Le prescrizioni stabilite dalla misura del divieto di avvicinamento, non comportano, anche se disposte cumulativamente, una limitazione della libertà di movimento del soggetto, ad essa sottoposto, tale da impedire in modo assoluto - a differenza delle misure custodiali o anche qualdo sia disposto obbligo di dimora - l'esercizio da parte dell'imputato alla partecipazione al processo.
Non si pone, quindi, l'esigenza di disporre traduzioni né di autorizzare la presenza dell'imputato all'udienza.
Tale conclusione non muta pur se all'udienza è prevista la partecipazione della persona offesa, nel cui interesse è stato applicato all'imputato la misura del divieto di avvicinamento: sarebbe paradossale infatti imporre tale divieto in un contesto già di per sé "protetto".
La vicinanza dell'imputato alla persona offesa in udienza senza autorizzazione non integra una ipotesi di violazione della misura, trovando giustificazione nell'esercizio del diritto dell'imputato di partecipare al processo: diritto riconosciuto dall'art. 111 Cost. e che trova indefettibile affermazione anche sul versante delle norme pattizie internazionali (art. 6, comma 3, lett. c), d), e), della Convenzione europea dei diritti dell'uomo; art. 14, comma 3, del Patto internazionale sui diritti civili e politici - adottato a New York il 16 dicembre 1966, reso esecutivo con L. 25 ottobre 1977, n. 881, ed entrato in vigore per l'Italia il 15 dicembre 1978).
Ciò che invece costituisce violazione del divieto, infatti, è avvicinarsi alla persona offesa - o, in caso di incontro occasionale, non allontanarsi da essa - senza motivo legittimo.
Nel caso del processo a carico del soggetto sottoposto al divieto di avvicinamento, pertanto, non sussiste la necessità di provvedere al fine di consentire all'imputato di partecipare al proprio processo, ma occorre, piuttosto, porsi il problema della tutela della persona offesa.
L'impedimento dell'imputato può ritenersi assoluto solo in presenza di una misura che rende impossibile in concreto all'imputato di recarsi in udienza.
Corte di Cassazione
sez. VI, ud. 17 ottobre 2023 (dep. 18 gennaio 2024), n. 2318
Presidente Calvanese – Relatrice Pacilli
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 27 settembre 2022, la Corte di appello di Ancona ha confermato la sentenza emessa il 24 febbraio 2020 dal Tribunale di Ascoli Piceno, con cui H. S. è stato condannato alla pena ritenuta di giustizia per i reati di maltrattamenti in famiglia ai danni della moglie e della figlia e di lesioni personali ai danni della moglie.
2. Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputato, che ha dedotto i seguenti motivi:
2.1. violazione di legge e omessa motivazione in ordine all'eccezione, sollevata con i motivi nuovi in appello, di nullità del giudizio di primo grado, celebrato in assenza dell'imputato, impedito a comparire perché sottoposto alla misura del divieto di avvicinamento alla persona offesa. In applicazione dei principi enunciati nella sentenza delle Sezioni unite n. 7635 del 30 settembre 2021, il giudice di primo grado non avrebbe potuto istruire la causa in assenza dell'imputato, perché non autorizzato ad intervenire, e alla presenza della parte offesa;
2.2. violazione di legge e omessa motivazione, non avendo la Corte di appello dato risposta al rilievo difensivo formulato nella memoria inviata a mezzo PEC il 22 settembre 2022, con cui si evidenziava che la condotta doveva ritenersi interrotta alla data del 21 giugno 2018, atteso che da tale data al 22 agosto 2018 le persone offese avevano fatto rientro in India, come risultava dalla querela. I fatti sarebbero estinti, quindi, per prescrizione;
2.3. violazione di legge e vizi della motivazione, non essendo stata data risposta neanche alla richiesta di concessione del beneficio della non menzione, effettuata nella memoria difensiva, inviata a mezzo PEC all'indirizzo istituzionale della Corte di appello di Ancona.
Considerato in diritto
1. Il ricorso deve essere complessivamente rigettato con riferimento al primo motivo, risultando per il resto non superare il vaglio di ammissibilità.
2. Il primo motivo - con cui il ricorrente ha dedotto che alcune udienze sarebbero state celebrate in sua assenza, nonostante egli fosse legittimamente impedito a comparire perché sottoposto alla misura del divieto di avvicinamento alla persona offesa - è infondato.
2.1. L'assunto del ricorrente, secondo cui il divieto di avvicinamento alla persona offesa costituiva un legittimo impedimento a comparire all'udienza, muove dall'erronea equiparazione dell'anzidetta misura a quelle prese in considerazione nella sentenza n. 7635 del 2022 delle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 7635 del 30/09/2021, dep. 2022, Costantino, Rv. 282806).
Con tale pronuncia le Sezioni Unite hanno affermato che «la restrizione dell'imputato agli arresti domiciliari per altra causa, comunicata al giudice procedente, in qualunque tempo, integra un impedimento legittimo, che impone al medesimo giudice di rinviare a una nuova udienza e disporne la traduzione».
Nell'affrontare il problema sottoposto alla loro attenzione, le Sezioni Unite hanno sottolineato, in primo luogo, come la fattispecie esaminata era diversa dall'ipotesi dell'adozione della misura restrittiva nell'ambito e per causa relativa al processo in corso: in tal caso, infatti, il giudice procedente «è necessariamente edotto e sono disciplinati positivamente i poteri volti a superare l'impedimento mediante l'emissione dell'ordine di traduzione o del provvedimento di autorizzazione a giungere all'udienza con mezzi propri in presenza del regime di detenzione presso la propria abitazione».
In secondo luogo, tale decisione, muovendo dalla equiparazione della condizione dell'imputato detenuto a quella della persona agli arresti domiciliari o, comunque, sottoposto a limitazione della libertà personale che non le consente la presenza in udienza, ha affermato che nel giudizio ordinario deve essere sempre assicurata, in mancanza di inequivoco rifiuto alla partecipazione, la presenza dell'imputato.
Di conseguenza, «in virtù della norma generale fissata dall'art. 420-ter, commi 1 e 2, cod. proc. pen., qualora l'imputato non si presenti e in qualunque modo risulti (o appaia probabile) che l'assenza è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento, spetta al giudice disporre, anche di ufficio, il rinvio ad una nuova udienza, senza che sia necessaria una qualche richiesta in tal senso. Pertanto, qualora l'imputato sia detenuto o agli arresti domiciliari o comunque sottoposto a limitazione della libertà personale che non gli consente la presenza in udienza, poiché in tali casi è in re ipsa il legittimo impedimento, il giudice, in qualunque modo ed in qualunque tempo venga a conoscenza dello stato di restrizione della libertà, anche in assenza di una richiesta dell'imputato, deve di ufficio rinviare il processo ad una nuova udienza e disporre la traduzione dell'imputato, salvo che non vi sia stato un espresso rifiuto dell'imputato ad assistere all'udienza».
2.2. Alla luce dei suddetti principi enunciati non vi è dubbio che all'imputato detenuto è stato equiparato quello agli arresti domiciliari o comunque sottoposto a limitazione della libertà personale che non gli consente la presenza in udienza.
Sul solco di tale equiparazione, si è affermato, quindi, che costituisce legittimo impedimento a comparire anche la sottoposizione dell'imputato, in relazione al reato per cui si procede, alla misura dell'obbligo di dimora in un comune diverso da quello in cui ha sede l'ufficio giudiziario, sicché il giudice che procede, senza necessità di preventiva richiesta, è tenuto ad autorizzarlo ad allontanarsi dal comune di residenza ovvero, in mancanza, a differire il processo ad altra data (cfr., Sez. 6, n. 26622 del 19/05/2022, Mouharned, Rv. 283880 - 01; Sez. 6, n. 35190 del 30/03/2022, Ben Amor, Rv. 283730 - 01; Sez. 2, n. 18659 del 3/3/2022, Catallo, Rv. 283181 - 01).
Anche nel caso dell'obbligo di dimora in comune diverso da quello in cui ha sede l'ufficio giudiziario, infatti, vi è una restrizione della libertà che, al pari della detenzione in carcere, non consente la presenza in udienza e una differenziazione delle due situazioni sarebbe foriera di irragionevolezza, ove si consideri che il detenuto in carcere può agevolmente dialogare con l'autorità giudiziaria procedente tramite l'ufficio matricola, mentre non sempre l'imputato agli arresti domiciliari, o comunque sottoposto a una limitazione della libertà personale che non gli consente la presenza in udienza, è in grado di veicolare le sue richieste.
2.3. Ciò che si enuclea dalle pronunce sopra menzionate è che l'impedimento può ritenersi assoluto solo in presenza di una misura che rende impossibile in concreto all'imputato di recarsi in udienza.
In una corretta prospettiva interpretativa, ad esempio, l'obbligo di dimora, che pure pone una significativa limitazione alla libertà di movimento, non costituisce per ciò solo ipotesi di legittimo impedimento a partecipare all'udienza.
Qualora l'ufficio giudiziario sia ubicato nel medesimo comune ove la misura è in esecuzione, infatti, la limitazione della libertà dell'imputato non è di ostacolo alla sua presenza in udienza.
Ad analoghe conclusioni, d'altro canto, si deve pervenire per le altre misure coercitive che, pure comportando una restrizione, anche significativa, della libertà dell'imputato, non determinino una limitazione della libertà di movimento dello stesso che sia in assoluto e in concreto incompatibile con la partecipazione al processo, che gli impediscano, cioè, di raggiungere il luogo dove si tiene l'udienza.
2.4. Al fine di affermare se il divieto di avvicinamento alla persona offesa impedisca o meno al soggetto, ad esso sottoposto, di partecipare all'udienza, giova soffermarsi sulle peculiarità di tale misura.
Essa è stata prevista nell'ambito di una serie di riforme mirate a tutelare la vittima del reato.
La legge 4 aprile 2001, n. 154, infatti, ha inserito l'art. 282 bis cod. proc. pen., che disciplina la misura dell'allontanamento dalla casa familiare e prevede al comma 2, con una formulazione prima facie simile a quella successivamente adottata nella disciplina del divieto di avvicinamento, la possibilità per il giudice di prescrivere, nel caso di allontanamento dalla casa familiare, anche il divieto di avvicinamento dell'indagato ai luoghi dove la persona offesa svolge la sua vita di relazione.
Il successivo d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica di contrasto alla violenza sessuale nonché in tema di atti persecutori, convertito con modificazioni dalla L. 23 aprile 2009, n. 38, al fine dichiarato di maggiore incisività della tutela offerta rispetto ad allarmanti condotte persecutorie non adeguatamente contrastate, ha introdotto, sul piano del diritto sostanziale, il delitto di atti persecutori (art. 612-bis cod. pen.) e, sul piano processuale, il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 282-ter cod. proc. pen.). Si tratta di una nuova misura cautelare coercitiva che riprende la ratio e la struttura dell'art. 282-bis cod. proc. pen., costituendone una sorta di perfezionamento. La disposizione, nell'intenzione del legislatore, mira sostanzialmente a prevenire sviluppi criminogeni potenzialmente degenerativi, in quanto la distanza tra l'indagato e la persona offesa dal reato dovrebbe evitare le occasioni di contatto agevolatrici della prosecuzione di condotte delittuose.
2.5. Quanto al contenuto della misura, questa Corte (Sez. U, n. 39005 del 29/04/2021, G., Rv. 281957 - 01) ha precisato che l'art. 282-ter cod. proc. pen. prevede due prescrizioni finalizzate a precludere il contatto fisico tra persona offesa e indagato; preclusione assicurata dal divieto di avvicinamento ai luoghi "abitualmente" frequentati dalla persona offesa ovvero dal mantenere una certa distanza da tali luoghi o dalla persona offesa.
Tali prescrizioni possono essere applicate congiuntamente in considerazione della sostanziale unitarietà dell'effetto della misura, sicché «le due prescrizioni possibili non definiscono due misure cautelari diverse ma sono espressioni di un'unica misura, spettando al giudice il compito di determinare quali siano le modalità più idonee in concreto a tutelare, da un lato, le esigenze della persona offesa e, dall'altro, a salvaguardare comunque l'ambito di libertà personale dell'indagato».
Si è precisato che la necessità di indicare in maniera specifica e dettagliata i luoghi rispetto ai quali all'indagato è fatto divieto di avvicinamento consegue all'esigenza di conformare la misura al rispetto delle regole di esigibilità della condotta e conoscibilità delle prescrizioni. Da qui il principio di diritto in forza del quale il giudice che, con provvedimento specificamente motivato e nel rispetto dei principi di adeguatezza e proporzionalità, disponga, anche cumulativamente, le misure cautelari del divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa e/o di mantenimento della distanza dai medesimi, deve indicarli specificamente, mentre, nel caso in cui reputi necessaria e sufficiente la sola misura dell'obbligo di mantenersi a distanza dalla persona offesa, non è tenuto ad indicare i relativi luoghi, potendo limitarsi a determinare la stessa.
Onde fugare dubbi sulla compatibilità di tale misura cautelare con i diritti fondamentali della persona, le Sezioni Unite hanno chiarito che si tratta di misura che lascia "fisicamente" libera la persona, determinando solo limiti di movimento, nel rispetto dell'esigenza costituzionale di proporzione e gradualità.
Quel che rileva, hanno avvertito le Sezioni Unite, nel caso di indicazione nella misura della distanza dalla persona offesa da rispettare, sono in ogni caso le "violazioni dolose" delle prescrizioni, così da escludere il pericolo di imporre un gravoso divieto "dinamico" di avvicinamento anche nel caso di incontri involontari, stante la posizione "mobile" ed imprevedibile della persona offesa. La misura, in altri termini, va proporzionata alla sua funzione di protezione e, quindi, a quanto sia strettamente necessario a tutela della specifica vittima del reato: essa deve quindi conformarsi "al rispetto delle regole di esigibilità della condotta e conoscibilità delle prescrizioni".
Come evidenziato dal suddetto arresto, essa in definitiva mira a evitare, nel caso di reato di stalking, la "persistente ed invasiva ricerca di contatto con la vittima in qualsiasi luogo in cui la stessa si trovi" (Sez. 5, n. 13568 del 16/01/2012), ovvero, nel reato di cui all'art. 572 cod. pen., "mirate" aggressioni fisiche e psicologiche, così da escludere che essa vada, in maniera abnorme, a sanzionare incontri involontari.
2.6. Alla luce di quanto precede, deve affermarsi che le prescrizioni, stabilite dalla misura del divieto di avvicinamento, non comportano, anche se disposte cumulativamente, una limitazione della libertà di movimento del soggetto, ad essa sottoposto, tale da impedire in modo assoluto - al pari di quelle prese in considerazione dalle Sezioni Unite Costantino nell'arresto sopra ricordato - l'esercizio da parte dell'imputato alla partecipazione al processo.
Non si pone, quindi, l'esigenza di disporre traduzioni né di autorizzare la presenza dell'imputato all'udienza.
Tale conclusione non muta pur se all'udienza è prevista la partecipazione della persona offesa, nel cui interesse è stato applicato all'imputato la misura del divieto di avvicinamento.
Sarebbe paradossale infatti imporre tale divieto in un contesto già di per sé "protetto".
2.7. D'altro canto, in tal caso neppure si verifica una ipotesi di violazione della misura. La vicinanza dell'imputato alla persona offesa trova giustificazione nell'esercizio del diritto dell'imputato di partecipare al "suo" processo: diritto riconosciuto dall'art. 111 Cost. e che trova indefettibile affermazione anche sul versante delle norme pattizie internazionali (art. 6, comma 3, lett. c), d), e), della Convenzione europea dei diritti dell'uomo; art. 14, comma 3, del Patto internazionale sui diritti civili e politici - adottato a New York il 16 dicembre 1966, reso esecutivo con L. 25 ottobre 1977, n. 881, ed entrato in vigore per l'Italia il 15 dicembre 1978).
Ciò che costituisce violazione del divieto, infatti, è avvicinarsi alla persona offesa - o, in caso di incontro occasionale, non allontanarsi da essa - senza motivo legittimo o, peggio, con l'intenzione di commettere dei reati in suo danno.
2.8. Nel caso del processo a carico del soggetto sottoposto al divieto di avvicinamento, pertanto, non sussiste la necessità di provvedere al fine di consentire all'imputato di partecipare al proprio processo, ma occorre, piuttosto, porsi il problema della tutela della persona offesa.
2.9. Conclusivamente, nel caso in esame, dunque, l'imputato non era legittimamente impedito a comparire, così che deve ritenersi che le udienze, indicate in ricorso, si sono svolte in sua assenza per sua scelta.
3. Il secondo e il terzo motivo non sono consentiti, oltre che manifestamente infondati.
3.1. I rilievi difensivi sulla cessazione della condotta, ascritta al ricorrente, e la richiesta della non menzione della condanna, sono stati formulati in appello nella memoria inviata a mezzo PEC.
Come risulta dall'esame degli atti, la memoria è tardiva, non essendo stato rispettato il termine per il deposito, fissato nei cinque giorni prima dell'udienza. Essa, quindi, deve ritenersi tamquam non esset, con l'ulteriore conseguenza che il difensore del ricorrente, allorquando in sede di discussione si è riportato alla memoria, ha fatto riferimento a un atto non rilevante ai fini del giudizio.
3.2. In tale situazione deve affermarsi, quindi, che il ricorrente non ha ritualmente sollecitato la Corte di appello a concedere il beneficio della non menzione della condanna.
Al riguardo giova ricordare che questa Corte (Sez. U, n. 22533 del 25/10/2018, Salerno, Rv. 275376 - 01), in tema di sospensione condizionale della pena, ha affermato che, fermo l'obbligo del giudice di appello di motivare circa il mancato esercizio del potere - dovere di applicazione di detto beneficio in presenza delle condizioni che ne consentono il riconoscimento, l'imputato non può dolersi, con ricorso per cassazione, della sua mancata concessione, qualora non ne abbia fatto richiesta nel corso del giudizio di merito.
Siffatto epilogo vale anche nel caso della non menzione della condanna, trattandosi anche in tale ipotesi di beneficio che può essere concesso di ufficio, al pari della sospensione condizionale della pena.
3.3. Deve altresì rilevarsi che, in quanto tardiva, la memoria poteva non essere presa in considerazione dalla Corte territoriale, così che non è censurabile la mancata risposta ai rilievi, ivi formulati, sulla cessazione della permanenza del reato, ascritto al ricorrente, se non emergenti dagli atti.
Né - d'altra parte - il ricorrente può sollecitare questa Corte a svolgere accertamenti in fatto, preclusi al giudice della legittimità, al fine di dedurre l'intervenuta estinzione per prescrizione del reato.
4. Il rigetto del ricorso comporta, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.