Dimissioni per giusta causa fanno sorgere il diritto alla disoccupazione: a favore dei lavoratori che perdono l?occupazione è previsto dall?ordinamento previdenziale un trattamento economico sostitutivo della retribuzione, erogato dall?Inps (ex indennità di disoccupazione, ora Assicurazione sociale per l?impiego, ASPI), che consente, al lavoratore che ha perso il posto di lavoro, la percezione di un assegno che riduca gli effetti negativi della mancanza di un lavoro. Normalmente non si ha diritto all?indennità di disoccupazione, né quella ordinaria né quella con requisiti ridotti, nel caso di dimissioni volontarie da parte del lavoratore. Ma se il caso in questione è una dimissione volontaria ma è per giusta causa, dà comunque diritto alla percezione dell?indennità di disoccupazione (Corte Costituzionale, sentenza 269/2002) .
La circolare n. 163 del 2003 dell?Inps ha chiarito che si considerano ?per giusta causa? le dimissioni determinate dai seguenti eventi:
- dal mancato pagamento della retribuzione;
- dall'aver subito molestie sessuali nei luoghi di lavoro;
- dalle modificazioni peggiorative delle mansioni lavorative;
- dal cosiddetto mobbing, ossia di crollo dell?equilibrio psico-fisico del lavoratore a causa di comportamenti vessatori da parte dei superiori gerarchici o dei colleghi (spesso, tra l?altro, tali comportamenti consistono in molestie sessuali o ?demansionamento?, già previsti come giusta causa di dimissioni);
- dalle notevoli variazioni delle condizioni di lavoro a seguito di cessione ad altre persone (fisiche o giuridiche) dell?azienda;
- dallo spostamento del lavoratore da una sede ad un?altra, senza che sussistano le ?comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive? previste dall?art. 2103 codice civile (Corte di Cassazione, sentenza n. 1074/1999);
- dal comportamento ingiurioso posto in essere dal superiore gerarchico nei confronti del dipendente (Corte di Cassazione, sentenza n.5977/1985)
Una circolare Inps del 2006 ha chiarito che rientra nelle ?notevoli variazioni delle condizioni di lavoro a seguito di cessione ad altre persone (fisiche o giuridiche) dell?azienda? di cui all?elenco precedente, il caso in cui la cessazione dell?attività lavorativa consegua a risoluzione consensuale del rapporto di lavoro. E soprattutto il caso in cui il lavoratore venga trasferito ad una diversa sede dell?azienda, quando quest?ultima si trovi ad una notevole distanza dalla residenza e/o dall?ultima sede presso la quale il dipendente prestava la propria attività.
Relativamente alla presentazione delle domande, se il lavoratore dichiara che si è dimesso per giusta causa, dovrà corredare la domanda con una documentazione (dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà) da cui risulti almeno la sua volontà di ?difendersi in giudizio? nei confronti del comportamento illecito del datore di lavoro (allegazione di diffide, esposti, denunce, citazioni, ricorsi d?urgenza ex articolo 700 c.p.c., sentenze ecc. contro il datore di lavoro, nonché ogni altro documento idoneo), impegnandosi a comunicare l?esito della controversia giudiziale o extragiudiziale. Laddove l?esito della lite dovesse escludere la ricorrenza della giusta causa di dimissioni, si dovrà procedere al recupero di quanto pagato a titolo di indennità di disoccupazione, così come avviene nel caso di reintegra del lavoratore nel posto di lavoro successiva a un licenziamento illegittimo che ha dato luogo al pagamento dell?indennità di disoccupazione.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 27 gennaio ? 28 maggio 2015, n. 11051
Presidente De Cesare ? Relatore Ghinoy
Svolgimento del processo
Con la sentenza n. 94 del 2009, la Corte d'appello di Ancona confermava la sentenza del Tribunale di Pesaro, che aveva condannato l'Inps a corrispondere a G.S. l'indennità di disoccupazione (nel regime operante ratione temporis), essendosi ella dimessa dal lavoro a causa delle condizioni di salute (intervento chirurgico al naso) che le impedivano di lavorare in ambiente con alta concentrazione di polveri e impiego di sostanze coloranti. Allo scopo la Corte riteneva che ai fini dell'articolo 34 comma 5 della L. 23 dicembre 1998 n. 448 dovesse essere valorizzato, in coerenza con l'interpretazione costituzionalmente orientata adottata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 269 del 2002, l'aspetto dell' involontarietà delle dimissioni, in presenza di una circostanza che non consentiva la prosecuzione del rapporto, quale si era verificata nel caso.
Per la cassazione della sentenza l'Inps ha proposto ricorso, affidato a due motivi; G.S. ha resistito con controricorso; le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c. .
Motivi della decisione
1. A sostegno del primo motivo di ricorso l'Inps deduce violazione e falsa applicazione degli articoli 2119 comma primo del codice civile, 34 comma quinto della L. 23 dicembre 1998 n. 448 e 45 comma terzo del R.D.L. 4 ottobre 1935 n. 1827.
Argomenta che la sentenza della Corte costituzionale n. 269 del 2002, che ha affermato il diritto all' indennità ordinaria di disoccupazione nell'ipotesi in cui le dimissioni siano rassegnate ai sensi dell'articolo 2119 c.c., ha fatto riferimento ad una circostanza impeditiva della prestazione derivante del datore di lavoro o da un terzo, non già alla situazione soggettiva del lavoratore, la cui scelta, ancorché dettata da motivi di salute, rimane tuttavia volontaria.
2. Come secondo motivo lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 45 comma 3 del R.D.L. 4 ottobre 1935 n. 1827, laddove la Corte non ha considerato che la disoccupazione per malattia ovvero per motivi di salute non è indennizzabile, in quanto non deriva da mancanza di lavoro, ma dal fatto che è venuta a mancare la capacità di lavoro da parte dell'assicurato, situazione per la quale soccorrono altre provvidenze previdenziali o assistenziali poste dalla legge.
3. 1 due motivi, che possono essere valutati congiuntamente in quanto connessi, non sono fondati.
L'art. 34 comma 5 della L. 23/12/1998, n. 448, in tema di trattamenti pensionistici e di disoccupazione, dispone al comma 5 che "La cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni intervenuta con decorrenza successiva al 31 dicembre 1998 non dà titolo alla concessione dell' indennità di disoccupazione ordinaria, agricola e non agricola, con requisiti normali di cui al regio decreto-legge 4 ottobre 1935, n. 1827 , convertito, con modificazioni, dalla legge 6 aprile 1936, n. 1155 , e successive modificazioni e integrazioni, e con requisiti ridotti di cui al decreto-legge 21 marzo 1988, n. 86 , convertito, con modificazioni, dalla legge 20 maggio 1988, n. 160, e successive modificazioni e integrazioni"
3.1. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 269 del 24-06-2002, ha ritenuto che tale norma non violi gli artt. 3 e 38 Cost. , nella parte in cui, nell'escludere il titolo all'indennità di disoccupazione in caso di dimissioni, non distingue tra dimissioni per giusta causa ed altre forme di recesso del prestatore. Ha infatti rilevato che, ancorché la disposizione censurata non contempli espressamente l'ipotesi di dimissioni per giusta causa, una lettura della stessa conforme a Costituzione induce a ritenere che la sua formulazione non possa escludere la corresponsione dell'indennità ordinaria di disoccupazione nelle ipotesi in cui le dimissioni del lavoratore non siano riconducibili alla sua libera scelta, perché indotte da comportamenti altrui idonei a integrare la condizione della improseguibilità del rapporto - come detta l'art. 2119 c.c. - con conseguente stato di disoccupazione involontaria ai sensi dell'art. 38 Cost.
Ha poi argomentato che nel nostro ordinamento l'ipotesi della giusta causa di recesso è presa in considerazione dall'art. 2119 cod. civ., che richiede che si verifichi "una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto". In presenza di una condizione di improseguibilità del rapporto, la cui ricorrenza deve essere valutata dal giudice, l'atto di dimissioni, ancorché proveniente dal lavoratore, è comunque da ascrivere al comportamento di un altro soggetto, ed il conseguente stato di disoccupazione non può che ritenersi involontario, ai sensi dell'art. 38 della Costituzione.
Le dimissioni indotte da una causa insita in un difetto del rapporto di lavoro subordinato, così grave da impedirne persino la provvisoria prosecuzione comportano, dunque, ad avviso della Corte, uno stato di disoccupazione involontaria e devono ritenersi non comprese, in assenza di un' espressa previsione in senso contrario, nell'ambito di operatività della disposizione censurata, potendosi pervenire a tale risultato attraverso un' interpretazione conforme alla Costituzione. Il ragionamento della Corte Costituzionale ha valorizzato quindi l'ipotesi della sussistenza di una giusta causa di dimissioni ex art. 2119 c.c., che ricorreva nella fattispecie, al fine di escludere l'aspetto della "volontarietà" delle stesse, e quindi della perdita del posto di lavoro, che esclude il diritto all'indennità di disoccupazione.
3.2. Sulla base di tali premesse, deve ritenersi che ai fini della configurazione della non volontarietà delle dimissioni, la causa che non consenta la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro deve consistere in circostanze che si presentino con caratteristiche di obiettiva gravità, e non siano solo valutate soggettivamente tali dal lavoratore, dovendo rendere incompatibile la prosecuzione del rapporto di lavoro. Non di meno, in applicazione degli stessi principi, deve ammettersi che tale obiettiva incompatibilità possa consistere anche nelle sopravvenute condizioni di salute del dipendente, pur a prescindere dall'individuazione di un inadempimento contrattuale o comunque di una condotta colposa del datore di lavoro o di un terzo. L'applicazione degli artt. 3 e 38 della Costituzione tanto più impone infatti che operi la tutela contro la disoccupazione involontaria, quando le dimissioni siano oggettivamente determinate dalla necessità del dipendente di tutelare la propria salute, a fronte di una condizione lavorativa con la stessa incompatibile, poiché in tal caso la scelta risolutoria del lavoratore non è "libera", ma necessitata dalla tutela di un diritto, quello alla salute, di rango costituzionale.
Le esigenze di contenimento della spesa pubblica e di razionalizzazione del sistema, perseguite dalla disposizione in esame attraverso l'introduzione di un requisito inteso ad impedire distorte conseguenze applicative del trattamento di favore, non possono peraltro in tal modo ritenersi disattese, dovendo comunque l' incompatibilità dello stato di salute con la prestazione lavorativa risultare da elementi oggettivamente verificabili.
3.3. Nel caso che ci occupa, la soluzione della Corte d'appello è stata fondata sul presupposto che l'incompatibilità delle condizioni di salute della S. con il posto di lavoro determinassero una causa oggettiva di improseguibilità del rapporto, circostanza che non era stata utilmente revocata in dubbio dall'Inps; tale argomentazione non viene censurata dall' istituto ricorrente in questo giudizio di legittimità. Le dimissioni, quindi, non potevano ritenersi dipendenti da una libera scelta della lavoratrice, sicché la percezione dell'indennità rientra nella tutela predisposta dall'art.. 38 Cost., secondo l' interpretazione costituzionalmente orientata fornita dalla Corte Costituzionale nella sentenza sopra richiamata.
3.4. Né la soluzione adottata si pone in contrasto con il precedente di questa Corte costituito dalla sentenza, apparentemente di segno contrario, n. 29481 del 2008, considerato che non ogni ipotesi di dimissioni per motivi di salute determina il diritto all'indennità di disoccupazione, essendo necessario che le condizioni di salute abbiano determinato, come nella fattispecie che ci occupa secondo la ricostruzione fattuale che ne ha dato la Corte di merito, una causa oggettiva di improseguibilità del rapporto.
3.5. Non si può infine porre un problema di coesistenza con le provvidenze dettate per la riduzione della capacità lavorativa, considerata l'incompatibilità dei trattamenti contro la disoccupazione con l' assegno e la pensione di invalidità sancita dall' art. 6 comma 7 del D.L. 20/05/1993, n. 148, convertito con modificazioni dalla L. 19 luglio 1993, n. 236.
4. Segue il rigetto del ricorso e la condanna della parte soccombente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna l' Inps al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in complessivi ? 2.000,00 per compensi professionali, oltre ad ? 100,00 per esborsi, rimborso spese generali ed accessori di legge, con distrazione in favore del difensore per dichiarata anticipazione.