Home
Lo studio
Risorse
Contatti
Lo studio

Decisioni

Lavoratore gioca a solitario: licenziamento legittimo (Cass. 13266/18)

28 giugno 2018, Cassazione civile

Il  potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro trova un limite nel rispetto della persona, della dignità e della riservatezza del lavoratore: la vigilanza sul lavoro, ancorché necessaria nell’organizzazione produttiva, non deve risolversi in un esasperato uso di tecnologie che possano renderla continua e anelastica, eliminando ogni zona di riservatezza e di autonomia nello svolgimento del lavoro.

L’uso degli strumenti di controllo deve individuarsi un giusto equilibrio fra i contrapposti diritti sulla base dei principi della “ragionevolezza” e della “proporzionalità”.

Solo peraltro, su valutazione caso per caso, i controlli cd. difensivi, ossia diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori, anche quando tali comportamenti riguardino l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non la tutela dei beni estranei al rapporto stesso: sono quindi legittime le verifiche dirette ad accertare comportamenti del prestatore illeciti e lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale, tanto più se si tratti di controlli posti in essere ex post, ovvero dopo l’attuazione del comportamento addebitato al dipendente, quando siano emersi elementi di fatto tali da raccomandare l’avvio di un’indagine retrospettiva, così da prescindere dalla pura e semplice sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa degli addetti, invece diretta ad accertare la perpetrazione di eventuali comportamenti illeciti (poi effettivamente riscontrati) dagli stessi posti in essere.

 

 

CORTE DI CASSAZIONE

sez. lavoro 

Ordinanza 28 maggio 2018, n. 13266
di protezione di interessi e beni aziendali

Rilevato

che in sede di giudizio di rinvio dalia Corte di Cassazione, che con sentenza n. 25069/2016 aveva annullato la sentenza della Corte d’appello di Roma del 9 agosto 2010 (di accertamento della nullità, per genericità della contestazione in data 23 novembre 2007, del licenziamento per giustificato motivo soggettivo intimato il 6 dicembre 2007 da .. s.r.l. al dipendente F.C., in riforma della sentenza del primo giudice, che ne aveva al contrario ritenuta la legittimità e così respinto le domande del lavoratore), con sentenza 26 maggio 2016 la medesima Corte capitolina, in diversa composizione, aveva rigettato le domande dello stesso;

che avverso tale sentenza il lavoratore ricorreva per cassazione con sette motivi, cui resisteva la società con controricorso;

che entrambe le parti comunicavano memoria ai sensi dell’art. 380 bis 1 c.p.c.;

Considerato

che il ricorrente deduce violazione degli artt. 4 I. 300/1970 (nel testo applicabile ratione temporis), 1175, 1375 c.c., per esclusione del carattere illecito della condotta del lavoratore e conseguente illegittimità dei controlli effettuati dalla società datrice utilizzando una password universale esigente il previo accordo sindacale o l’autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro, non documentati, nell’inidoneità dell’autorizzazione del lavoratore medesimo, neppure spontaneamente rilasciata, a legittimare il sistema di controllo adottato (primo motivo); violazione degli artt. 7 I. 300/1970, 1175, 1375, 2697 c.c., per tardività della contestazione relativa a condotta illecita asseritamente tenuta dal lavoratore durante tutto l’anno precedente (secondo motivo); violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione agli artt. 4 I. 300/1970, 5 I. 604/1966, 420 c.p.c., 2712 c.c., 1, secondo comma, lett. a) d.lgs. 66/2003, 7 I. 300/1970, 24 e 111 Cost., per inidoneità probatoria dei dati rilevati con il sistema di controllo, quand’anche difensivo, all’accertamento dell’inadempimento del lavoratore, comunque in base a un tabulato di unilaterale formazione datoriale, contestato dal lavoratore e in difetto di un riscontro positivo dell’effettiva condotta del lavoratore (terzo motivo); falsa applicazione dell’art. 2104 c.c., in relazione agli artt. 1, 7 I. 300/1970, 2043, 2697 c.c., per difetto di indicazione delle direttive aziendali violate dal lavoratore giocando al computer dell’ufficio, nonché di prova del danno economico e di immagine arrecato alla società datrice dall’inadempimento dello stesso (quarto motivo); violazione dell’art. 7 I. 300/1970, in relazione agli artt. 3 I. 604/1966, 2697 c.c., per omessa valutazione, nell’accertamento del giustificato motivo soggettivo del licenziamento, del curriculum professionale del lavoratore, della natura e qualità del rapporto in relazione alle mansioni e alle responsabilità rivestite, al danno arrecato, alle circostanze del fatto e all’intensità dell’elemento soggettivo (quinto motivo); violazione dell’art. 112 c.p.c., quale error in procedendo e degli artt. 51, 52 CCNL del settore chimico farmaceutico 10 maggio 2006, in relazione agli artt. 3 I. 604/1966, 7 I. 300/1970, 1362 ss. c.c., per non corrispondenza del chiesto al pronunciato, avendo la Corte territoriale sostituito al giustificato motivo soggettivo del licenziamento intimato (per esplicito riferimento, nella lettera di comunicazione, all’ esonero espresso dal … periodo di preavviso”) la giusta causa accertata, ai sensi dell’art. 52, lett. a) CCNL industria chimica 2006, pur in assenza di rilievo della mancanza di precedenti provvedimenti disciplinari per lo stesso comportamento, secondo la previsione della norma collettiva (sesto motivo); violazione dell’art. 2033 c.c., per la decorrenza degli interessi legali sulla somma restituenda dal lavoratore, in quanto percepita a giusto titolo, dalla data della domanda di restituzione della parte interessata e non dalla sentenza della Corte territoriale (settimo motivo);

che il collegio ritiene che il primo e il terzo motivo, congiuntamente esaminabili per ragioni di stretta connessione, siano infondati;

che giova premettere che la violazione della normativa dei controlli a distanza costituisce parte di quella complessa normativa diretta a limitare le manifestazioni del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro, che siano lesive, per le modalità di attuazione incidenti nella sfera della persona, della dignità e della riservatezza del lavoratore: sul presupposto del mantenimento della vigilanza sul lavoro, ancorché necessaria nell’organizzazione produttiva, in una dimensione umana, non esasperata dall’uso di tecnologie che possano renderla continua e anelastica, eliminando ogni zona di riservatezza e di autonomia nello svolgimento del lavoro (Cass. 17 luglio 2007 n. 15982; Cass. 23 febbraio 2012, n. 2722; Cass. 27 maggio 2015, n. 10955); che essa è applicabile nelle garanzie procedimentali previste dall’art. 4, secondo comma I. 300/1970 anche in presenza di controlli cd. difensivi, ossia diretti (pure tramite la conservazione e la categorizzazione dei dati personali dei dipendenti, relativi alla navigazione in internet, all’utilizzo della posta elettronica ed alle utenze telefoniche da essi chiamate, acquisiti dal datore di lavoro: Cass. 19 settembre 2016, n. 18302) ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori, quando tali comportamenti riguardino l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non la tutela dei beni estranei al rapporto stesso (Cass. 23 febbraio 2010, n. 4375; Cass. 1 ottobre 2012, n. 16622; Cass. 5 ottobre 2016, n. 19922);

che detta applicazione è esclusa invece quando i comportamenti illeciti dei lavoratori non riguardino l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro, ma piuttosto la tutela di beni estranei al rapporto stesso, secondo un non sempre agevole bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle irrinunziabili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, con un contemperamento che non può prescindere dalle circostanze del caso concreto (Cass. 1 novembre 2017, n. 26682): pure esclusa la rispondenza ad alcun criterio logico-sistematico della garanzia al lavoratore (in presenza di condotte illecite sanzionabili penalmente o con la sanzione espulsiva) di una tutela alla sua “persona” maggiore di quella riconosciuta ai terzi estranei all’impresa (Cass. 2 maggio 2017, n. 10636);

che siffatti approdi ermeneutici appaiono del resto coerenti con i principi dettati dall’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in base al quale nell’uso degli strumenti di controllo deve individuarsi un giusto equilibrio fra i contrapposti diritti sulla base dei principi della “ragionevolezza” e della “proporzionalità” (Cedu 12 gennaio 2016, Barbulescu c. Romania, secondo cui lo strumento di controllo deve essere contenuto nella portata e dunque proporzionato): e sempre che sia tutelato il diritto del lavoratore al rispetto della vita privata, mediante la previa informazione datoriale del possibile controllo delle sue comunicazioni, anche via internet (Cedu, Grande Chambre 5 settembre 2017, Barbulescu c. Romania, che ha riformato la citata sentenza della sezione semplice, ritenendo un difetto di verifica dei giudici di merito rumeni in ordine ai delicati profili della natura ed estensione della sorveglianza sul lavoratore e del conseguente grado di intrusione nella sua vita privata e nella sua corrispondenza);

che appare allora evidente come esorbiti dal campo di applicazione della norma il caso in cui il datore abbia posto in essere verifiche dirette ad accertare comportamenti del prestatore illeciti e lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale: e tanto più se si tratti di controlli posti in essere ex post, ovvero dopo l’attuazione del comportamento addebitato al dipendente, quando siano emersi elementi di fatto tali da raccomandare l’avvio di un’indagine retrospettiva (Cass. 23 febbraio 2012, n. 2722), così da prescindere dalla pura e semplice sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa degli addetti, invece diretta ad accertare la perpetrazione di eventuali comportamenti illeciti (poi effettivamente riscontrati) dagli stessi posti in essere (Cass. 27 maggio 2015, n. 10955);

che nel caso di specie deve essere pertanto esclusa la violazione delle garanzie previste dall’art. 4 I. 300/1970, avendo la Corte territoriale, con esatta applicazione dei principi di diritto regolanti la materia (dall’ultimo capoverso di pg. 3 al terzo di pg. 4 della sentenza), accertato in fatto l’utilizzazione del controllo all’esclusivo fine di accertamento di mancanze specifiche del lavoratore nell’impiego del computer per finalità extralavorative (gioco a Free-Cell), nelle quali era stato sorpreso dal direttore tecnico e con avvio mirato della verifica informatica ex post, per giunta in base ad o autorizzazione scritta del lavoratore (così al penultimo e al terz’ultimo capoverso di pg. 4 della sentenza) e questa solo genericamente contestata dal lavoratore medesimo (al primo periodo di pg. 8 del ricorso); che il secondo motivo è infondato;

che non sussiste la violazione denunciata, posto che in materia di licenziamento disciplinare, l’immediatezza della contestazione va intesa in senso relativo, dovendosi dare conto delle ragioni che possono cagionare il ritardo, quali il tempo necessario per l’accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa dell’impresa, fermo restando che la valutazione delle suddette circostanze è riservata al giudice del merito (Cass. 10 settembre 2013, n. 20719; Cass. 19 giugno 2014, n. 13955; Cass. 12 gennaio 2016, n. 281), che ad essa ha adeguatamente provveduto (per le ragioni esposte dall’ultimo capoverso di pg. 4 al primo di pg. 5 della sentenza); che il quarto motivo è pure infondato;

che non rileva, infatti, la mancata indicazione di direttive aziendali, posto che l’addebito disciplinare contestato al lavoratore attiene alla violazione dei suoi doveri fondamentali di diligenza nello svolgimento dei propri compiti (Cass. 8 giugno 2001, n. 7819), senza necessità di un’espressa previsione nel codice disciplinare (Cass. 29 agosto 2014, n. 18462), riguardando una situazione direttamente prevista dalla legge, quale in particolare l’obbligo di diligenza a norma dell’art. 2104 c.c. (Cass. 21 luglio 2004,n. 13526; Cass. 25 marzo 2005, n. 6466);

che risulta poi generica la contestazione in ordine alla prova dell’esistenza di un , danno della società datrice, che è stato adeguatamente accertato dalla Corte territoriale (al penultimo capoverso di pg. 5 della sentenza) sul rilievo della sua correlazione diretta con il rilevante tempo sottratto al lavoro da F.C., regolarmente remunerato; che il quinto motivo è inammissibile;

che in sede di legittimità è insindacabile, laddove congruamente argomentato e sempre nei rigorosi limiti introdotti dal novellato testo dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439), applicabile ratione temporis, l’accertamento della proporzionalità compiuto dalla Corte territoriale, in riferimento sia alla gravità obiettiva della condotta, sia al ruolo ed alle mansioni del lavoratore (per le ragioni esposte al primo capoverso di pg. 6 della sentenza), di spettanza esclusiva del giudice di merito (Cass. 10 dicembre 2007, n. 25743; Cass. 21 giugno 2011, n. 13574); che il sesto motivo è infondato;

che deve essere esclusa la ricorrenza del vizio di ultrapetizione denunciato, posto che il giudice di merito ha il potere-dovere di inquadrare nella esatta disciplina giuridica i fatti e gli atti oggetto della contestazione e che incontra peraltro il limite del rispetto dell’ambito delle questioni proposte in modo che siano lasciati immutati il petitum e la causa petendi, senza l’introduzione nel tema controverso di nuovi elementi di fatto; sicché, esso ricorre quando il giudice del merito, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri gli elementi obiettivi dell’azione (petitum e causa petendi) e, sostituendo i fatti costitutivi della pretesa, emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (petitum immediato), ovvero attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso (petitum mediato): con la conseguenza che il vizio in questione si verifica quando il giudice pronuncia oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori, attribuendo alla parte un bene della vita non richiesto o diverso da quello domandato (Cass. 11 gennaio 2011, n. 455; Cass. 24 settembre 2015, n. 18868);

che nel caso di specie, la Corte territoriale non ha contravvenuto al suenunciato principio di corrispondenza del chiesto (accertamento di illegittimità del licenziamento disciplinare intimato) al pronunciato (rigetto della domanda), non avendo attribuito, né negato un bene diverso da quello richiesto, né operato alcuna immutazione della causa petendi (le ragioni sopra illustrate della rivendicata illegittimità) né del petitum (accertamento di illegittimità del licenziamento) e neppure introdotto nuovi elementi di fatto;

che essa si è infatti limitata ad accedere, nel percorso argomentativo decisionale, ad una qualificazione giuridica del comportamento del lavoratore in funzione, non già di una statuizione di conversione del licenziamento (ritenuta ammissibile in particolare da giusta causa a giustificato motivo soggettivo: Cass. 10 agosto 2007, n. 17604; Cass. 17 gennaio 2008, n. 837; Cass. 6 settembre 2014, n. 12884), ma esclusivamente di rigetto della domanda di legittimità del licenziamento; che il settimo motivo è parimenti infondato;

che la decorrenza degli interessi legali deve essere, nel caso di specie, riconosciuta dal giorno del pagamento, e non da quello della domanda, siccome accedenti ad l’azione di ripetizione di somme pagate in esecuzione di sentenza non definitiva;

che, infatti, l’azione di ripetizione di somme pagate in esecuzione della sentenza d’appello successivamente cassata, ovvero della sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva riformata in appello, non si inquadra nell’istituto della condictio indebiti (art. 2033 c.c.), sia perché si ricollega ad un’esigenza di restaurazione della situazione patrimoniale precedente alla sentenza, sia perché il comportamento dell’accipiens non si presta a valutazione di buona o mala fede ai sensi della suddetta norma di legge non potendo venire in rilievo stati soggettivi rispetto a prestazioni eseguite e ricevute nella comune consapevolezza della rescindibilità del titolo e della provvisorietà dei suoi effetti (Cass. 5 agosto 2005, n. 16559; Cass. 19 ottobre 2007, n. 21992; 18 giugno 2009, n. 14178); che la Corte territoriale ha correttamente fissato dal giorno del pagamento (come indicato in dispositivo) la decorrenza degli interessi legali sulla somma percepita dal lavoratore in esecuzione della sentenza di primo grado, da restituire per effetto della sua riforma in sede di giudizio di rinvio a seguito di cassazione della sentenza di appello;

che pertanto il ricorso deve essere rigettato, con regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza;

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna F.C. alla rifusione, in favore della controricorrente, alle spese del giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.