di accertamento della illecita condotta, posta a fondamento del licenziamento, solo con la costituzione in giudizio della società: e ciò costituisce un ulteriore profilo di inammissibilità della censura.
22. Il quarto motivo presenta profili di inammissibilità e di infondatezza.
23. È inammissibile perché si fonda sul presupposto della illiceità dell’esito dell’attività investigativa che è stata esclusa in relazione all’esame del terzo motivo.
24. È infondato perché comunque l’attività istruttoria espletata dai giudici di merito non si è limitata alla sola indagine sulla relazione investigativa, ma anche all’escussione dei testi, le cui deposizioni sono state anche riportate in parte nella pronuncia.
25. Del resto, va considerato che non è necessario che il giudice di merito prenda in esame, al fine di condividerle o confutarle, tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che indichi le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in questo caso ritenere implicitamente rigettate tutte le tesi logicamente incompatibili con esse (cfr. Cass. n. 19748/2011; Cass. n. 22801/2009).
26. Analogo discorso vale per la valutazione delle prove, per il controllo di attendibilità e per la scelta tra le risultanze istruttorie di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, spettando al giudice di merito l’apprezzamento dei fatti e delle prove stesse (cfr. tra le altre Cass. 23.12.2009 n. 27162; Cass. 6.3.2008 n. 6064).
27. Il quinto ed il settimo motivo, per le connesse questioni logico-giuridiche che le connotano, devono essere esaminati congiuntamente.
28. Essi sono infondati.
29. La giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario, integra una clausola generale che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto demandato al giudice del merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici (Cass. 26.4.2012 n. 6498; Cass. n. 5095/2011).
30. Nella fattispecie in esame il ricorrente lamenta proprio, richiamando peraltro la violazione dell’art. 2697 cc, l’errata valutazione sulla concreta ricorrenza di elementi idonei a costituire la giusta causa di licenziamento e la proporzionalità della sanzione che costituisce accertamento di fatto devoluta al giudice del merito il quale, nel caso de quo, con motivazione corretta sul versante logico e giuridico, e quindi incensurabile in cassazione, ha ritenuto comprovati, sulla base delle risultanze istruttorie offerte (esiti dell’attività investigativa e prove testimoniali raccolte), l’entità notevolissima dei ritardi, la loro sistematicità, il ruolo rivestito in azienda dal ricorrente, l’assenza di qualsiasi giustificazione, l’ostinazione dimostrata nel sottrarsi al rispetto degli obblighi professionali, quali fattori che inducessero a ritenere la condotta del lavoratore di gravità tale da ledere irreparabilmente il vincolo di fiducia, nonostante l’assenza di precedenti disciplinari e la durata ultradecennale del rapporto.
31. Il sesto motivo, infine, è inammissibile, in relazione al denunciato vizio di insufficiente motivazione ex art. 360 n. 5 cpc; infatti, tale ultima disposizione, come riformulata dall’art. 54 del d.l. 22.6.2012 n. 83 conv. in legge 7.8.2012 n. 134, consente solo la censura relativa all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, ma non anche la critica sul controllo della motivazione della sentenza. È infondato, invece, con riguardo al dedotto vizio ex artt. 360 n. 4 cpc e 132 comma 2 n. 4 cpc, per motivazione totalmente assente, perché, secondo il consolidato insegnamento di legittimità, la giuridica inesistenza ricorre solo allorché il provvedimento manchi di quel minimo di elementi o di presupposti necessari per la produzione dell’effetto di certezza giuridica, proprio del giudicato (tra le altre cfr. Cass. 26.2.1994 n. 1965).
32. Nel caso concreto, la Corte territoriale ha, invece, esaminando il secondo motivo di appello, valutato la proporzionalità tra i fatti contestati ed il provvedimento espulsivo perché ha ritenuto, con argomentazioni logiche e congrue, richiamando anche l’assunto del primo giudice, che le condotte poste in essere erano inequivocabilmente idonee a far venire meno la fiducia sulla correttezza dei futuri adempimenti e per tale via integravano un fatto che non consentiva la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto.
33. Alla stregua di quanto esposto il ricorso deve essere rigettato.
34. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.