Per una interpretazione convenzionalmente conforme del diritto interno, la causa di non punibilità prevista dall'art. 384, comma 1, c.p. in relazione ai delitti contro l'amministrazione della giustizia si applica anche in caso di convivenza more uxorio: ne consegue che il convivente della sorella di un evaso di prigione, che aiuti quest'ultimo a sottrarsi alle ricerche di polizia, non è punibile per favoreggiamento.
CORTE DI CASSAZIONE
SEZ. VI PENALE - SENTENZA 14 marzo 2019, n.11476
Pres. Paoloni – est. Silvestri
Ritenuto in fatto
1. La Corte di appello di Venezia ha confermato la sentenza con cui il Tribunale di Vicenza ha condannato C.S. per il reato di favoreggiamento.
All’imputato è contestato di aver aiutato l’evaso Ca.Ma. a sottrarsi alle ricerche dei carabinieri, ospitandolo all’interno della propria abitazione, e, successivamente, fornendo false informazioni ai carabinieri in ordine alla presenza dello stesso Ca. all’interno della sua abitazione.
2. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato deducendo un unico motivo con cui lamenta violazione di legge e vizio di motivazione; la sentenza sarebbe viziata nella parte in cui la Corte di appello ha ritenuto non configurabile l’esimente di cui all’art. 384 c.p., comma 1, in ragione dell’assunto secondo cui Ca.Ma. , fratello della convivente di C. , non potrebbe essere considerato giuridicamente prossimo congiunto, ai sensi dell’art. 307 c.p..
Secondo il ricorrente, l’affermazione della Corte di merito, che ha ritenuto non configurabile la esimente facendo riferimento alla nozione di famiglia legittima, non terrebbe conto delle recenti riforme intervenute nel diritto di famiglia e, in particolare, delle L. 20 maggio 2016, n. 76 che, all’art. 1, lett. a), avrebbe esteso l’esimente alle unioni civili; si valorizza anche l’art. 8 Cedu che farebbe riferimento ad una nozione onnicomprensiva di famiglia, alla cui tutela accederebbero anche i c.d. rapporti di fatto.
Ciò che tuttavia non pare essere stato compiuto con la L. n. 76 del 2016 è il coordinamento del diritto penale con le convivenze di fatto; ci si riferisce a quelle preesistenti situazioni di disparità di trattamento, che sono state verosimilmente acuite proprio a seguito dell’introduzione delle unioni civili. In tal senso, sono significativi casi della scusante di cui all’art. 384 c.p. e della causa di non punibilità di cui all’art. 649 c.p. che sono ora configurabili per le parti delle unioni civili, ma continuano a non essere formalmente riferibili ai fatti commessi dai conviventi 'more uxorio'.
L’applicazione della L. n. 76 del 2016 nel settore penalistico, si è osservato, incontra obiettive difficoltà che derivano dalla contrapposizione, o dalla divergenza di disciplina, tra coppie 'unite civilmente' e 'conviventi di fatto'.
Si è segnalata una rilevante frattura tra la regolamentazione delle 'unioni civili' rispetto alla disciplina delle 'convivenze di fatto', dal momento che la legge distingue, sul piano qualitativo, i due legami, applicando solo alle parti di un’unione civile una serie di disposizioni analoghe a quelle previste nel codice civile per la disciplina del matrimonio (art. 143).
Considerato in diritto
1. Il ricorso è fondato.
2. Non è in contestazione che tra l’imputato e la sorella del soggetto nel cui interesse sarebbe stata commessa la condotta di favoreggiamento sussistesse un rapporto di stabile convivenza, consolidata nel tempo, dal quale erano nati cinque figli. La questione attiene al se nell’ambito di rapporti del tipo di quelli in esame sia applicabile la causa di non punibilità prevista dall’art. 384 c.p., comma 1.
3. È indubbio che rispetto all’impianto codicistico del 1930, solo recentemente siano state episodicamente introdotte alcune disposizioni che danno rilievo alla convivenza more uxorio.
Significativo è il caso del delitto di maltrattamenti in famiglia, trasformato nel 2012 in maltrattamenti contro familiari e conviventi, ed è altresì noto come, in assenza di interventi del legislatore, l’adeguamento delle norme penali alla mutata realtà sociale dei rapporti di coppia debba confrontarsi, da una parte, con il divieto di analogia (nei casi in cui l’equiparazione dei rapporti di convivenza a quelli che traggono la propria fonte costitutiva nel matrimonio produrrebbe effetti 'in malam partem'), e, dall’altra, con il carattere eccezionale delle disposizioni via via considerate (nel caso, invece, di effetti 'in bonam partemn.
Il tema involge non solo la scusante di cui all’art. 384 c.p., in tema di delitti contro l’amministrazione della giustizia, ma, ad esempio, la causa di non punibilità prevista dall’art. 649 c.p., in materia di delitti contro il patrimonio.
La dottrina e la giurisprudenza hanno da tempo sollecitato un intervento del legislatore sulla materia ed in questa direzione, con riferimento alla convivenza more uxorio, la Corte costituzionale ha ripetutamente affermato che l’art. 29 Cost. riconosce alla famiglia legittima 'una dignità superiore, in ragione dei caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività di diritti e doveri che nascono soltanto dal matrimonio' (sent. n. 310 del 1989), mentre la famiglia di fatto è invece fondata sull’affectio quotidiana di ciascuna delle parti, liberamente e in ogni istante revocabile (ord. n. 121 del 2004), pur assumendo anch’essa rilevanza costituzionale, ma nell’ambito della protezione dei diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali garantite dall’art. 2 Cost. (sent. n. 237 del 1986 e sent. n. 140 del 2009).
In tali pronunzie si è posto in luce che, senza dubbio, la convivenza more uxorio costituisce un rapporto ormai entrato nell’uso e comunemente accettato, accanto a quello fondato sul vincolo coniugale, ma si è anche aggiunto che questa trasformazione della coscienza e dei costumi sociali, cui la Corte ha esplicitamente affermato di non essere indifferente (sentenza n. 8 del 1996, in motivazione), non autorizza la perdita dei contorni caratteristici delle due figure, collocandole in una visione unificante secondo la quale la convivenza di fatto rivestirebbe connotazioni identiche a quelle nascenti dal rapporto matrimoniale, sicché le due situazioni in sostanza differirebbero soltanto per il dato estrinseco della sanzione formale del vincolo.
In tale contesto, obiettivamente consolidato, si colloca tuttavia l’autorevole e recente invito della stessa Corte costituzionale, che, nell’ottobre del 2015, in una pronuncia di inammissibilità relativa all’art. 649 c.p., ha ricordato che 'spetta al ponderato intervento del legislatore...l’indispensabile aggiornamento della disciplina dei reati contro il patrimonio commessi in ambito familiare' (sent. n. 223 del 2015).
Nell’occasione, la Corte ha affermato con chiarezza che la Costituzione 'non giustifica una concezione della famiglia nemica delle persone e dei loro diritti' (sent. n. 494 del 2002), ed ha chiarito che 'il fondamento di ogni deroga al principio dell’uguaglianza tra i cittadini innanzi alla legge deve essere misurato, in termini di razionalità (dunque in termini di congruenza dei suoi presupposti logici e dei suoi concreti effetti), con riguardo alle condizioni di fatto e di diritto nelle quali la deroga stessa è chiamata ad operare. E poiché tali condizioni sono per definizione soggette ad una costante evoluzione, la ragionevolezza della soluzione derogatoria adottata dal legislatore può essere posta in discussione anche secondo un criterio di anacronismo, come questa Corte, del resto, ha più volte stabilito (ad esempio, sentenze n. 231 del 2013, n. 354 del 2002, n. 508 del 2000 e n. 41 del 1999)'.
Si è aggiunto che 'è ben vero che la discrezionalità legislativa si esercita non solo nella espressione di nuove scelte normative, ma anche nella stessa conservazione, nel tempo, dei valori normativi già affermati nell’ordinamento'.
Si è significativamente precisato che 'l’intervento di questa Corte si legittima in casi, come quello in esame, nei quali l’inopportuno trascinamento nel tempo di discipline maturate in un determinato contesto trasmodi, alla luce della mutata realtà sociale, in una regolazione non proporzionata e manifestamente irragionevole degli interessi coinvolti'.
In maniera condivisibile la dottrina ha sottolineato come la Corte, con la sentenza in esame abbia voluto cogliere e sviluppare, muovendo dalla prospettazione dell’ordinanza, l’assunto di una violazione del principio di ragionevolezza, se non di necessaria razionalità delle norme giuridiche: un problema dunque di congruenza tra funzione giustificatrice della norma e concretezza dei suoi effetti nell’ordinamento.
In tal senso la questione della ragionevolezza, si è testualmente affermato, è stata percepita in una prospettiva diacronica, cioè valutando se la giustificazione originaria della disciplina derogatoria, necessaria a giustificare la difformità di trattamento tra consociati tutti responsabili di un medesimo fatto obiettivo, abbia conservato la propria efficienza alla luce di un cospicuo mutamento della situazione di fatto e del relativo complesso di norme regolatrici.
4. In tale contesto si pone la L. 20 maggio 2016, n. 76 ('Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze') - nota anche come Legge Cirinnà - con cui è stata istituita l’unione civile tra persone dello stesso sesso 'quale specifica formazione sociale ai sensi degli artt. 2 e 3 Cost.', ed altresì introdotta una disciplina delle convivenze di fatto.
Quanto alle unioni civili, con la L. n. 76 del 2016, si riconoscono svariati effetti giuridici a relazioni affettive tra persone dello stesso sesso, maggiorenni, che istituiscono il relativo vincolo con dichiarazione resa, in presenza di testimoni, davanti a un ufficiale dello stato civile.
In via di principio - e con alcune significative esclusioni, a partire dalla disciplina in materia di adozione - la 'ratio' della Legge Cirinnà sembra essere quella di operare un riconoscimento sistemico di effetti - all’interno della coppia, nei rapporti con la pubblica amministrazione e con i terzi in genere - che colloca le unioni civili in posizione sostanzialmente equiparata al matrimonio.
Quanto alle convivenze di fatto, la legge ha regolamentato, inoltre, la convivenza di fatto al comma 36 dell’art. 1, ai sensi del quale si intendono per 'conviventi di fatto' due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza, non vincolate da rapporti di parentela, affinità, adozione, matrimonio o unione civile: 'queste convivenze si distinguono da quelle di mero fatto, in quanto la formalizzazione della convivenza è data dalla dichiarazione anagrafica D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223, ex art. 4 e art. 13, comma 1, lett. b), (v. L. n. 76 del 2016, art. 1, comma 37)'.
La legge indubbiamente amplia in maniera rilevante i diritti e le facoltà riconosciute dall’ordinamento ai conviventi, definiti come 'due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile'; senza nessuna pretesa di esaustività, si è sottolineato come il riconoscimento attenga a diversi ambiti e, in particolare, quelli dell’assistenza sanitaria, della casa e del lavoro.
In particolare, in caso di malattia e di ricovero, la L. n. 76 del 2016 prevede non solo il diritto reciproco di visita, di assistenza e di accesso alle informazioni personali, secondo le stesse regole previste per i coniugi e i familiari, ma si spinge ben oltre, attribuendo a ciascun convivente la facoltà di designare l’altro convivente quale rappresentante per le decisioni in materia di salute - in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere - e per la donazione degli organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie, in caso di morte.
Quanto alla casa di comune residenza, la legge attribuisce al convivente il diritto a continuare ad abitarvi per un certo periodo, in caso di morte del partner che ne sia proprietario, nonché il diritto a subentrare nel contratto di locazione, in ipotesi di morte del convivente-conduttore o di suo recesso dal contratto di locazione.
Ancora, in materia di lavoro la L. n. 76 del 2016 ha inserito nel codice civile un nuovo art. 230 ter, ai sensi del quale al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato (il diritto di partecipazione non spetta peraltro qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato).
Quanto infine ai rapporti tra i conviventi, la legge stessa ha previsto la possibilità di regolare i rapporti patrimoniali attraverso un contratto di convivenza.
5. Il tema, sul quale si riflette in dottrina, attiene tuttavia al se, a fronte del riconoscimento, ad ampio spettro, di diritti e obblighi connessi a rapporti di coppia ulteriori e diversi rispetto a quello, tradizionale, del matrimonio, la Legge Cirinnà abbia dispiegato i propri effetti anche in rami dell’ordinamento diversi da quello civile e, quindi, anche nel diritto penale.
I riflessi penalistici derivanti dall’istituzione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso sono stati molteplici e di indubbio rilievo: a) si è prevista la costituzione di una posizione di garanzia ex art. 40 c.p., comma 2, analoga a quella istituita in relazione ai coniugi dall’art. 143 c.c., atteso che la L. n. 76 del 2016, art. 1, comma 11 stabilisce che 'dall’unione deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione'; b) l’art. 1, comma 20, detta una clausola generale di adeguamento automatico, stabilendo che 'al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole coniuge, coniugi o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso (...)'; c) l’art. 1, comma 28, lett. c) delega il Governo ad apportare con un decreto legislativo - limitatamente alle unioni civili - 'modificazioni ed integrazioni normative per il necessario coordinamento con la presente legge delle disposizioni contenute nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti e nei decreti'.
In tale quadro di riferimento è intervento il D.Lgs. n. 19/01/2017, n. 6 con cui è stata modificata (art. 1, lett. a) la definizione legale di 'prossimi congiunti', dettata agli effetti della legge penale dall’art. 307 c.p., comma 4, inserendo nel relativo novero 'la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso'.
Questa modifica, si legge nella Relazione, sarebbe necessaria in vista dell’attuazione della Direttiva UE 2015/849, relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a fini di riciclaggio o finanziamento del terrorismo, che all’art. 3 'fa propria una definizione rilevante ai fini penali di familiari, che espressamente contempla accanto al coniuge una persona equiparata', con un 'chiaro riferimento alla parte di un rapporto matrimoniale o para-matrimoniale analogo a quello derivante dall’unione civile.
La modifica della definizione di cui all’art. 307 c.p., come si legge nella Relazione, si riflette sulle disposizioni penali nelle quali ricorre il concetto di 'prossimo congiunto'; vengono in rilievo, quanto agli effetti 'in bonam partem': le circostanze attenuanti per la procurata evasione (art. 386 c.p., comma 4) e per la procurata inosservanza di pene o misure di sicurezza (art. 390 c.p., comma 2, e art. 391 c.p., comma 1); la citata scusante relativa ai delitti contro l’amministrazione della giustizia (ad es., falsa testimonianza) commessi a favore di un prossimo congiunto (art. 384 c.p.); le cause di non punibilità relative ai fatti di assistenza ai partecipi di cospirazione o banda armata, o agli associati per delinquere (art. 307 c.p., comma 3, e art. 418 c.p., comma 3).
Nell’ambito dei molteplici interventi compiuti con il D.Lgs. in questione, deve essere segnalato quello relativo al disposto del nuovo art. 574 ter c.p..(rubricato Costituzione di un’unione civile agli effetti della legge penale) secondo cui: 'Agli effetti della legge penale il termine matrimonio si intende riferito anche alla costituzione di un’unione civile tra persone dello stesso sesso. Quando la legge penale considera la qualità di coniuge come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un reato essa si intende riferita anche alla parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso'.
Non diversamente, si è intervenuti sull’art. 649 c.p., comma 1, ampliando l’ambito applicativo della causa di esclusione della punibilità prevista dal comma 1, che viene estesa a favore di chi commette un delitto contro il patrimonio ai danni della parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso.
6. È stato acutamente notato come l’effetto della riforma sul piano delle norme penali sia stato duplice: 'da un lato, attrarre le unioni civili nello statuto penale della tradizionale famiglia legittima eterosessuale; dall’altro lato, non intervenire sulle coppie di fatto, rispetto alle quali rimane fermo lo stato della discussione antecedente alla riforma'; prescindendo dai casi nei quali il legislatore vi ha dato espressa rilevanza come, ad esempio, nell’ipotesi del reato di maltrattamenti, sono infatti minime nella Legge Cirinnà le novità che interessano il ramo penalistico dell’ordinamento relativamente alle convivenze di fatto.
L’unica espressa disposizione in qualche modo relativa al diritto penale (inteso in senso lato) è contenuta nell’art. 1, comma 38, ai sensi del quale 'i conviventi di fatto hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario'.
Il riferimento è alla L. 26 luglio 1975, n. 354 e al relativo regolamento di esecuzione; si tratta di un’affermazione certamente importante, che però non è sostanzialmente innovativa, atteso che, si è correttamente osservato, l’ordinamento penitenziario parifica già parificava a diversi effetti i diritti del convivente a quelli del coniuge.
7. Ciò che tuttavia non pare essere stato compiuto con la L. n. 76 del 2016 è il coordinamento del diritto penale con le convivenze di fatto; ci si riferisce a quelle preesistenti situazioni di disparità di trattamento, che sono state verosimilmente acuite proprio a seguito dell’introduzione delle unioni civili. In tal senso, sono significativi casi della scusante di cui all’art. 384 c.p. e della causa di non punibilità di cui all’art. 649 c.p. che sono ora configurabili per le parti delle unioni civili, ma continuano a non essere formalmente riferibili ai fatti commessi dai conviventi 'more uxorio'.
L’applicazione della L. n. 76 del 2016 nel settore penalistico, si è osservato, incontra obiettive difficoltà che derivano dalla contrapposizione, o dalla divergenza di disciplina, tra coppie 'unite civilmente' e 'conviventi di fatto'.
Si è segnalata una rilevante frattura tra la regolamentazione delle 'unioni civili' rispetto alla disciplina delle 'convivenze di fatto', dal momento che la legge distingue, sul piano qualitativo, i due legami, applicando solo alle parti di un’unione civile una serie di disposizioni analoghe a quelle previste nel codice civile per la disciplina del matrimonio (art. 143).
8. È stato correttamente osservato come, all’interno del quadro teorico e normativo sopra delineato, ci siano due condizioni di 'convivenza di fatto': l’una di fatto 'in senso stretto', in cui manca un atto formale per qualificarlo giuridicamente, la quale si configura come un’ipotesi di relazione di coppia (non matrimoniale), di costruzione dottrinaria e giurisprudenziale; l’altra, quella disciplinata dalla nuova legge che ha, dunque, un riconoscimento ufficiale da parte dell’ordinamento (così testualmente in dottrina).
È diffusa tuttavia l’opinione secondo cui, al di là di tali distinzioni, l’espressione 'convivenza di fatto' debba essere intesa, agli effetti penali, nel significato più ampio, corrispondente a quello che tradizionalmente assume il concetto di 'convivenza more uxorio': una situazione 'fattuale' omogenea a quella consacrata da vincolo matrimoniale; una situazione caratterizzata da una comunione materiale e spirituale paragonabile a quella prevista per il rapporto coniugale, con esclusione dell’'unione civile'.
Ciò che resta sullo sfondo attiene al se, davvero, con la legge c.d. Cirinnà il processo di tendenziale parificazione del convivente al coniuge, cui anche la Corte Costituzionale ha mostrato di non essere 'indifferente', abbia subito un arresto o addirittura un’inversione, ove si consideri il fermento legislativo, giurisprudenziale e dottrinario che negli ultimi anni ha invece interessato, in ambito penale (ma non solo), proprio le convivenze 'di fatto' non definite, nè regolate, sul piano normativo.
In tal senso è condivisibile l’opinione dottrinaria secondo cui la novità legislativa non può costituire un insormontabile impedimento per estendere a ogni altra forma di convivenza la disciplina che si ricava, in tema di equivalenza della figura del convivente a quella del coniuge, dal complesso quadro storico-evolutivo della materia.
Ci si riferisce al quadro ed ai principi cui la giurisprudenza di legittimità e costituzionale erano già pervenuti, prima della legge c.d. Cirinnà, in relazione a casi specifici e a singole norme.
Si può fare riferimento, quanto alla giurisprudenza di legittimità a Sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015, Agostino, Rv. 246630 che dopo un’attenta analisi, ha esteso, in un caso del tutto sovrapponibile a quello in esame, al convivente 'more uxorio' la causa di non punibilità di cui all’art. 384 c.p., comma 1, di chi commette taluni reati contro l’amministrazione della giustizia per salvare il 'prossimo congiunto' dal pericolo per la libertà e l’onore; non diversamente (in senso non difforme, Sez.4, n. 22398 del 22/01/2004, Esposito, Rv. 229676; nello stesso senso, sul piano sistematico, Sez. 4, n. 32190 del 21/05/2009, Rv. 244682 che ha riconosciuto l’operatività della causa di esclusione della punibilità prevista dall’art. 649 c.p.p. anche in favore del convivente more uxorio). Si può fare riferimento, quanto alla giurisprudenza costituzionale, a Corte Cost., n. 416 del 1996 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 384 c.p., comma 2, nella parte in cui non prevede che la violazione dell’obbligo di informazione previsto dall’art. 199 c.p.p., comma 2 comporta l’esclusione della punibilità per false o reticenti informazioni assunte dalla polizia giudiziaria fornite da chi avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal renderle a norma dello stesso art. 199 c.p.p., dunque anche dal convivente more uxorio per i fatti verificatisi o appresi durante la convivenza.
Anche dopo la legge Cirinnà e il decreto di attuazione in materia penale, la questione della rilevanza penalistica della convivenza 'more uxorio' resta immutata e, per certi versi, più stringente, in quanto l’assimilazione al coniuge della sola parte dell’unione civile può condurre a decidere in maniera radicalmente diversa forme di convivenza, certamente diverse sul piano formale da quelle espressamente regolamentate, ma sostanzialmente analoghe.
9. Più stringente è dunque l’esigenza, segnalata - come detto- dalla Corte Costituzionale, di considerare nella materia in esame se la giustificazione originaria della disciplina derogatoria prevista dalle varie norme e fondata sul dato formale del vincolo matrimoniale, continui a giustificare la difformità di trattamento tra consociati - tutti responsabili di un medesimo fatto obiettivo- e, soprattutto, se essa conservi la propria valenza alla luce di un cospicuo mutamento della situazione di fatto e del relativo complesso di norme regolatrici, di cui si è detto.
Il tema è di obiettivo rilievo soprattutto per quanto riguarda le disposizioni penali che producono effetti 'in bonam partem' (attenuanti, scusanti, cause di non punibilità); la questione della parificazione giuridica di un consolidato rapporto di fatto - che deve essere provato in maniera rigorosa- a quello di coniugio potrebbe essere risolta con una previsione di carattere generale, cioè con regole (necessariamente) comuni alle 'unioni civili' e alle 'convivenze di fatto, e alle coppie di fatto libere (cioè di fatto, per dir così, 'in senso stretto'), ma è indubbio, come si è detto, che già prima della L. n. 76 del 2016, il legislatore, con riguardo a situazioni di convivenza non occasionali costituite dai partners senza alcuna formalità, dunque giuridicamente non regolamentate, e la stessa giurisprudenza, ordinaria e costituzionale, abbiano equiparato, ai fini penali, e con effetti 'in bonam partem', il convivente al coniuge.
Una diversa impostazione, fondata sul dato formale, obiettivamente significativo, ma, tuttavia, non conformata con il sistema normativo di riferimento - quanto meno con riguardo agli istituti per i quali si era già pervenuti, non senza incertezze, ad una equiparazione tra situazioni di convivenza stabile di fatto e matrimonio - porta con sé il rischio di implicare - quanto meno con riguardo agli effetti 'in bonam partem' profili di incerta compatibilità costituzionale (con riferimento all’art. 3 Cost.), in punto di diversificazione delle tutele offerte alla parte dell’unione civile rispetto al convivente di fatto.
Si tratta di rapporti rispetto ai quali è possibile tendere, quanto agli effetti di favore derivanti dalla parificazione del convivente al coniuge, ad una parità di trattamento sul terreno penale; se si cerca una coerenza complessiva del sistema e si respinge l’esclusione dei rapporti fattuali, il binomio famiglia giuridica-famiglia di fatto va ricondotto in via tendenziale ad unità sul piano penalistico, ed è la famiglia di fatto che si deve espandere (così testualmente in dottrina).
Ne discende che una interpretazione valoriale, non in contrasto con la Costituzione, consente di ritenere applicabile l’istituto di cui all’art. 384 c.p., comma 1, anche ai rapporti di convivenza 'more uxorio', pur dopo la legge c.d. Cirinnà.
10. Una tale interpretazione sembra peraltro conforme all’8 della Convenzione EDU. La giurisprudenza della Corte EDU accoglie una nozione sostanziale, onnicomprensiva di matrimonio senz’altro ricomprendente anche i rapporti di fatto, privi di formalizzazione legale, ai quali sì ritiene che l’art. 8 cit. assicuri incondizionata tutela (cfr., sentenza 13 giugno 1979, Marckx contro Belgio; nello stesso senso sentenza 13 dicembre 2007, Emonet ed altri contro Svizzera, per la quale 'La nozione di famiglia accolta dall’art. 8 CEDU non si basa necessariamente sul vincolo del matrimonio, ma anche su ulteriori legami di fatto particolarmente stretti e fondati su una stabile convivenza. La durata della convivenza e l’eventuale nascita di figli sono elementi ulteriormente valutabili'.
Alle norme della Convenzione EDU è, ormai, pacificamente riconosciuto il rango di “fonti interposte”, destinate ad integrare il parametro indicato dall’art. 117 Cost., il cui comma 1 impone al legislatore di conformare ìl prodotto normativo agli obblighi internazionali, fra i quali vanno annoverati anche quelli derivanti dalla richiamata Convenzione; tuttavia, proprio perché si tratta di norme che integrano i parametri costituzionali, ma rimangono pur sempre a livello sub-costituzionale, è necessario che esse stesse siano conformi a Costituzione, non sottraendosi, dunque, al relativo sindacato da parte del Giudice delle leggi.,
Correttamente dunque si è ritenuto che 'il contrasto tra la rilevanza, agli effetti penali, della famiglia di fatto nell’ordinamento interno e l’art. 8 Conv, EDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, (senz’altro nel segno di una tutela maggiore rispetto al livello garantito dalla Costituzione Italiana) appare di solare evidenza; e, d’altro canto, con specifico riguardo agli istituti di cui agli artt. 384 e 649 c.p., non può omettersi di considerare che le fonti internazionali aventi efficacia penale in bonam partem sono immediatamente cogenti per l’interprete, a meno che non si pongano in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, e non ne è questo il caso.
Nondimeno, ritiene il Collegio, l’evidenziato contrasto possa essere senz’altro risolto in via interpretativa, poiché il necessario adeguamento della normativa interna a quella sovranazionale (nel senso della completa equiparazione in bonam partem, ad ogni effetto penale, della famiglia pieno iure a quella di fatto) non risulta contrario al principi costituzionali fondamentali interni, e, d’altro canto, proprio il contrasto insorto nell’ambito della giurisprudenza di legittimità sul tema, impedisce di ravvisare l’esistenza di un diritto vivente assolutamente ostativo' (così testualmente Sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015, cit.).
11. Dunque una interpretazione sistematica, non in contrasto con la Costituzione e conforme alle norme della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.
Ne consegue, dovendosi applicare nel caso di specie l’art. 384 c.p., comma 1, che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché il fatto non costituisce reato.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato.