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Ingiustamente carcerato, ma i danni non sono mai presunti (Cass. 55787/17)

14 dicembre 2017, Cassazione penale

La liquidazione dell’indennizzo per ingiusta detenzione è affidata ai poteri equitativi e discrezionali dello stesso giudice penale che, tra i vari fattori, non potrà non tener conto pure dei comportamenti e delle particolari situazioni processuali in cui si è verificata la ingiusta detenzione: il silenzio serbato durante l'interrogatorio di garanzia dall’indagato, anche se non sempre rilevante al punto tale da decadere dal relativo diritto all'indennizzo, può essere tuttavia idoneo a riflettersi sulla quantificazione del diritto all’indennizzo.

Il controllo sulla congruità della somma liquidata a titolo di riparazione è sottratto al giudice di legittimità, che può soltanto verificare se il giudice di merito abbia logicamente motivato il suo convincimento e non sindacare la sufficienza o insufficienza dell’indennità liquidata, a meno che, discostandosi sensibilmente dai criteri usualmente seguiti, lo stesso giudice non abbia adottato criteri manifestamente arbitrari o immotivati ovvero abbia liquidato in modo simbolico la somma dovuta.

In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, la liquidazione del relativo indennizzo deve basarsi su una valutazione equitativa che tenga globalmente conto anche delle conseguenze personali e familiari scaturite dalla privazione della libertà le quali, tuttavia, non possono essere presunte, ma necessitano di essere provate, in quanto la sofferenza causalmente riconducibile alla separazione dal nucleo familiare costituisce conseguenza psicologica ed emotiva normale per un soggetto privato della propria libertà personale, donde la necessità, al fine di ottenere il soddisfacimento anche dei predetti pregiudizi personali e familiari, di allegare elementi giustificativi a sostegno dell’istanza.

La liquidazione dell’indennizzo per la riparazione dell’ingiusta detenzione è svincolata da parametri aritmetici o comunque da criteri rigidi, e si deve basare su una valutazione equitativa che tenga globalmente conto non solo della durata della custodia cautelare, ma anche, e non marginalmente, delle conseguenze personali e familiari scaturite dalla privazione della libertà, e ciò sia per effetto dell’applicabilità, in tale materia, della disposizione di cui all’art. 643, comma primo, cod. proc. pen., che commisura la riparazione dell’errore giudiziario alla durata dell’eventuale espiazione della pena ed alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna, sia in considerazione del valore "dinamico" che l’ordinamento costituzionale attribuisce alla libertà di ciascuno, dal quale deriva la doverosità di una valutazione equitativamente differenziata caso per caso degli effetti dell’ingiusta detenzione.

In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, ai fini della liquidazione del relativo indennizzo, il periodo durante il quale l’imputato è soggetto a misure cautelari non detentive o interdittive non può essere considerato.

L’impugnazione del capo di sentenza relativo alla liquidazione delle spese giudiziali non può essere accolta se con essa non vengono specificate le singole voci che la parte assume come alla stessa spettanti e non riconosciute, non essendo il giudice del gravame vincolato in alcun modo da eventuali determinazioni quantitative formulate dalla medesima parte impugnante in difetto della individuazione degli specifici errori che essa attribuisce al giudice come commessi nella decisione impugnata: vanno quindi specificati gli errori commessi dal giudice e precisate le voci della tabella degli onorari e dei diritti che si ritengono violate.

Corte di Cassazione

sez. III Penale, sentenza 14 novembre – 14 dicembre 2017, n. 55787
Presidente Rosi – Relatore Scarcella

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza del 4.11.2016, depositata in data 15.11.2016, la Corte d’appello di Brescia, decidendo a seguito di annullamento con rinvio disposto dalla Sez. IV di questa Corte con sentenza n. 38209/2016, in accoglimento della richiesta di riparazione per l’ingiusta detenzione presentata dal F. per custodia cautelare subita dal medesimo nel proc. 155/12 r.f.n.r., liquidava al medesimo la somma di Euro 6.300,00, condannando il Ministero dell’Economia e delle Finanze in persona del Ministro pro-tempore al pagamento della predetta somma, nonché al pagamento delle spese del procedimento.
2. Giova precisare, per migliore intelligibilità dell’impugnazione proposta in questa sede, che la Corte d’appello di Brescia, con l’ordinanza oggetto del precedente annullamento da parte di questa Corte, aveva respinto la domanda di riparazione per ingiusta detenzione, patita in carcere dal F. nel periodo dal 30 gennaio al 10 marzo 2012 in riferimento al predetto procedimento penale, relativo al delitto di concorso in furto di bestiame, definito con sentenza di assoluzione con la formula "il fatto non costituisce reato" del Tribunale di Crema del 3.05.2013, irrevocabile il 19.07.2013. La Sez. IV di questa Corte, con la sentenza emessa il 7 luglio 2016, riteneva fondati i rilievi della difesa proposti nel primo ricorso per cassazione, avendo rilevato il ricorrente come la Corte d’appello avesse sostanzialmente travisato i risultati dell’acquisizione probatoria di merito ritenendoli sintomatici di una condotta gravemente colposa ostativa al riconoscimento della richiesta riparazione, in quanto comprovanti la consapevolezza del F. di avere agito in una situazione all’apparenza sospetta di illegalità. Perveniva, pertanto, all’annullamento con rinvio per vizio di motivazione dell’ordinanza.
3. Contro l’ordinanza emessa ex art. 627 c.p.p. dalla Corte d’appello di Brescia in data 4.11.2016, ha proposto ricorso per cassazione il F. , a mezzo del difensore di fiducia iscritto all’albo ex art. 613 c.p.p., prospettando tre motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen..
3.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b) ed e), c.p.p., per violazione di legge in relazione all’art. 643, cod. proc. pen., nella parte in cui l’ordinanza dispone che la riparazione dell’errore giudiziario deve essere commisurata anche alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna, e correlato vizio di mancanza della motivazione in relazione alle conseguenze personali e familiari dedotte dal ricorrente.

In sintesi, sostiene la difesa del ricorrente che erroneamente il giudice della riparazione avrebbe liquidato la somma di 150 Euro al giorno per i soli giorni di custodia cautelare in carcere, somma di gran lunga inferiore a quella indicata in Euro 235, conseguente al criterio aritmetico individuato in giurisprudenza al fine di sottrarre la determinazione dell’indennizzo ad un’eccessiva discrezionalità; è ben vero che tale criterio può essere oggetto di aggiustamenti, anche in diminuzione, in ragione dell’applicazione del criterio equitativo, ma tale criterio deve tener conto anche delle conseguenze personali e familiari scaturite dalla privazione della libertà, richiedendosi al giudice della riparazione l’applicazione di massime di esperienza da cui possano desumersi le gravi ripercussioni sulle condizioni di salute e di relazione derivanti dall’ingiusta detenzione; la Corte bresciana nulla invece avrebbe detto nell’ordinanza in merito a tali conseguenze, nonostante l’istante avesse lamentato nel proprio ricorso, le gravi sofferenze morali in ragione dell’importante distanza del luogo di detenzione, Cremona, rispetto a quello di residenza, prov. Napoli, della propria famiglia, ciò che gli impediva di ricevere frequenti visite che ne alleviassero la sofferenza per una detenzione ingiustamente patita; contrastante con la realtà dei fatti sarebbe poi l’affermazione contenuta nell’ordinanza impugnata secondo cui nel caso di specie non sarebbero stati provati danni diversi da quelli da porsi in relazione causale con la sofferta carcerazione, ciò perché era stato allegato lo stato di famiglia da cui emergeva come questi fosse coniugato con tre figli di cui minorenni, donde si ritiene che il conseguente stato di frustrazione ed umiliazione non dovesse essere provato in quanto conseguenza psicologica ed emotiva normale per un soggetto privato della propria libertà personale in quelle condizioni; non essendovi alcun riferimento nell’ordinanza a tale aspetto, se ne denuncia quindi il vizio di omessa motivazione; si duole, ancora, il ricorrente per non essere state prese in considerazione misure diverse dalla custodia cautelare, laddove, invece, si sostiene, i giudici della riparazione, avrebbero dovuto considerare il periodo di 136 giorni in cui questi era stato sottoposto alle misure non custodiali dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria ed all’obbligo di dimora, periodo che avrebbe dovuto essere considerato tra le conseguenze afflit-tive "indirette" dell’ingiusta detenzione subita.

3.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. e), c.p.p., sotto il profilo della illogicità e manifesta contraddittorietà della motivazione dell’ordinanza.

In sintesi, sostiene la difesa del ricorrente che il giudice della riparazione avrebbe determinato la somma nella misura di 150 Euro al giorno in ragione del bilanciamento di tre fattori, costituiti, anzitutto, dalla colpa lieve imputabile per non aver offerto alcun contributo nella fase dell’interrogatorio di garanzia per chiarire quella situazione che appariva agli occhi dei non addetti ai lavori significativa del pieno coinvolgimento di tutti i soggetti presenti nella stalla in un’operazione furtiva; il secondo fattore per cui l’equa riparazione avendo natura indennitaria non può riferirsi a misure diverse da quelle custodiali e non deve essere rapportata all’entità di eventuali danni derivanti dalla stessa misura; il terzo fattore, costituito dal fatto che si era trattato della prima esperienza carceraria; si osserva come, sebbene l’operazione logica possa apparire scevra da vizi, il richiamato bilanciamento non risponderebbe a realtà ed equità, essendo sorretto da presupposti illegittimi e manifestamente contraddittori; segnatamente, le censure si appuntano, oltre che sul secondo fattore indicato per le ragioni già esposte nel primo motivo, anche sul primo fattore, in quanto la Corte d’appello non avrebbe rispetto quanto disposto con la sentenza di annullamento della Corte di legittimità, riducendo sensibilmente l’importo dovuto in forza di quegli stessi comportamenti che la sentenza della S.C. aveva negato che potessero fondare un provvedimento di rigetto dell’istanza di riparazione; l’argomento utilizzato sarebbe quindi palesemente contraddittorio, avendo il giudice della riparazione negato l’efficacia nell’ottica riparatoria al silenzio serbato dal ricorrente nell’interrogatorio di garanzia, finendo invece poi per valorizzare la stessa condotta quale espressione comunque di una colpa lieve in capo al ricorrente, tale da giustificare la rilevante decurtazione della somma indicata; peraltro, si aggiunge, la Corte d’appello non avrebbe specificato nell’ordinanza impugnata quali circostanze, ignote agli inquirenti ed utili ad attribuire un diverso significato agli elementi posti a fondamento del proprio provvedimento cautelare, il F. avrebbe colposamente taciuto.

3.3. Deduce, con il terzo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b), c.p.p., per violazione del D.M. n. 55/2014, per la liquidazione dei compensi per la professione forense ai sensi dell’art. 13, co. 6, legge n. 247 del 2012.
In sintesi, sostiene la difesa del ricorrente che l’ordinanza sarebbe viziata per non aver liquidato la Corte d’appello le spese processuali alla luce ed in conformità dei parametri stabiliti per legge ed indicati nel predetto D.M. condannando il Ministero soccombente per la prima fase svoltasi davanti alla Corte d’appello in 1200,00 Euro, per quella svoltasi davanti alla S.C. in 2500,00 Euro e per il giudizio di rinvio in 626,00 Euro, per complessivi 4325,00 Euro, oltre accessori di legge, IVA e CPA. Le somme sarebbero di gran lunga inferiori ai valori minimi stabiliti dal predetto DM; parametrato sulla base dell’indennizzo riconosciuto, e non quindi al valore parametrato alla domanda di indennizzo come proposta o all’indennizzo che in via definitiva verrà riconosciuto all’esito del presente giudizio.

4. Con requisitoria scritta depositata presso la cancelleria di questa Corte in data 16.05.2017, il P.G. presso la S.C. ha chiesto rigettarsi il ricorso; in particolare, osserva il P.G., la Corte territoriale avrebbe liquidato correttamente al ricorrente la somma di 6.300,00 Euro a tutolo di indennizzo argomentando sia in ordine ad una condotta colposa comunque intervenuta (contatti ripetuti con i soggetti poi risultati responsabili del furto; mancato chiarimento agli inquirenti della propria posizione; silenzio serbato in sede di interrogatorio), sia in ordine all’omessa prova dedotta circa ulteriori danni subiti dal ricorrente a causa dello stato detentivo, richiama, infine, la giurisprudenza di questa Corte secondo cui in tema di ingiusta detenzione, il controllo sulla congruità della somma liquidata a titolo di riparazione è sottratto al giudice di legittimità, che può soltanto verificare se il giudice di merito abbia logicamente motivato il suo convincimento e non sindacare la sufficienza o insufficienza dell’indennità liquidata, a meno che, discostandosi sensibilmente dai criteri usualmente seguiti, lo stesso giudice non abbia adottato criteri manifestamente arbitrari o immotivati ovvero abbia liquidato in modo simbolico la somma dovuta (Sez. 4, n. 24225 del 04/03/2015 - dep. 05/06/2015, Pappalardi, Rv. 263721).

Considerato in diritto

5. Il ricorso è infondato.

6. Al fine di esaminare la logicità del procedimento argomentativo con cui la Corte territoriale ha proceduto al riconoscimento del diritto all’indennizzo ed alla liquidazione del quantum al ricorrente, deve prendersi le mosse dalla motivazione dell’impugnata ordinanza.

I giudici della riparazione, decidendo in sede di rinvio a seguito dell’annullamento disposto da questa Corte, hanno in sintesi, affermato:

  • a) che la richiesta dovesse trovare accoglimento limitatamente alla custodia cautelare patita di giorni 42;
  • b) che quelle circostanza che avevano, a seguito dell’espletata istruzione dibattimentale, perso la propria pregnanza sfavorevole agli allora imputati, avendo tutte trovato adeguate giustificazioni e spiegazioni, non consentivano sotto un profilo logico di valorizzare i medesimi dati ai fini della riparazione per l’ingiusta detenzione;
  • c) che occorreva tuttavia valutare le ragioni per cui il F. in sede di interrogatorio di garanzia si fosse avvalso della facoltà di non rispondere;
  • d) che, a giudizio della Corte d’appello, tale scelta appariva connotata di un non trascurabile coefficiente di colpa, da porsi in connessione causale con la patita detenzione, e tuttavia non di grado talmente elevato da poter essere qualificato in termine di gravità;
  • e) che, sul punto, se appariva individuabile un colpa in capo al ricorrente per non aver offerto alcun contributo nella fase dell’interrogatorio di garanzia onde chiarire quella situazione che appariva agli occhi dei non addetti ai lavori significativa del pieno coinvolgimento di tutti i soggetti presenti nella stalla in un’operazione furtiva, dall’altro detta valutazione "colposa" appariva mitigata dal fatto che nell’immediatezza del fatto questi aveva rappresentato ai carabinieri di trovarsi sul posto per incarico dell’acquirente del bestiame e aveva fatto intervenire altri soggetti in grado di fornire spiegazione sui termini dell’operazione, ossia l’acquirente ed il mediatore;
  • f) che, con particolare riferimento all’entità della liquidazione, doveva tenersi conto del grado, sebbene non gravemente colposo, della condotta in questione;
  • g) che attesa la natura indennitaria dell’equa riparazione non avente finalità solidaristiche, non potevano essere prese in considerazione misure diverse da quelle detentive;
  • h) che, ancora, la somma doveva essere liquidata in via equitativa e non rapportata all’entità di eventuali danni derivati dalla misura stessa, non essendo stati provati in ogni caso danni diversi da porsi in relazione causale stretta con la sofferta carcerazione;
  • i) che, pertanto, trattandosi della prima esperienza carceraria, la somma ritenuta conforme ad equità è stata individuata in Euro 150 per ogni giorni di detenzione ingiusta;
  • l) infine, quanto alle spese processuali, la Corte territoriale ha proceduto alla liquidazione nei termini indicati in ricorso.

7. È, dunque, alla luce del predetto apparato argomentativo che devono essere valutate le singole censure proposte.

8. Muovendo dal primo profilo di doglianza, il ricorrente sostanzialmente si duole dell’applicazione del criterio equitativo, per non aver tenuto conto la Corte d’appello anche delle conseguenze personali e familiari scaturite dalla privazione della libertà, nonostante l’istante avesse lamentato nel proprio ricorso, le gravi sofferenze morali in ragione dell’importante distanza del luogo di detenzione, Cremona, rispetto a quello di residenza, prov. Napoli, della propria famiglia.

Nel caso di specie, si sostiene, sarebbero stati provati danni diversi da quelli da porsi in relazione causale con la sofferta carcerazione, in quanto, si afferma, era stato allegato lo stato di famiglia da cui emergeva come questi fosse coniugato con tre figli, di cui due minorenni, asserendosi che il conseguente stato di frustrazione ed umiliazione non dovesse essere provato in quanto conseguenza psicologica ed emotiva normale per un soggetto privato della propria libertà personale in quelle condizioni.

Orbene, sul punto è pacifico, sin dall’arresto giurisprudenziale a Sezioni Unite (Sez. U, n. 1 del 13/01/1995 - dep. 31/05/1995, Ministero Tesoro in proc. Castellani, Rv. 201035) che la liquidazione dell’indennizzo per la riparazione dell’ingiusta detenzione è svincolata da parametri aritmetici o comunque da criteri rigidi, e si deve basare su una valutazione equitativa che tenga globalmente conto non solo della durata della custodia cautelare, ma anche, e non marginalmente, delle conseguenze personali e familiari scaturite dalla privazione della libertà, e ciò sia per effetto dell’applicabilità, in tale materia, della disposizione di cui all’art. 643, comma primo, cod. proc. pen., che commisura la riparazione dell’errore giudiziario alla durata dell’eventuale espiazione della pena ed alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna, sia in considerazione del valore "dinamico" che l’ordinamento costituzionale attribuisce alla libertà di ciascuno, dal quale deriva la doverosità di una valutazione equitativamente differenziata caso per caso degli effetti dell’ingiusta detenzione.

Tanto premesso, deve ritenersi che l’ordinanza emessa dal giudice della riparazione non presti il fianco alle censure difensive laddove ha ritenuto non provati in ogni caso danni diversi da porsi in relazione causale stretta con la sofferta carcerazione, segnatamente per non aver tenuto in considerazione le sofferenze morali e psicologiche derivanti dalla detenzione ed anche le conseguenze che la detenzione stessa avrebbe cagionato ai congiunti conviventi con il detenuto, essendo invero stata semplicemente documentata, mediante la produzione del proprio stato di famiglia, l’esistenza di un nucleo familiare, composta da moglie e tre figli di cui due minorenni all’epoca della detenzione.

Trova, sul punto, applicazione il principio secondo cui la ingiusta detenzione non è in alcun modo equiparabile al fatto illecito di natura civilistica dal quale derivi un immediato diritto al risarcimento del danno. Il diritto alla riparazione, previsto dall’art. 314 cod. proc. pen., sorge all’atto delle definitività della sentenza di proscioglimento ed ha come presupposto un atto legittimo di carattere autoritativo costituito dal provvedimento che dispone la misura coercitiva. Ne consegue che per determinare l’entità della riparazione non può farsi luogo ai criteri fissati per i danni da fatto illecito, ma è necessario ricorrere al criterio equitativo richiamato dall’art. 314 con il riferimento all’equo indennizzo. Il giudice è pertanto tenuto a quantificare l’indennizzo per la detenzione ingiusta utilizzando i criteri direttivi dettati dall’art. 643, comma primo, cod. proc. pen. costituiti dalla entità della pena patita, dalle sofferenze morali e psicologiche derivanti dalla detenzione ed anche dalle conseguenze che la detenzione stessa abbia cagionato ai congiunti conviventi con il detenuto (Sez. 6, n. 1167 del 08/04/1992 - dep. 14/10/1992, Min. Tesoro in proc. Fabbro, Rv. 192827).

La circostanza di non aver la Corte d’appello tenuto conto di tali conseguenze personali e familiari, oltre a non determinare la dedotta violazione di legge, non integra nemmeno il denunciato vizio motivazionale, in quanto non è sufficiente, ai fini della liquidazione del "surplus" costituito dalle conseguenze personali e familiari, la mera allegazione dell’esistenza del nucleo familiare, essendo invece necessario fornire la prova della esistenza dei pregiudizi "familiari e personali" derivanti dal periodo di privazione della libertà personale. Questi ultimi, infatti, non possono essere presunti, atteso che la sofferenza causalmente riconducibile alla separazione dal nucleo familiare (ed il conseguente stato di frustrazione ed umiliazione) costituisce conseguenza psicologica ed emotiva normale per un soggetto privato della propria libertà personale in quelle condizioni, donde la necessità, al fine di ottenere il soddisfacimento anche dei predetti pregiudizi "personali e familiari", di allegare elementi giustificativi a sostegno dell’istanza.

9. Deve, pertanto, essere affermato il seguente principio di diritto:
"In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, la liquidazione del relativo indennizzo deve basarsi su una valutazione equitativa che tenga globalmente conto anche delle conseguenze personali e familiari scaturite dalla privazione della libertà le quali, tuttavia, non possono essere presunte, ma necessitano di essere provate, in quanto la sofferenza causalmente riconducibile alla separazione dal nucleo familiare costituisce conseguenza psicologica ed emotiva normale per un soggetto privato della propria libertà personale, donde la necessità, al fine di ottenere il soddisfacimento anche dei predetti pregiudizi personali e familiari, di allegare elementi giustificativi a sostegno dell’istanza".

10. Altrettanto deve ritenersi quanto all’ulteriore profilo di doglianza esposto con il primo motivo, ossia per non essere state prese in considerazione misure diverse dalla custodia cautelare, laddove, invece, i giudici della riparazione, avrebbero dovuto considerare il periodo di 136 giorni in cui questi era stato sottoposto alle misure non custodiali dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria ed all’obbligo di dimora, periodo che avrebbe dovuto essere considerato tra le conseguenze afflittive "indirette" dell’ingiusta detenzione subita.

Ed invero, correttamente i giudici della riparazione in sede di rinvio, attesa la natura indennitaria dell’equa riparazione non avente finalità solidaristiche, non hanno preso in considerazione misure diverse da quelle detentive, dunque non considerando il periodo in cui questi era stato sottoposto a misure cautelari non detentive, periodo che non può essere considerato tra le conseguenze afflittive "indirette" dell’ingiusta detenzione subita.

Ciò, del resto, si desume dalla pacifica giurisprudenza di questa Corte, che, pronunciandosi sulla questione della sussistenza dell’interesse al ricorso per cassazione del soggetto in stato custodiale, afferma con orientamento ormai consolidato che l’interesse a coltivare il gravame avverso l’ordinanza di applicazione della misura cautelare anche quando essa sia stata revocata nel corso del procedimento "de libertate" persiste - con riferimento alla necessità del sottoposto alla misura di precostituirsi una decisione irrevocabile circa la legittimità del provvedimento ai fini della eventuale domanda di riparazione per l’ingiusta detenzione - soltanto nel caso in cui si tratti di misura di custodia cautelare, non anche quando si tratti di altre misure coercitive o interdittive, non idonee a fondare il diritto alla riparazione (Sez. 4, n. 12590 del 12/01/2005 - dep. 05/04/2005, Fraietta, Rv. 232269).

È quindi evidente che, se per la giurisprudenza di legittimità, quando si tratta di altre misure coercitive o interdittive diverse dalla custodia detentiva, le stesse non sono tout court idonee a fondare il diritto alla riparazione, a maggior ragione il periodo durante il quale l’imputato vi è soggetto non può essere considerato tra le conseguenze afflittive "indirette" dell’ingiusta detenzione subita valutabile ai fini della liquidazione dell’indennizzo, venendo a mancare ab origine il presupposto giuridico per l’esistenza stessa del diritto alla riparazione.

11. Deve, pertanto, essere affermato il seguente principio di diritto:
"In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, ai fini della liquidazione del relativo indennizzo, il periodo durante il quale l’imputato è soggetto a misure cautelari non detentive o interdittive non può essere considerato tra le conseguenze afflittive "indirette" dell’ingiusta detenzione precedentemente subita, venendo a mancare ab origine il presupposto giuridico per l’esistenza stessa del diritto alla riparazione".

12. Infondata, poi, è la censura mossa con il secondo motivo, con cui il ricorrente sostiene che la ordinanza sarebbe affetta da un vizio motivazionale di illogicità e manifesta contraddittorietà. In sostanza, l’argomento utilizzato dalla Corte d’appello sarebbe palesemente contraddittorio, per aver il giudice della riparazione negato l’efficacia nell’ottica riparatoria al silenzio serbato dal ricorrente nell’interrogatorio di garanzia, finendo invece poi per valorizzare la stessa condotta quale espressione comunque di una colpa lieve in capo al ricorrente, tale da giustificare la rilevante decurtazione della somma indicata e, comunque, la Corte d’appello non avrebbe specificato nell’ordinanza impugnata quali circostanze, ignote agli inquirenti ed utili ad attribuire un diverso significato agli elementi posti a fondamento del proprio provvedimento cautelare, il F. avrebbe colposamente taciuto. La censura non ha pregio.
Ed infatti, come si è avuto modo di evidenziare supra nell’illustrare il percorso logico - argomentativo con cui la Corte d’appello giunge alla determinazione del quantum indennizzabile, i giudici della riparazione hanno osservato che se appariva individuabile un colpa in capo al ricorrente per non aver offerto alcun contributo nella fase dell’interrogatorio di garanzia/onde chiarire quella situazione che appariva agli occhi dei non addetti ai lavori significativa del pieno coinvolgimento di tutti i soggetti presenti nella stalla in un’operazione furtiva, dall’altro detta valutazione "colposa" appariva mitigata dal fatto che nell’immediatezza del fatto questi aveva rappresentato ai carabinieri di trovarsi sul posto per incarico dell’acquirente del bestiame e aveva fatto intervenire altri soggetti in grado di fornire spiegazione sui termini dell’operazione, ossia l’acquirente ed il mediatore. Da qui, dunque, con particolare riferimento all’entità della liquidazione, la necessità di doversi tener conto del grado, sebbene non gravemente colposo, della condotta in questione.

Ritiene il Collegio come nessuna contraddittorietà, né manifesta illogicità siano ravvisabili in tale percorso logico - argomentativo, atteso che il giudice della riparazione è legittimato a valutare lo stesso elemento, nella specie il silenzio nella fase dell’interrogatorio di garanzia, attribuendogli una separata rilevanza, ossia escludendo che lo stesso possa rivestire rilevanza quale condotta ex se ostativa al diritto alla riparazione ma, nel contempo, valutandolo come elemento incidente sull’ammontare del quantum dovuto a titolo di indennizzo.

Questa stessa Corte ha, del resto, chiarito che poiché la fonte genetica del diritto alla riparazione di cui agli artt. 314 e 315 cod. proc. pen. va ravvisato nella "ingiusta detenzione", la genesi e la regolamentazione di detto istituto deve essere individuato nelle norme processuali penali.

Con la conseguenza che sono estranee, all’istituto in esame, le norme civilistiche che regolamentano il risarcimento dei danni da fatto illecito (art. 2043 cod. civ.).

Infatti, la liquidazione dell’indennizzo, è affidata ai poteri equitativi e discrezionali dello stesso giudice penale che, tra i vari fattori, non potrà non tener conto pure dei comportamenti e delle particolari situazioni processuali in cui si è verificata la ingiusta detenzione (Sez. 6, n. 1755 del 09/05/1991 - dep. 01/06/1991, P.M. e p.c. in proc. Mangiò, Rv. 190148).

Comportamenti e particolari situazioni processuali tra cui indubbiamente vi rientra anche il silenzio serbato in quel contesto dall’indagato e rilevante ex se come comportamento che, colposo sebbene così non gravemente al punto tale da ostare al diritto alla riparazione, è tuttavia idoneo a riflettersi sulla quantificazione del diritto all’indennizzo.

13. Resta, infine, da esaminare il terzo ed ultimo motivo di ricorso, con cui si censura la liquidazione delle spese processuali in favore del ricorrente al di sotto dei valori minimi di cui al D.M. n. 55/2014.
Il motivo è infondato.

Ed infatti, è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte, che il rapporto processuale relativo alla riparazione per l’ingiusta detenzione ha natura civile, anche se inserito in una procedura che si svolge dinanzi al giudice penale, trattandosi di controversia concernente il regolamento di interessi patrimoniali (attribuzione di una somma di danaro) tra il privato, titolare del diritto alla riparazione, e lo Stato.

Conseguentemente il carico delle spese va regolato secondo il principio della soccombenza di cui all’art. 91 cod. proc. civ. (Sez. U, n. 8 del 12/03/1999 - dep. 10/06/1999, Min.Tesoro in proc.Sciamanna, Rv. 213509).

L’applicabilità dell’art. 91 c.p.c., comporta, pertanto, l’obbligo per il giudice della riparazione, con la ordinanza che chiude il giudizio davanti a lui, di condannare la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte, e di liquidarne l’ammontare insieme con gli onorari di difesa. Ne consegue che il sindacato di legittimità è da intendersi limitato alla sola violazione del principio per cui le spese non possono essere poste interamente a carico della parte vittoriosa (v., tra le tante: Sez. 3, n. 19986 del 05/04/2007 - dep. 23/05/2007, Caponnetto, Rv. 236704). Ove, come nel caso di specie, sia invece sollevata una censura che non incide sul predetto principio (atteso che, all’evidenza, la Corte d’appello ha invece condannato alle spese la parte soccombente, il Ministero dell’economia e delle finanze), ma indice sul quantum della liquidazione, soccorre, quale criterio di giudizio applicabile in sede di legittimità quello, già affermato da questa Corte in sede civile, secondo cui l’impugnazione del capo di sentenza relativo alla liquidazione delle spese giudiziali non può essere accolta se con essa non vengono specificate le singole voci che la parte assume come alla stessa spettanti e non riconosciute, non essendo il giudice del gravame vincolato in alcun modo da eventuali determinazioni quantitative formulate dalla medesima parte impugnante in difetto della individuazione degli specifici errori che essa attribuisce al giudice come commessi nella decisione impugnata (v., sul punto: Sez. 3, n. 22287 del 21/10/2009, Rv. 609823 - 01).
Nel caso qui esaminato, il ricorrente si è limitato a dolersi della liquidazione delle spese processuali da parte del giudice della riparazione, lamentandosi genericamente del fatto che le somme sarebbero di gran lunga inferiori ai valori minimi stabiliti dal predetto D.M., senza tuttavia specificare gli errori commessi dal giudice e precisare le voci della tabella degli onorari e dei diritti che si ritengono violate.
14. Alla stregua delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere, dunque, rigettato. Segue ex art. 616 cod. proc. pen. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.