L'abbandono del domicilio domestico costituisce reato solo in assenza di una giusta causa: bastano quindi ragioni di carattere interpersonale tra i coniugi che non consentano la prosecuzione della vita in comune per giustificare il trasloco.
Cassazione penale
Sez. VI, (ud. 12-02-2008) 13-03-2008, n. 11327
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
Con la sentenza in epigrafe, la Corte d'appello di Napoli ha confermato quella del Tribunale di S. Maria Capua Vetere del 28 settembre 2004, appellata da A.C., con la quale il medesimo era stato condannato alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione, per avere falsamente denunciato all'autorità che la moglie C.G. si era allontanata dalla casa coniugale rendendosi responsabile del reato di cui all'art. 570 c.p. (In (OMISSIS)).
Avverso la sentenza anzidetta propone ricorso per cassazione l'imputato il quale deduce la errata applicazione dell'art. 368 c.p., mancando, nella specie, sia l'elemento oggettivo che soggettivo del reato. Anche se la moglie si era allontanata dalla casa coniugale con il suo consenso, quest'ultimo doveva ritenersi privo di efficacia, perchè il reato lede l'interesse della famiglia e non del singolo.
Quanto al dolo, difettava in lui la certezza della innocenza dell'incolpata.
Con altro motivo deduce la illegittimità costituzionale della L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3, sulla inapplicabilità, al caso, dei nuovi termini di prescrizione del reato previsti dalla legge richiamata.
Il ricorso non può essere accolto.
Da tempo la giurisprudenza di questa Corte è orientata nell'affermare che l'abbandono del domicilio domestico costituisce reato solo in assenza di una giusta causa e che tale giusta causa è integrata anche da ragioni di carattere interpersonale tra i coniugi che non consentano la prosecuzione della vita in comune.
Si è messo in evidenza in proposito non solo che il giudice penale deve limitarsi a valutare le ragioni dell'allontanamento dalla casa coniugale del coniuge imputato del reato, ma che la riforma del diritto di famiglie risalente alla L. 19 maggio 1975, n. 151 cataloga tra le cause che non consentono la prosecuzione della vita in comune tutte quelle che si desumono dai principi tratti dagli artt. 145, 146 e 151 c.c., tra i quali quello della "intollerabilità della prosecuzione della convivenza".
E nel caso, era tale l'intollerabilità raggiunta al punto che l' A. era stato imputato del reato di maltrattamenti (reato dichiarato estinto per intervenuta prescrizione) e che i coniugi erano pervenuti a un accordo preventivo (provato anche a mezzo di testimoni), in regime di convivenza, secondo cui era opportuno che si separassero e che la moglie C.G. avrebbe dovuto lasciare la casa coniugale e trovare altrove un'idonea sistemazione abitativa a spese dell'imputato.
Poiché all'imputato non poteva certo sfuggire tale situazione, e quindi la piena liceità dell'agire della consorte, se ne deve desumere la falsità della denuncia e la piena consapevolezza della innocenza della C. da parte dell'imputato.
Anche il secondo motivo va disatteso, in quanto la dedotta questione di legittimità costituzionale della norma della L. n. 251 del 2005, art. 10 nella parte in cui esclude l'applicazione del nuovo regime della prescrizione ai giudizi pendenti nella fase di appello e di cassazione è inammissibile in quanto non sono neppure indicate le norme parametro della Costituzione con le quali le disposizioni transitorie dell'ari. 10 cit. sarebbe in conflitto.
Il ricorso va pertanto rigettato e al rigetto segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.