LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
(ud. 22/05/2014) 26-05-2014, n. 21323
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CONTI Giovanni - Presidente -
Dott. PETRUZZELLIS Anna - Consigliere -
Dott. FIDELBO Giorgio - Consigliere -
Dott. VILLONI Orlando - Consigliere -
Dott. DE AMICIS Gaetan - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
M.M. N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 34/2014 CORTE APPELLO di MILANO, del 17/04/2014;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GAETANO DE AMICIS;
sentite le conclusioni del PG Dott. SPINACI Sante, che ha concluso per il rigetto.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza emessa in data 17 aprile 2014 la Corte d'appello di Milano ha ordinato la consegna all'Autorità giudiziaria polacca (Corte regionale di Tarnow) di M.M., in esecuzione del m.a.e. esecutivo emesso il 12 giugno 2012 dalla Corte regionale di Tarnow per i reati di associazione a delinquere e furto aggravato, oggetto delle sentenze di condanna irrevocabili emesse in data 20 settembre 2010 e in data 22 agosto 2011.
1.1. Esponeva al riguardo la Corte d'appello che dalla documentazione pervenuta risultava che il M.M. dal 2002 al 2009 aveva diretto un'organizzazione criminale - fornendo mezzi tecnici e supporto logistico - che poneva in essere in Italia furti di prodotti cosmetici, di capi d'abbigliamento ed elettrodomestici, che poi rivendeva in Polonia.
2. Avverso la su indicata pronuncia della Corte d'appello di Milano ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputato, deducendo due motivi di doglianza il cui contenuto viene qui di seguito sinteticamente illustrato.
2.1. Violazioni di legge e carenze motivazionali in relazione alla L. n. 69 del 2005, art. 18, comma 1, lett. p) ed o), con riferimento all'art. 6 c.p. , poichè dal m.a.e. e dalle stesse sentenze emesse dalle Autorità giudiziarie polacche risulta che le condotte delittuose oggetto della richiesta di consegna sono state, in tutto o in parte, commesse in Italia.
Da tali atti processuali emerge, in particolare, che il ricorrente ha diretto un gruppo di criminalità organizzata il cui scopo era quello di commettere reati di furto - di diversi prodotti e merci - sul territorio della Repubblica italiana, ove si è recato, assieme ad altri imputati, per diciassette volte, occupandosi dell'organizzazione dei mezzi di trasporto, del pernottamento e vitto, stabilendo le località ed indicando i punti commerciali in cui dovevano essere realizzate le attività delittuose; egli, inoltre, portava gli altri imputati sul posto, custodiva ed impacchettava la merce rubata, consegnandola ai dipendenti di una ditta di trasporti per inviarla in Polonia.
Tali circostanze, del resto, emergono anche dal fatto che i reati contestati nell'ambito di un altro procedimento penale pendente presso il Tribunale di Bergamo (furti in danno di un centro commerciale), ancorchè risalenti ad epoca successiva (ossia, alla data del 14 aprile 2012), sono analoghi, pure nel modus operandi, a quelli oggetto delle sentenze di condanna polacche.
2.1.1. Nè, inoltre, è stato preso in considerazione l'interesse effettivo del M. a restare in Italia, anche solo per seguire gli sviluppi e l'esito della su richiamata vicenda processuale, che nei suoi confronti è ancora pendente in primo grado.
2.2. Violazioni di legge e carenze motivazionali in relazione alla L. n. 69 del 2005, art. 18, comma 1, lett. r), con riferimento all'art. 6 c.p. , poichè dalla documentazione acquisita agli atti, e dallo stesso m.a.e., risulta il radicamento del M. sul territorio italiano quanto meno da circa due anni, in ragione di un legame sentimentale con W.Z., la cui madre da decenni vive in Italia con una stabile occupazione lavorativa. Egli, inoltre, comprende e parla la lingua italiana ed ha fissato il proprio domicilio presso l'abitazione della madre della sua compagna, ove poi è stato tratto in arresto.
2.2.1. Si deducono, infine, dubbi sulla regolarità dei processi d'appello celebrati dalle Autorità polacche in data 31 marzo 2011 e in data 6 dicembre dello stesso anno, oltre che sul fatto che il ricorrente ne fosse informato o ne avesse avuto effettiva conoscenza.
Motivi della decisione
3. Il ricorso è infondato e va pertanto rigettato per le ragioni di seguito esposte e precisate.
4. In relazione al primo motivo di ricorso giova osservare, preliminarmente, come dallo stesso contenuto del m.a.e., oltre che dalla motivazione delle su indicate sentenze irrevocabili emesse dalle Autorità giudiziarie della Repubblica polacca, emerga il fatto che la persona richiesta in consegna, entro l'arco temporale ricompreso fra il 2002 ed il settembre 2009, ha diretto nel territorio della Polonia un'organizzazione criminale il cui scopo era quello di commettere furti di merci e prodotti di bellezza nel territorio italiano, al fine di rivenderli successivamente in Polonia.
Coadiuvato da altre persone, alcune delle quali non identificate, il M. si è recato, in diciassette occasioni, in località non meglio precisate del territorio italiano, occupandosi degli aspetti organizzativi delle partenze, predisponendo i mezzi di trasporto, pernottamento e vitto, individuando le località e gli esercizi commerciali dove realizzare i furti, fornendo ai relativi autori i dispositivi di disattivazione dell'allarme che assicurava la merce da illecite apprensioni, seguendone quindi lo svolgimento attraverso contatti via radio ed infine custodendo e confezionando i prodotti rubati, complessivamente ritenuti di consistente valore economico, per consegnarli ad una ditta di trasporti che provvedeva a distribuirli nella città di Tarnow.
Al riguardo, qualificati i fatti di reato oggetto del m.a.e. ai sensi degli art. 416, 624 e 625 c.p. , la Corte d'appello milanese ha motivatamente rigettato i rilievi difensivi, escludendo la pendenza in Italia di procedimenti penali aventi ad oggetto le stesse vicende storico-fattuali per le quali è stata richiesta la consegna.
4.1. Ciò posto in linea di fatto, la relativa doglianza dal ricorrente prospettata non può ritenersi meritevole di accoglimento e deve essere pertanto rigettata.
E' noto che la L. n. 69 del 2005, art. 18, lett. p), applica alla procedura passiva di consegna un limite tradizionale della cooperazione giudiziaria penale, previsto sia dalla Decisione quadro 2002/584/GAI del 13 giugno 2002 (ex art. 4, par. 7), che dalla Convenzione Europea di estradizione del 13 dicembre 1957 (ex art. 7).
Si tratta, evidentemente, di un limite derivante dal principio di territorialità ( art. 6 c.p. ), ossia dalla preminenza accordata alla giurisdizione territoriale dello Stato richiesto, il cui ambito di applicazione nella materia qui considerata è stato da questa Suprema Corte per lo più interpretato (da ultimo, v. Sez. 6, n. 45914 del 12/11/2013, dep. 14/11/2013, Rv. 257469; Sez. 6, n. 20281 del 24/04/2013, dep. 10/05/2013, Rv. 257025) nel senso che il motivo di rifiuto della consegna previsto dalla L. 22 aprile 2005, n. 69, art. 18, comma 1, lett. p), sussiste quando anche solo una parte della condotta si sia verificata in territorio italiano, purchè tale circostanza risulti con certezza, non potendosi ritenere sufficiente la mera ipotesi che il reato sia stato commesso in tutto o in parte in Italia, mentre non è necessario che gli elementi acquisiti consentano l'immediato e contestuale esercizio dell'azione penale in Italia per gli stessi fatti per i quali procede il giudice estero.
Si è altresì rilevato (Sez. F., n. 35285 del 02/09/2008, dep. 15/09/2008, Rv. 240982) che, pur potendosi convenire che i casi di rifiuto di consegna contemplati nelle lett. o) e p) del su citato art. 18 si nutrano di una comune ispirazione, individuabile - in linea di massima - nell'obiettivo di evitare nell'area Euro-unitaria duplicazioni di procedimenti e di giudicati nei confronti di cittadini Europei, non può non constatarsi - alla stregua di semplici criteri ermeneutici di ordine sistematico - che le due casistiche muovono da presupposti strutturali e procedimentali diversi e non del tutto omologabili. Che, altrimenti, prosegue la pronuncia or ora menzionata, "ipotizzandosene la sovrapponibilità precettiva, non troverebbe logica spiegazione la previsione di due separate disposizioni normative o casistiche".
Mentre, infatti, la lett. o) della su menzionata disposizione investe la nozione di identicità o medesimezza di un fatto costituente reato, ciò che implica una piena simmetrica specularità tra la fattispecie criminosa oggetto di un eventuale procedimento penale nazionale (italiano) e la fattispecie criminosa oggetto di un mandato di arresto Europeo, la lett. p) attiene essenzialmente, in un'ottica di dinamica evolutiva e spaziale delle condotte criminose, alle manifestazioni ed applicazioni del criterio di territorialità adottato nell'ordinamento penale italiano (secondo il principio di c.d. ubiquità) ai fini della determinazione del locus commissi delicti con la correlata previsione di cui all'art. 6 c.p. , comma 2.
L'evocata disposizione di cui all'art. 18, lett. p), tuttavia, non può ritenersi, propriamente, applicabile nell'ipotesi di un mandato di arresto Europeo emesso, come avvenuto nel caso in esame, per l'esecuzione di una pena detentiva, riguardando la stessa, essenzialmente, le richieste di consegna formulate per ragioni processuali, ossia ai fini dell'esercizio di un'azione penale (ex art. 4, n. 7, lett. a) e b), della Decisione quadro 2002/584/GAI).
Lo stesso tenore letterale del dato normativo, ove si consideri il secondo inciso della relativa disposizione di diritto interno, presenta un chiaro riferimento alla nozione di "azione penale", quando deve precisare la portata applicativa della condizione ostativa definita in linea generale nella prima parte della lett. p), stabilendo, giustappunto, che la consegna deve essere rifiutata se il m.a.e. riguarda "reati che sono stati commessi al di fuori del territorio dello Stato membro di emissione, se la legge italiana non consente l'azione penale per gli stessi reati commessi al di fuori del suo territorio".
Nè, peraltro, risulterebbe agevolmente comprensibile, ove si accedesse alla contraria ipotesi ricostruttiva, la scelta del legislatore di articolare con nettezza l'ambito di applicazione dei motivi di rifiuto "affini", disciplinati all'interno di contigue previsioni della stessa disposizione normativa (ossia, in particolare, nelle lett. m) ed o)), il cui contenuto precettivo, nel regolare il quadro delle possibili interferenze e sovrapposizioni tra fattori ostativi alla consegna egualmente finalizzati ad evitare il rischio di procedimenti penali paralleli nel territorio di più Stati membri dell'Unione Europea, mostra di voler concentrare l'incidenza del mandato sulla sua veste propriamente "esecutiva" (nella lett. m)), ovvero di bilanciarne gli effetti della possibile alternativa con la sua diversa veste "processuale" (segnatamente, nella lett. o), laddove, per delimitare l'ambito di opponibilità della condizione ostativa, si esclude espressamente l'ipotesi in cui il m.a.e.
concerna l'esecuzione di una sentenza definitiva emessa in uno Stato membro dell'Unione Europea).
Nella stessa elaborazione giurisprudenziale di questa Suprema Corte, del resto, l'area applicativa della disposizione in esame, nonostante un precedente in senso contrario (Sez. F, n. 35285 del 02/09/2008, dep. 15/09/2008, cit), viene per lo più riferita alle ipotesi di consegna basate su mandati d'arresto Europei emessi per finalità processuali (ex multis, v. Sez. 6, n. 20281 del 24/04/2013, dep. 10/05/2013, Rv. 257025; Sez. 6, n. 45914 del 12/11/2013, dep. 14/11/2013, Rv. 257469; Sez. 6, n. 16115 del 24/04/2012, dep. 27/04/2012, Rv. 252507, la cui motivazione fa chiaramente riferimento ad un m.a.e. processuale, e non esecutivo, come invece sembra affermare la massima; Sez. 6, n. 45524 del 20/12/2010, dep. 27/12/2010, Rv. 248717; Sez. 6, n. 40287 del 28/10/2008, dep. 29/10/2008, Rv. 241519; Sez. 6, n. 16944 del 22 aprile 2008, dep. 23 aprile 2008, non mass.).
Muovendo il piano della riflessione all'interno di una generale visione ricostruttiva del catalogo dei motivi di rifiuto, incentrata sulla necessaria ricomposizione dei tasselli di un mosaico normativo complesso e di problematica percezione, anche per il ricorso da parte del legislatore a formule lessicali talora ripetitive, talaltra imprecise, quando non di ambivalente "lettura" ermeneutica, deve rilevarsi, dunque, come all'effetto preclusivo derivante dal giudicato estero cristallizzatosi in una decisione irrevocabile pronunziata in qualsiasi Stato membro dell'U.E. (ex art. 18, lett. m)) si affianchi la diversa ipotesi della condizione ostativa marcata dalle possibili situazioni di concorrenza investigativa legate all'interferenza del principio di territorialità interna (ex art. 18, lett. p)), mentre la figura intermedia racchiusa nella lett. o) della medesima disposizione mira a ricomprendere in sè, come si vedrà meglio più avanti (v., infra, il par. 4.2.), tutti i casi di litispendenza, attuale o solo potenziale, nello Stato di esecuzione, regolando la modulazione dei rapporti tra la giurisdizione italiana e straniera alla stregua di un bilanciamento che inevitabilmente fa prevalere quest'ultima nell'ipotesi che la persona ricercata abbia "formato oggetto in uno Stato membro di una sentenza definitiva per gli stessi fatti che osta all'esercizio di ulteriori azioni" (arg. ex art. 4, nn. 2 e 3, della Decisione quadro 2002/584/GAI).
4.2. Nè, di contro, potrebbe venire in rilievo, ai fini del rifiuto della consegna nel caso in esame, la collegata ipotesi, pur essa evocata dal ricorrente, di cui alla L. n. 69 del 2005, art. 18, comma 1, lett. o), la quale stabilisce che la Corte di appello deve rifiutare la consegna del destinatario del mandato di arresto Europeo, laddove, "per lo stesso fatto che è alla base del mandato d'arresto Europeo, nei confronti della persona ricercata, è in corso un procedimento penale in Italia, esclusa l'ipotesi in cui il mandato d'arresto Europeo concerne l'esecuzione di una sentenza definitiva di condanna emessa in uno Stato membro dell'Unione Europea".
E' evidente che siffatta disposizione normativa, configurando un'ipotesi di "litispendenza internazionale", debba essere letta, anzitutto, in stretta connessione con l'art. 54 della Convenzione di applicazione degli Accordi di Schengen del 1990, ratificata in Italia con la L. n. 388 del 1993 , secondo cui "una persona che sia stata giudicata con sentenza definitiva in una Parte contraente non può essere sottoposta a procedimento penale per i medesimi fatti in un'altra Parte contraente, a condizione che, in caso di condanna, la pena sia stata eseguita o sia effettivamente in corso di esecuzione o non possa più essere eseguita per le leggi dello Stato di condanna".
La c.d. litispendenza costituisce, infatti, una causa ostativa alla consegna la cui rado è quella di evitare che si formi all'estero, in un altro Stato membro dell'Unione Europea, un giudicato che impedirebbe all'autorità giudiziaria italiana di procedere per lo stesso fatto in Italia (secondo il principio del ne bis in idem presupposto nell'art. 18, lett. m).
Una funzione, questa, tipicamente preventiva, che viene ulteriormente avvalorata dal fatto che tale motivo di ostacolo alla consegna non è operante nell'ipotesi di mandato c.d. "esecutivo", poichè in tale specifica situazione - anch'essa, come si è visto, contemplata nella su citata disposizione - il giudicato nel Paese estero si è già formato e non v'è ragione, dunque, per impedire la consegna della persona richiesta.
Perchè possa essere applicabile la norma in esame, dunque, è necessario che il fatto di reato oggetto del mandato di arresto Europeo sia "lo stesso" di quello per il quale si procede in Italia, tale dovendosi considerare - in ragione dell'inevitabile richiamo all'art. 649 c.p.p. - la medesima vicenda storica, intesa in relazione ai profili temporali, spaziali e modali, indipendentemente dalla qualificazione giuridica che ai fatti sia stata data dalle diverse autorità (Sez. 6, n. 18084 del 10/05/2012, dep. 11/05/2012, Rv. 252510; Sez. 6, n. 3504 del 22/01/2014, dep. 23/01/2014, Rv.
258512).
La ratio, i contenuti e la finalità di tale previsione normativa, tuttavia, devono declinarsi nel più ampio contesto dei nuovi principii e regole posti alla base dell'attuale assetto normativo dei rapporti di cooperazione giudiziaria penale.
Nell'ambito dei rapporti di cooperazione giudiziaria fra gli Stati membri dell'Unione Europea, infatti, acquista un ruolo decisivo il principio del reciproco riconoscimento delle sentenze e delle decisioni giudiziarie (ex art. 82, par. 1, T.F.U.E.), mentre la stessa nozione di litispendenza quale possibile causa di rifiuto della consegna assume una valenza semantica più ampia di quella che tradizionalmente le viene assegnata nell'ambito del c.d. diritto estradizionale, dovendo la stessa ampliarsi fino a ricomprendere non solo la considerazione del profilo statico della richiesta di consegna, ma anche quello, più propriamente dinamico, di una relazione intergiurisdizionale connotata dalla presenza di un giudicato estero che copra l'intero nucleo storico-fattuale della vicenda e si correli, come nel caso in esame, al rischio di una litispendenza anche solo potenziale, originata dall'apparente necessità di duplicare, per gli stessi fatti e nei confronti della stessa persona, un procedimento penale la cui parziale rinnovazione - in quanto limitata al solo profilo dei furti, commessi in Italia quali reati fine di un'associazione a delinquere costituita ed operante in territorio estero - non troverebbe altra giustificazione se non quella legata ad un'astratta prevalenza del principio di territorialità interna (ex art. 6 c.p. e art. 11 c.p. , comma 1), indebitamente sovrapposto ad una territorialità Europea concepita "senza frontiere interne" (ex art. 3, par. 3, T.U.E.) e fondata, ormai, sulla comune adesione ai principii generali di reciproca fiducia e collaborazione tra Paesi membri (ex artt. 1-6 T.U.E. e 67 T.F.U.E.).
La su indicata condizione ostativa di cui alla lett. o) dell'art. 18), pertanto, deve correttamente interpretarsi, laddove introduce un elemento preclusivo del rifiuto di consegna incentrato sul divieto di bis in idem sancito dall'art. 54 della Convenzione di Schengen, alla luce di tale nuovo quadro di principii e regole del diritto Euro- unitario, nel senso della prevalenza della giurisdizione straniera esecutiva (relativa, quindi, a sentenze di condanna definitive) rispetto alle esigenze processuali proprie della giurisdizione interna, non solo nell'ipotesi della pendenza di un procedimento penale per gli stessi fatti oggetto del m.a.e., ma anche - e a maggior ragione nella prospettiva assiologica su delineata - nell'ipotesi qui considerata di un procedimento penale che dovrebbe instaurarsi ex novo, in relazione agli stessi fatti e nei confronti della stessa persona, dinanzi alle competenti autorità dello Stato di esecuzione.
5. Una linea interpretativa, quella or ora tracciata, le cui radici vanno ricercate, da un lato, nella fondamentale esigenza di dare piena attuazione alla disposizione di cui all'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea - che, dotata dello stesso valore giuridico dei Trattati ex art. 6, par. 1, T.U.E., impone agli Stati membri l'obbligo di astenersi dall'esercizio della giurisdizione penale quando sia già intervenuta una sentenza di altro Stato membro per gli stessi fatti e nei confronti di quella stessa persona - e, dall'altro lato, nella connessa esigenza di valorizzare sul piano interpretativo i generali criteri direttivi al riguardo delineati nella recente Decisione quadro 2009/948/GAI del 30 novembre 2009 sulla prevenzione e la risoluzione dei conflitti relativi all'esercizio della giurisdizione nei procedimenti penali.
Con tale nuovo strumento, invero, gli Stati membri hanno inteso concretizzare uno degli obiettivi espressamente previsti dal Trattato dell'Unione Europea (ora Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea), ove all'art. 82, comma 1, lett. b) si prevede che le azioni comuni nel settore della cooperazione giudiziaria in materia penale devono "prevenire e risolvere i conflitti di giurisdizione tra gli Stati membri".
Scopo della decisione quadro è non solo quello di stabilire un meccanismo di composizione dei conflitti di giurisdizione, qualora già risultino pendenti in due o più Stati membri "procedimenti paralleli", ovvero procedimenti penali per gli stessi fatti in cui è implicata la stessa persona, ma anche, e soprattutto, quello di obbligare gli Stati membri a prevenire l'insorgenza di tali situazioni di conflitto.
Significativo appare, in tal senso, il preambolo della decisione quadro, laddove chiarisce che obiettivo di tale atto di diritto derivato è quello di evitare l'insorgenza di procedimenti penali paralleli superflui, in quanto nello spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia, il principio di obbligatorietà dell'azione penale, che informa il diritto processuale in vari Stati membri, deve essere inteso ed applicato in modo da ritenerlo "soddisfatto quando ogni Stato membro garantisce l'azione penale in relazione ad un determinato reato" (considerandum n. 12).
Sottesa al fondamentale obiettivo di prevenire e risolvere i conflitti di giurisdizione fra gli Stati membri dell'Unione Europea non è solo l'esigenza di evitare che, in relazione alla stessa vicenda, vi sia una dispersione di energie processuali da parte delle autorità dei singoli Stati, obbligati ad avviare e concludere processi che - in un'ottica di reciproca fiducia nei rispettivi sistemi di giustizia penale - potrebbero essere condotti da uno solo di essi, ma anche -come ricorda il preambolo (nei consideranda nn. 3 e 12) della stessa decisione quadro - la necessità di impedire la violazione del principio del ne bis in idem, ossia di un principio posto a garanzia della libertà di circolazione del cittadino Europeo, e significativamente scolpito, dall'art. 50 della Carta di Nizza, nel quadro dei principii fondamentali dell'Unione Europea, con la logica conseguenza, a seguito dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, della sua diretta applicabilità in tutti i sistemi giuridici interni, accanto alle previsioni contenute nelle relative Costituzioni nazionali (su tale profilo v., in motivazione, Sez. 6, n. 45524 del 20/12/2010, dep. 27/12/2010).
6. Il secondo motivo di doglianza è manifestamente infondato, avendo la Corte distrettuale fatto buon governo delle regole al riguardo dettate da questa Suprema Corte (da ultimo, Sez. 6, n. 46494 del 20/11/2013, dep. 21/11/2013, Rv.258414), secondo il cui pacifico insegnamento la nozione di residenza che viene in considerazione per l'applicazione dei diversi regimi di consegna di cui alla L. n. 69 del 2005, art. 18, lett. r), prescinde dall'assenza di residenza anagrafica, ma presuppone l'esistenza di un radicamento reale e non estemporaneo dello straniero nel territorio dello Stato, da verificarsi sulla base di indici concorrenti, quali la legalità della sua presenza in Italia, l'apprezzabile continuità temporale e stabilità della stessa, la distanza temporale tra quest'ultima e la condanna conseguita all'estero, la fissazione in Italia della sede principale degli interessi lavorativi, il pagamento di eventuali oneri contributivi e fiscali.
Da tali indici, peraltro, è possibile prescindere solo per il cittadino comunitario che abbia acquisito il diritto di soggiorno permanente in conseguenza di un soggiorno in Italia per un periodo ininterrotto di cinque anni (Sez. 6, n. 13517 del 08/04/2010, dep. 09/04/2010, Rv. 246746).
Nel caso in esame, come si è dianzi accennato, la Corte distrettuale si è pienamente uniformata a tale quadro di principii, avendo posto in rilievo, con congrue ed esaustive argomentazioni, come nelle vicende relative alla presenza del M. sul territorio italiano dovessero escludersi del tutto indizi o elementi sintomatici di un legame utilmente valutabile ai fini di un reinserimento speciale nella prospettiva dell'art. 27 Cost. : egli, infatti, è privo di attività lavorativa e di una fissa dimora, si è reso autore di numerose condotte delittuose in Italia ed ha inizialmente fornito false generalità nell'ambito del procedimento penale a suo carico pendente dinanzi al Tribunale di Bergamo.
7. Infine, in ordine alla doglianza incentrata sull'omessa considerazione dell'effettivo interesse del ricorrente a seguire gli sviluppi e l'esito della vicenda processuale pendente nei suoi confronti dinanzi alle Autorità giudiziarie italiane (v., supra, il par. 2.1.), deve rilevarsi come il relativo apprezzamento di merito, anche, e soprattutto, in ragione dei suoi profili di discrezionalità valutativa, non possa di certo essere espresso in questa Sede (Sez. 6, n. 14764 del 27 marzo 2013, dep. 28 marzo 2013, Rv. 257020; Sez. 6, n. 3255 del 17 gennaio 2013, dep. 22 gennaio 2013, Rv. 254183).
Giova richiamare, al riguardo, le indicazioni riconnesse alla possibile applicazione della regola operativa da questa Suprema Corte enunciata (Sez. 6, n. 42045 del 06/11/2008, dep. 11/11/2008, Rv.
241521), secondo cui la facoltà riconosciuta alla Corte di appello di rinviare la consegna per consentire alla persona richiesta di essere sottoposta a procedimento penale in Italia per un reato diverso da quello oggetto del mandato d'arresto Europeo ben può essere esercitata, se del caso, anche successivamente al provvedimento che ha disposto la consegna, purchè anteriormente alla materiale sua esecuzione e solo dopo aver interpellato - anche se non necessariamente in un contesto di udienza - l'interessato ed il suo difensore.
8. Inammissibili, in quanto formulate del tutto genericamente, e senza sviluppare alcun confronto critico-argomentativo con le contrarie emergenze processuali, devono ritenersi, poi, le residue doglianze dal ricorrente prospettate (v., supra, il par. 2.2.1), risultando con chiarezza dal mandato d'arresto Europeo non solo il dato di fatto che l'interessato è comparso personalmente in udienza, ma anche le ulteriori circostanze che egli, pur essendo a conoscenza del procedimento penale a suo carico e del contenuto delle decisioni adottate, non si è presentato presso l'Istituto penitenziario ove avrebbe dovuto scontare la pena detentiva nei suoi confronti irrogata, ma ha lasciato il suo domicilio, senza che le successive ricerche dessero utili risultati.
9. Sulla base delle su esposte considerazioni, conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato.
La Cancelleria provvedere alla tempestiva comunicazione della presente decisione al Ministro della Giustizia ai sensi della L. 22 aprile 2005, n. 69, art. 22, comma 5.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui alla L. n. 69 del 2005, art. 22, comma 5.
Così deciso in Roma, il 22 maggio 2014.
Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2014