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Magistrati responsabili (Corte Costituzionale, 164/17)

12 luglio 2017, Corte costituzionale

Legittima la legge n. 18 del 2015 che, mantenendo la clausola di salvaguardia ha ampliato i casi di colpa grave generativi di responsabilità risarcitoria tanto sul piano numerico, con l’aggiunta dell’ipotesi del travisamento del fatto o delle prove, eliminando riferimento alla negligenza inescusabile.

La pendenza della causa di danno contro lo Stato non costituisce motivo di astensione o ricusazione del giudice autore del provvedimento. E ciò neppure nel caso di intervento del magistrato in detta causa: non vi è, infatti, un rapporto diretto parte-magistrato, che valga a qualificare il secondo come debitore – anche solo potenziale – della prima.

Non è costituzionalmente necessario, infatti, che, per bilanciare i contrapposti interessi di cui si è detto, sia prevista una delibazione preliminare dell’ammissibilità della domanda contro lo Stato, quale strumento indefettibile di protezione dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura.

Il ruolo del giudice, nell’architettura costituzionale della giurisdizione, appare infatti peculiare, non potendosi escludere a priori che norme, pur non immediatamente applicabili nel processo, vadano ad incidere in maniera evidente ed attuale sulle garanzie costituzionali della funzione giurisdizionale, così condizionando l’esercizio della relativa attività. Ciò tuttavia presuppone che tale incidenza – per qualità, intensità, univocità ed evidenza della sua direzione, immediatezza ed estensione dei suoi effetti – sia tale da determinare una effettiva interferenza sulle condizioni di indipendenza e terzietà nel decidere, a prescindere da qualsiasi profilo che possa riguardare un eventuale “perturbamento psicologico” del singolo giudice.

 

 

CORTE COSTITUZIONALE

SENTENZA N. 164

ANNO 2017

composta dai signori:

-           Paolo                           GROSSI                                           Presidente

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                    Giudice

-           Giorgio                        LATTANZI                                              ”

-           Aldo                            CAROSI                                                   ”

-           Marta                           CARTABIA                                             ”

-           Mario Rosario              MORELLI                                                ”

-           Giancarlo                     CORAGGIO                                            ”

-           Giuliano                       AMATO                                                   ”

-           Silvana                         SCIARRA                                                ”

-           Daria                            de PRETIS                                               ”

-           Nicolò                          ZANON                                                   ”

-           Franco                         MODUGNO                                            ”

-           Augusto Antonio       BARBERA                                              ”

-           Giulio                          PROSPERETTI                                        ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 2, comma 1, lettere a), b) e c), 3, comma 2, e 4 della legge 27 febbraio 2015, n. 18 (Disciplina della responsabilità civile dei magistrati), e degli artt. 2, commi 2 e 3, 4, 7, 8, comma 3, e 9, comma 1, della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), come modificati dalla legge n. 18 del 2015, promossi dal Tribunale ordinario di Verona con ordinanza del 12 maggio 2015, dal Tribunale ordinario di Treviso con ordinanza dell’8 maggio 2015, dal Tribunale ordinario di Catania con ordinanza del 6 febbraio 2016, dal Tribunale ordinario di Enna con ordinanza del 25 febbraio 2016 e dal Tribunale ordinario di Genova con ordinanza del 10 maggio 2016, rispettivamente iscritte ai nn. 198 e 218 del registro ordinanze 2015, e ai nn. 113, 126 e 130 del registro ordinanze 2016 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 40 e 43, prima serie speciale, dell’anno 2015 e nn. 23 e 27, prima serie speciale, dell’anno 2016.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 9 novembre 2016 il Giudice relatore Franco Modugno.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 12 maggio 2015 (r.o. n. 198 del 2015), il Tribunale ordinario di Verona ha sollevato questioni di legittimità costituzionale:

a) degli artt. 2, comma 1, lettera c), e 4, comma 1, della legge 27 febbraio 2015, n. 18 (Disciplina della responsabilità civile dei magistrati), nella parte in cui – sostituendo, rispettivamente, l’art. 2, comma 3, e l’art. 7 della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati) – includono il «travisamento del fatto o delle prove» tra le ipotesi di colpa grave che possono dar luogo a responsabilità civile dello Stato e del magistrato, per contrasto con gli artt. 101, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione;

b) dell’art. 2, comma 1, lettera b), della legge n. 18 del 2015, per contrasto con l’art. 3 Cost.;

c) dell’art. 3, comma 2, della legge n. 18 del 2015, per contrasto con gli artt. 3, 25, primo comma, 101, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost.;

d) dell’art. 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988, come modificato dall’art. 6 della legge n. 18 del 2015, per contrasto con gli artt. 25, primo comma, 101, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost.;

e) dell’art. 4 della legge n. 18 del 2015, nella parte in cui, sostituendo l’art. 7, comma 1, della legge n. 117 del 1998, prevede che il Presidente del Consiglio dei Ministri ha l’obbligo di esercitare l’azione di rivalsa verso il magistrato, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost.;

f) dell’art. 2, comma 1, lettere a), b) e c), e dell’art. 4 della legge n. 18 del 2015, quest’ultimo nella parte in cui prevede che il Presidente del Consiglio dei Ministri ha l’obbligo di esercitare l’azione di rivalsa verso il magistrato, per contrasto con l’art. 81, terzo comma, Cost.

1.1.– Il giudice a quo premette di essere investito dell’opposizione proposta da una società cooperativa avverso il decreto con il quale le era stato ingiunto il pagamento della somma di euro 142.292,53, oltre interessi, in favore di una impresa agricola, quale corrispettivo di forniture di prodotti documentate da fatture. A sostegno dell’opposizione, la cooperativa ingiunta aveva dedotto una serie di motivi, tutti contestati dall’impresa ingiungente, la quale – rilevato che l’opposizione non era fondata su prova scritta, né di pronta soluzione – aveva chiesto, ai sensi dell’art. 648, primo comma, del codice di procedura civile, che il decreto ingiuntivo opposto fosse dichiarato provvisoriamente esecutivo.

Secondo il rimettente, ai fini della decisione su tale istanza assumerebbero rilievo alcune delle disposizioni in materia di responsabilità civile dei magistrati introdotte dalla legge n. 18 del 2015, in quanto «concretamente e immediatamente produttiv[e] di una responsabilità potenziale» di esso giudice a quo.

Al riguardo, il rimettente ricorda come la Corte costituzionale, con la sentenza n. 18 del 1989, decidendo su una serie di questioni relative alla pregressa disciplina della responsabilità civile dei magistrati di cui alla legge n. 117 del 1988, abbia rilevato che l’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) esige, ai fini della proposizione dell’incidente di costituzionalità, che il giudizio principale non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale: sicché, di regola, la rilevanza della questione resta strettamente correlata all’applicabilità della norma impugnata nel giudizio a quo. Tuttavia – come già ritenuto implicitamente dalla stessa Corte costituzionale in precedenti occasioni (sentenze n. 196 del 1982, n. 125 del 1977 e n. 128 del 1974) e, secondo il rimettente, anche nella più recente sentenza n. 237 del 2013 – «debbono ritenersi influenti sul giudizio anche le norme che, pur non essendo direttamente applicabili nel giudizio a quo, attengono allo status del giudice, alla sua composizione nonché, in generale, alle garanzie e ai doveri che riguardano il suo operare. L’eventuale incostituzionalità di tali norme è destinata ad influire su ciascun processo pendente davanti al giudice del quale regolano lo status, la composizione, le garanzie e i doveri: in sintesi, la “protezione” dell’esercizio della funzione, nella quale i doveri si accompagnano ai diritti».

Occorrerebbe inoltre considerare – secondo il giudice a quo – che la nuova legge ha ampliato le ipotesi che possono dar luogo a responsabilità civile dello Stato e del magistrato, includendovi, in particolare, le fattispecie del travisamento del fatto o delle prove (artt. 2, comma 3, e 7 della legge n. 117 del 1988, come novellati dagli artt. 2, comma 1, lettera c, e 4, comma 1, della legge n. 18 del 2015). Almeno le citate disposizioni troverebbero immediata applicazione in tutti i giudizi in corso potenzialmente causativi di danno, giacché i giudici che li trattano, per non incorrere in responsabilità (anche disciplinare), dovrebbero attenersi ai criteri di valutazione da esse stabiliti.

1.2.– Ciò premesso, il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale dei citati artt. 2, comma 1, lettera c), e 4, comma 1, della legge n. 18 del 2015, osservando come, nell’originario assetto della legge n. 117 del 1988, la valutazione dei fatti e delle prove – costituente, assieme all’interpretazione delle norme di diritto, l’essenza stessa della funzione giurisdizionale – non potesse mai dar luogo a responsabilità, in virtù della cosiddetta clausola di salvaguardia enunciata dall’art. 2, comma 2, della stessa legge. Come rilevato tanto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 18 del 1989, quanto dalla giurisprudenza di legittimità, detta clausola era funzionale alla tutela dell’indipendenza del giudice, che, a propria volta, costituisce garanzia di apprezzamento imparziale delle risultanze istruttorie.

La legge n. 18 del 2015 – pur riproponendo, nel suo art. 2, comma 1, lettera b), la clausola di salvaguardia – ne avrebbe, di fatto, sensibilmente ridotto l’àmbito di operatività. La lettera c) del medesimo art. 2, comma 1, ha infatti ampliato i casi di colpa grave generativi di responsabilità risarcitoria tanto sul piano numerico, con l’aggiunta dell’ipotesi del travisamento del fatto o delle prove, quanto sotto il profilo soggettivo, con l’eliminazione del riferimento alla negligenza inescusabile (la quale, ai sensi dell’art. 7, comma 1, della legge n. 117 del 1988, come sostituito dall’art. 4 della legge n. 18 del 2015, costituisce ora condizione solo per l’esercizio dell’azione di rivalsa nei confronti del magistrato).

Ad avviso del giudice a quo, il nuovo regime si porrebbe in contrasto con gli artt. 101, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost., apparendo le nozioni di travisamento del fatto o delle prove equivoche ed indefinibili. Esse non coinciderebbero con le ipotesi – già contemplate dall’art. 2, comma 3, della legge n. 117 del 1988 – dell’affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento, o della negazione di un fatto la cui esistenza risulti incontrastabilmente dagli atti del procedimento, per la semplice ragione che sono state aggiunte, e non già sostituite, a queste ultime. Nessuna indicazione utile fornirebbero, peraltro, i lavori parlamentari, dai quali emergerebbe, anzi, l’estrema difficoltà di definire gli esatti confini della nuova fattispecie di illecito.

La formula in esame si rivelerebbe, quindi, del tutto inidonea a delimitare l’àmbito della responsabilità del magistrato, come invece esigerebbero i parametri costituzionali evocati. In effetti, erano state proprio la limitatezza e la tassatività delle ipotesi di colpa grave, originariamente prefigurate dalla legge n. 117 del 1988, ad indurre la Corte costituzionale ad escludere, con la sentenza n. 18 del 1989, che la loro previsione potesse compromettere la serenità e l’imparzialità di giudizio del giudice.

In difetto di una sufficiente tipizzazione, la nuova fattispecie offrirebbe, di contro, ampie possibilità di condizionare l’esercizio della funzione giurisdizionale: qualsiasi valutazione dei fatti o del materiale probatorio potrebbe essere, infatti, censurata semplicemente qualificandola come travisamento, con ulteriori ricadute negative in termini di ampliamento indefinito della possibilità di sindacato disciplinare sui provvedimenti giudiziari e di estrema incertezza sull’àmbito applicativo dell’azione obbligatoria di rivalsa.

Peraltro, nemmeno la sfera applicativa della clausola di salvaguardia –formalmente ribadita dall’art. 2, comma 1, lettera b), della legge n. 18 del 2015 – risulterebbe individuabile con esattezza relativamente all’attività di valutazione del fatto o delle prove, tanto da potersi dubitare che la clausola stessa conservi un reale spazio operativo. Sotto tale profilo, la norma da ultimo citata risulterebbe irragionevole e, quindi, in contrasto con l’art. 3 Cost.

1.3.– Il rimettente censura, altresì, l’art. 3, comma 2, della legge n. 18 del 2015, che, abrogando l’art. 5 della legge n. 117 del 1988, ha soppresso la fase preliminare del giudizio risarcitorio comunemente definita «filtro di ammissibilità».

In forza del citato art. 5, il tribunale investito di una domanda risarcitoria nei confronti dello Stato per fatto illecito del magistrato doveva deliberare, preventivamente e in tempi ristretti, sulla sua ammissibilità. A tal fine, il giudice istruttore doveva, alla prima udienza, rimettere le parti dinanzi al collegio, che era tenuto a decidere entro quaranta giorni dalla rimessione. La domanda era dichiarata inammissibile con decreto motivato quando non fossero stati rispettati i termini previsti a pena di decadenza per l’esercizio dell’azione o non sussistessero i presupposti stabiliti dagli artt. 2, 3 e 4 della stessa legge n. 117 del 1988, ovvero quando la domanda risultasse manifestamente infondata. Ove, invece, il tribunale avesse ritenuto la domanda ammissibile, doveva disporre la prosecuzione del giudizio e la trasmissione di copia degli atti al titolare dell’azione disciplinare.

Tale meccanismo – rileva il giudice a quo – perseguiva il duplice obiettivo di impedire la proliferazione di inutili giudizi di merito e, soprattutto, di tutelare «la serenità del singolo magistrato, che, al riparo da azioni pretestuose e temerarie, poteva veder limitato il peso dell’esposizione processuale a casi e tempi razionalmente circoscritti». In questa prospettiva, la Corte costituzionale aveva riconosciuto il «rilievo costituzionale» del filtro di ammissibilità, quale strumento di salvaguardia dei valori di autonomia e indipendenza della funzione giurisdizionale (sentenza n. 468 del 1990), rilevando anche come esso impedisse che si creassero con malizia i presupposti per l’astensione e la ricusazione (sentenza n. 18 del 1989).

Nell’abolire l’istituto, la disposizione censurata si porrebbe, quindi, in contrasto non solo con gli artt. 101, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost., ma anche con l’art. 25, primo comma, Cost. Proponendo una domanda risarcitoria palesemente infondata o inammissibile, la parte potrebbe, infatti, sottrarre il processo dal quale si assume danneggiata al giudice naturale che ne è investito, il quale – nel caso di instaurazione di un giudizio di responsabilità per provvedimenti a lui attribuiti – non potrebbe non ravvisare le gravi ragioni di convenienza per astenersi ai sensi dell’art. 51, secondo comma, cod. proc. civ., o dell’art. 36, comma 1, lettera h), del codice di procedura penale.

L’esposizione del giudice alle conseguenze ora indicate risulterebbe, altresì, protratta nel tempo, diversamente da quanto accadeva nel regime anteriore. Ogni giudizio di responsabilità, per quanto inammissibile, deve ora svolgersi nelle forme del giudizio ordinario di cognizione ed essere deciso con sentenza, soggetta ad impugnazione nei termini ordinari, molto più ampi di quelli previsti in precedenza per l’impugnazione del decreto di inammissibilità emesso ai sensi dell’art. 5 della legge n. 117 del 1988 (dieci giorni dalla comunicazione per l’appello, quaranta giorni per il ricorso per cassazione).

Non rappresenterebbero, d’altronde, una sufficiente remora alla proposizione di giudizi risarcitori temerari né la possibile applicazione – futura e remota – dell’istituto della responsabilità aggravata, previsto dall’art. 96 cod. proc. civ., né gli oneri relativi all’iscrizione a ruolo della causa, posto che, per effetto della modifica dell’art. 15 della legge n. 117 del 1988 disposta dall’art. 300, comma 6, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante il «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», i giudizi promossi ai sensi di detta legge sono esenti dal pagamento del contributo unificato.

L’eliminazione del filtro di ammissibilità si porrebbe in contrasto anche con l’art. 3 Cost., risultando contraddittoria rispetto alle scelte che lo stesso legislatore ha operato con riguardo al giudizio di appello e al giudizio di cassazione, in relazione ai quali sono stati viceversa recentemente introdotti meccanismi di filtro (artt. 342, primo comma, numero 2, 348-ter e 360-bis cod. proc. civ.).

1.4.– Il rimettente osserva, altresì, che, in correlazione all’abolizione del filtro di ammissibilità, l’art. 6 della legge n. 18 del 2015 ha soppresso l’inciso dell’art. 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988 che ricollegava l’inizio del procedimento disciplinare, per i fatti che avessero «dato causa all’azione di risarcimento», alla comunicazione, da parte del tribunale, del provvedimento che aveva dichiarato ammissibile la domanda. È rimasta, invece, invariata la parte della disposizione che obbliga il titolare dell’azione disciplinare a procedere per i predetti fatti.

In base alla nuova disciplina, pertanto, l’attore potrebbe rendere note al titolare dell’azione disciplinare le doglianze esposte nel giudizio risarcitorio, per quanto manifestamente infondate, costringendolo, per ciò solo, a promuovere l’azione disciplinare. Anche l’art. 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988, come novellato, si porrebbe, quindi, in contrasto con gli artt. 25, primo comma, 101, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost., consentendo ad una parte processuale di influire indebitamente sul corso del giudizio e sulla serenità del giudice, senza una preventiva verifica dei suoi assunti.

1.5.– Il Tribunale veronese sottopone, ancora, a scrutinio di legittimità costituzionale l’art. 4 della legge n. 15 del 2018, nella parte in cui, sostituendo l’art. 7, comma 1, della legge n. 117 del 1988, prevede che il Presidente del Consiglio dei ministri ha l’obbligo di esercitare l’azione di rivalsa nei confronti del magistrato.

La disposizione sottrarrebbe, infatti, al Presidente del Consiglio dei ministri il diritto di valutare la convenienza di detta azione, sulla base di un raffronto tra i costi del giudizio risarcitorio nei confronti dello Stato e quelli del giudizio nei confronti del magistrato, nonché delle probabilità di successo di quest’ultimo. In questo modo, essa violerebbe tanto l’art. 24, primo comma, Cost. – che, nel garantire il diritto di difesa, riconoscerebbe implicitamente anche il diritto di non agire in giudizio – quanto il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.). Al riguardo, si dovrebbe considerare che – diversamente da quanto accadeva nel sistema originario della legge n. 117 del 1988 – i presupposti per l’esercizio dell’azione nei confronti dello Stato non sono i medesimi dell’azione di rivalsa, occorrendo, per questa, che i comportamenti individuati dalla norma siano connotati da negligenza inescusabile. Il Presidente del Consiglio dei ministri si troverebbe, di conseguenza, a dover esercitare l’azione di rivalsa “al buio”, ossia senza che si sia avuta una positiva verifica dell’esistenza di quel presupposto.

Irragionevole apparirebbe anche l’assimilazione, operata dalla norma censurata, delle ipotesi del risarcimento sulla base di transazione e sulla base di sentenza di condanna, quali presupposti dell’esercizio dell’azione obbligatoria di rivalsa. Diversamente dalla condanna, la transazione sarebbe, infatti, frutto di una scelta discrezionale del Presidente del Consiglio dei ministri, basata su ragioni di convenienza: scelta che potrebbe risultare viziata da un errore di valutazione riguardo all’ammissibilità o alla fondatezza della domanda risarcitoria. Anche in tale evenienza, tuttavia, il magistrato subirebbe l’azione di rivalsa, destinata ad un insuccesso per lo Stato.

L’art. 3 Cost. risulterebbe violato anche sotto il profilo della ingiustificata disparità di trattamento dell’azione in discorso rispetto all’azione di regresso nei confronti degli altri dipendenti pubblici. Tale ultima azione – in base ai principi generali in tema di azione di garanzia personale (art. 1950 del codice civile), non derogati dall’art. 22, primo comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato) – non è, infatti, obbligatoria, pur presupponendo che nel giudizio nei confronti dello Stato sia stato accertato il dolo o la colpa grave del funzionario danneggiante: e ciò anche nel caso di transazione della lite, come si evincerebbe dal disposto dell’art. 30 del d.P.R. n. 3 del 1957.

La denunciata disparità di trattamento non potrebbe essere spiegata facendo leva sulla differente entità economica della rivalsa (limitata, per i magistrati, ad una somma pari alla metà dello stipendio annuale al momento in cui l’azione di risarcimento è proposta, ai sensi dell’art. 5 della legge n. 18 del 2015). Tale limitazione dovrebbe costituire, al contrario, un ulteriore motivo per rendere discrezionale l’azione di rivalsa contro il magistrato, posto che la ridotta entità della somma recuperabile potrebbe sconsigliare l’iniziativa.

1.6.– Da ultimo, il rimettente denuncia il contrasto con l’art. 81, terzo comma, Cost. dell’art. 2, comma 1, lettere a), b) e c), e dell’art. 4 della legge n. 18 del 2015, quest’ultimo nella parte in cui prevede che il Presidente del Consiglio dei ministri ha l’obbligo di esercitare l’azione di rivalsa nei confronti del magistrato.

La novella non indicherebbe, infatti, i mezzi per far fronte ai maggiori oneri derivanti, a carico dello Stato, dall’applicazione delle norme che ampliano le ipotesi di responsabilità (art. 2, comma 1, lettere b e c), di quella che riconosce la risarcibilità anche del danno non patrimoniale conseguente ad un atto o provvedimento del magistrato (art. 2, comma 1, lettera a) e di quella che prevede l’obbligatorietà dell’azione di rivalsa (art. 4, comma 2). Ciò, sebbene la stima di tali oneri fosse ben possibile sulla base dell’esperienza applicativa della legge n. 117 del 1988, come emerge dalla relazione al disegno di legge n. 1626, di iniziativa governativa, che conteneva, in effetti, una norma sulla copertura finanziaria (art. 4).

1.7.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate.

1.7.1.– La difesa dell’interveniente eccepisce, in via preliminare, l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza.

Le norme censurate verrebbero, infatti, in rilievo solo nell’ipotesi, teorica ed eventuale, in cui il giudice a quo adottasse un provvedimento errato con dolo o con colpa grave, costituenti il presupposto della responsabilità civile dei magistrati (o, meglio, della responsabilità dello Stato per l’attività dei magistrati). Si dovrebbe, inoltre, trattare di errore non emendabile tramite i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, al cui preventivo esaurimento è subordinata l’azione risarcitoria (art. 4, comma 2, della legge n. 117 del 1988). Le disposizioni in esame non avrebbero, pertanto, alcuna incidenza sulla decisione che il rimettente è chiamato ad assumere nel caso di specie, attinente alla concessione della provvisoria esecuzione di un decreto ingiuntivo: decisione che implica semplicemente la verifica del fumus della fondatezza dell’opposizione e dell’esistenza di eventuali vizi procedurali, e che è destinata, comunque sia, a rimanere assorbita dalla sentenza di merito.

Le questioni risulterebbero, dunque, formulate in termini astratti, facendo leva su ipotetici condizionamenti psicologici da ritenere inidonei, in relazione all’alta professionalità che caratterizza la funzione giurisdizionale del magistrato, ad influire sulla sua serenità di giudizio.

Del tutto privo di consistenza risulterebbe, altresì, l’argomento del rimettente basato sull’avvenuta introduzione, tra le ipotesi che possono dar luogo a responsabilità dello Stato e del magistrato, della fattispecie del «travisamento del fatto o delle prove». Sarebbe, infatti, evidente che, a prescindere dalla censurata innovazione, il giudice non debba, comunque sia, travisare i fatti di causa e le prove offerte dalle parti: senza considerare, poi, che, data la natura eclatante dell’ipotetico errore, esso sarebbe rimediabile dallo stesso giudice (in sede di revoca del provvedimento o di pronuncia della sentenza), ovvero dal giudice di appello, cui la questione andrebbe devoluta come motivo di impugnazione.

Il giudice a quo non avrebbe neppure prospettato l’esistenza di elementi di particolare complessità della materia del contendere sottoposta al suo esame, sicché, anche sotto tale profilo, l’ipotizzata “pericolosità” della nuova disciplina sulla responsabilità civile risulterebbe meramente astratta.

Ove si seguisse il ragionamento del rimettente, d’altro canto, ogni modifica della legge n. 117 del 1988 diverrebbe rilevante in tutti i giudizi – civili, penali e amministrativi – «con effetti distorsivi sul funzionamento dell’intero sistema giudiziario».

1.7.2.– Nel merito, le questioni sarebbero, in ogni caso, infondate.

Quanto all’inserimento dell’ipotesi del «travisamento del fatto o delle prove» tra i casi di colpa di grave, detta fattispecie presenterebbe – contrariamente a quanto sostenuto dal rimettente – i caratteri della «limitatezza» e della «tassatività», atti ad escludere la ventilata compromissione della serenità e imparzialità di giudizio del magistrato. L’ipotesi in discorso si porrebbe, infatti, al di fuori dell’attività valutativa cui fa riferimento la clausola di salvaguardia tuttora presente nell’art. 2, comma 2, della legge n. 117 del 1988 (in base alla quale «non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove»), rappresentandone un grave ed ingiustificato sviamento determinato da un errore di tale gravità da escluderne la scusabilità.

Pur in presenza di possibili «spazi di sovrapposizione» con il cosiddetto errore revocatorio – ossia con le ipotesi dell’affermazione di un fatto escluso e della negazione di un fatto risultante incontestabilmente dagli atti – il concetto di travisamento conserverebbe un proprio autonomo e definito àmbito di operatività. Il travisamento potrebbe, infatti, consistere non solo nella «“svista” rappresentativa» che integra l’errore revocatorio, ma anche nello stravolgimento del dato fattuale, dovuto ad una macroscopica omissione nella percezione di fatti secondari decisivi, ovvero della regola di inferenza logica applicata.

Nell’ottica di una interpretazione costituzionalmente orientata, il travisamento dovrebbe risultare, altresì, di assoluta evidenza: prospettiva nella quale la soluzione adottata dal legislatore si sottrarrebbe a censure anche sul piano della ragionevolezza.

1.7.3.– Quanto, poi, all’abrogazione del filtro di ammissibilità previsto dall’art. 5 della legge n. 117 del 1988, la ratio dell’intervento andrebbe rinvenuta nella volontà del legislatore – esplicitata nell’art. 1 della legge n. 18 del 2015 – di rendere effettiva la disciplina della responsabilità civile dello Stato e dei magistrati, anche alla luce dell’appartenenza dell’Italia all’Unione europea. Con l’eliminazione della fase del filtro, si è inteso consentire, in specie, l’accesso diretto del danneggiato all’azione risarcitoria, tenuto conto di quanto emerso nei ventisette anni di esperienza applicativa della legge n. 117 del 1988, durante i quali solo un esiguo numero di domande risarcitorie era approdato ad un esame nel merito a cognizione piena.

Non decisivi risulterebbero i richiami del rimettente alle affermazioni delle sentenze n. 468 del 1990 e n. 18 del 1989, circa il «rilievo» costituzionale del filtro, le quali non equivarrebbero al riconoscimento della sua indispensabilità. Al riguardo, si dovrebbe sempre tenere conto del fatto che l’azione del danneggiato è diretta contro lo Stato (unico legittimato passivo), essendo rimasta ferma, anche dopo la novella legislativa, l’impossibilità di agire direttamente contro il magistrato. Rientrerebbe, quindi, nella discrezionalità del legislatore regolare le modalità procedurali dell’azione di responsabilità, senza che le relative scelte incidano sul principio di autonomia e indipendenza della funzione giurisdizionale, adeguatamente salvaguardato dalla posizione differenziata del magistrato rispetto alla responsabilità dei pubblici dipendenti prevista dall’art. 28 Cost.

Le citate sentenze della Corte costituzionale sono state, d’altro canto, emesse all’indomani dell’entrata in vigore della legge n. 117 del 1988 e non potevano tener conto, quindi, né della concreta applicazione della legge da parte della giurisprudenza interna, né degli approdi della giurisprudenza comunitaria in punto di responsabilità dello Stato per l’esercizio delle funzioni giudiziarie (Corte di giustizia, 30 settembre 2003, causa C-224/01, Gerhard Köbler; Corte di giustizia, Grande Sezione, 12 giugno 2006, causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo; Corte di giustizia, 24 novembre 2011, causa C-379/10, Commissione contro Italia).

Privo di fondamento risulterebbe, inoltre, il timore che, in mancanza del filtro, possano trovare ingresso azioni palesemente inammissibili o infondate, idonee a provocare l’astensione del giudice o a minarne la serenità. L’azione risarcitoria si propone, infatti, contro lo Stato ed è prevista soltanto una facoltà di intervento volontario del magistrato del giudizio, con la conseguenza che non sussisterebbe un obbligo di astensione di quest’ultimo ai sensi dell’art. 51, primo comma, cod. proc. civ. (l’astensione per gravi ragioni di convenienza, prevista dal secondo comma dello stesso articolo, è meramente facoltativa ed è subordinata ad autorizzazione del capo dell’ufficio). Il magistrato non potrebbe, quindi, neppure essere ricusato dalla parte che si assume danneggiata, dato che la ricusazione può essere proposta solo nei casi in cui l’astensione è obbligatoria. La proposizione di cause pretestuose risulterebbe, per altro verso, scoraggiata dal meccanismo della «condanna aggravata» del litigante temerario, previsto dall’art. 96 cod. proc. civ.

Il paventato rischio della sovrapposizione temporale dei due giudizi – quello da cui deriva il presunto danno e quello di responsabilità – sussisteva, d’altronde, anche in presenza del filtro, posto che i termini di definizione di tale fase non erano perentori e che i decreti di inammissibilità erano soggetti a reclamo davanti alla corte d’appello e indi a ricorso per cassazione.

Quanto, infine, all’asserita contraddittorietà dell’eliminazione del filtro rispetto all’avvenuta introduzione di meccanismi processuali di valutazione semplificata dell’ammissibilità o della fondatezza in rapporto al giudizio di appello e al giudizio di cassazione, sarebbe sufficiente osservare che tali meccanismi attengono ai giudizi di impugnazione, mentre il filtro previsto dall’art. 5 della legge n. 117 del 1988 ineriva al giudizio di primo grado. La comparazione andrebbe semmai operata con le altre controversie disciplinate dal rito ordinario di cognizione davanti al tribunale in composizione collegiale, rispetto alle quali nessuna previa delibazione di ammissibilità è prevista.

1.7.4.– Riguardo alle censure inerenti alle ricadute dell’abolizione del filtro sull’azione disciplinare, risulterebbe assorbente il rilievo che, in precedenza, l’azione disciplinare non era affatto subordinata all’esito positivo della fase di filtro. L’art. 9 della legge n. 117 del 1988 prevedeva, infatti, che l’azione disciplinare fosse obbligatoriamente esercitata entro due mesi dalla comunicazione dell’ammissibilità della domanda, «salvo che non sia stata già proposta». Il superamento della fase di filtro rappresentava, dunque, un impulso obbligatorio all’azione disciplinare, ma non una condizione di ammissibilità della stessa.

L’art. 6 della legge n. 18 del 2015 si sarebbe limitato a modificare il citato art. 9 della legge n. 117 del 1988 per renderlo coerente con l’abolizione del filtro, non avendo più senso, dopo di questa, la ricordata previsione relativa al termine di attivazione del procedimento disciplinare.

Il timore di procedimenti disciplinari di fronte a domande manifestamente infondate non avrebbe, quindi, ragion d’essere, posto che simili procedimenti si concluderebbero con un’archiviazione.

1.7.5.– Per quel che attiene all’obbligatorietà dell’azione di rivalsa nei confronti del magistrato, la difesa dell’interveniente osserva come già nella previgente disciplina la doverosità dell’azione di rivalsa apparisse indubbia, alla luce delle previsioni degli artt. 7, comma 1, e 8, commi 1 e 2, della legge n. 117 del 1988. Non avrebbe avuto senso, infatti, far carico allo Stato di valutare se agire o meno in ripetizione di quanto corrisposto a causa dell’errore del magistrato (peraltro entro i limiti di responsabilità previsti dall’art. 8 di detta legge).

Sarebbe, d’altra parte, arduo ipotizzare casi di manifesti errori di diritto, gravi violazioni di legge o travisamenti dei fatti o delle prove idonei a determinare una condanna dello Stato, ma non ad integrare la negligenza inescusabile del magistrato.

Nessun pregio avrebbe, altresì, l’assunto del rimettente, secondo il quale l’obbligo di rivalsa sarebbe ingiustificato nel caso di transazione tra lo Stato e il danneggiato, essendo evidente che il Presidente del Consiglio dei ministri non concluderebbe mai delle transazioni su cause manifestamente infondate, con sicuro insuccesso, poi, dell’azione di rivalsa.

Nessuna irragionevole disparità di trattamento sarebbe poi ravvisabile rispetto agli altri dipendenti pubblici, la cui posizione è palesemente diversa da quella dei magistrati, potendo i primi essere convenuti direttamente in giudizio dai danneggiati senza alcuna limitazione della responsabilità dal punto di vista economico.

1.7.6.– Quanto, infine, alla censura relativa alla mancata previsione dei mezzi di copertura finanziaria dei maggiori oneri derivanti dall’ampliamento delle ipotesi di responsabilità, essa risulterebbe generica e assiomatica, basandosi su una stima del tutto ipotetica dell’impatto delle nuove disposizioni in termini di aumento delle cause contro lo Stato.

2. – Con ordinanza dell’8 maggio 2015 (r.o. n. 218 del 2015), il Tribunale ordinario di Treviso ha sollevato questioni di legittimità costituzionale:

a) dell’art. 7 della legge n. 117 del 1988, nella parte in cui non prevede che «non può dar luogo a responsabilità personale del singolo magistrato l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove in tutti i casi di azione di rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato stesso», per contrasto con gli artt. 101, secondo comma, e 104, primo comma, Cost.;

b) dell’art. 3, comma 2, della legge n. 18 del 2015, nonché degli artt. «4 e/o 7» della legge n. 117 del 1988, come modificati dalla legge n. 18 del 2015, nella parte in cui «non prevedono che il Tribunale competente a decidere sull’azione di risarcimento proposta contro lo Stato e/o il Tribunale competente a decidere sull’azione di rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato verifichi con rito camerale la non manifesta infondatezza della domanda ai fini della sua ammissibilità», per contrasto con gli artt. 25, 101, 104 e 113 Cost.;

c) dell’art. 8, comma 3, della legge n. 117 del 1988, come sostituito dall’art. 5 della legge n. 18 del 2015, «nella parte in cui prevede che l’esecuzione della rivalsa nei confronti del magistrato, quando viene effettuata mediante trattenuta sullo stipendio, può comportare il pagamento per rate mensili fino ad un importo corrispondente ad un terzo, anziché ad un quinto, dello stipendio netto», per contrasto con gli artt. 3 e «101 e seguenti» Cost.

2.1.– Il giudice a quo premette di essere investito del processo penale nei confronti di una persona imputata del reato di illegale detenzione, nel territorio dello Stato, di un rilevante quantitativo di tabacco lavorato estero.

Riferisce, altresì, che, alla luce delle risultanze dell’istruzione dibattimentale, l’esito del giudizio dipenderebbe da un’unica questione: se si possa, cioè, ritenere provato che l’imputato sapesse che all’interno di un capannone da lui locato era custodito il tabacco di cui al capo di imputazione. Sul punto non sarebbero state acquisite prove dirette, ma solo semplici elementi indiziari. La valutazione di elementi di tal fatta risulterebbe, tuttavia, sempre particolarmente difficile e “rischiosa”, tanto che lo stesso legislatore ha subordinato la possibilità di desumere un fatto da indizi ai requisiti della gravità, precisione e concordanza di questi ultimi (art. 192 cod. proc. pen.).

Proprio nei procedimenti nei quali i risultati probatori sono meramente indiziari – e, dunque, di più problematico apprezzamento – si manifesterebbero i riflessi negativi della nuova disciplina della responsabilità civile dei magistrati introdotta con la legge n. 18 del 2015. Alcune previsioni della novella inciderebbero, infatti, sul principio del libero convincimento del giudice, il quale, per essere indipendente, deve poter valutare le prove senza temere conseguenze negative secondo l’esito del suo giudizio. La nuova disciplina, di contro, esporrebbe il giudice alle pressioni delle parti e, prevedendo come possibile fonte di responsabilità civile anche la valutazione dei fatti e delle prove, minerebbe «il cuore dell’attività giurisdizionale». Di fronte alla prospettiva di una responsabilità per danni, il giudice sarebbe portato, «per forza di cose», soprattutto nei casi più difficili, ad assumere la decisione per lui meno “rischiosa”: decisione che, nel processo penale, si identifica quasi sempre nell’assoluzione dell’imputato.

Le questioni sarebbero, dunque, rilevanti, in quanto le norme censurate inciderebbero, nei sensi indicati, anche sulla valutazione che il rimettente è chiamato ad operare nel giudizio a quo: conclusione che troverebbe, d’altra parte, puntuale conforto nelle indicazioni della sentenza della Corte costituzionale n. 18 del 1989 in precedenza ricordate.

2.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo dubita, in primo luogo, della legittimità costituzionale dell’art. 7 della legge n. 117 del 1988, come sostituito dall’art. 4 della legge n. 18 del 2015, nella parte in cui non prevede che «non può dar luogo a responsabilità personale del singolo magistrato l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove in tutti i casi di azione di rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato stesso».

Il rimettente rileva come la novella del 2015, nel sostituire il comma 2 dell’art. 2 della legge n. 117 del 1988, abbia mantenuto fermo solo formalmente il principio per cui «nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quelle di valutazione del fatto e delle prove». La nuova disposizione si apre, infatti, con una «eccezione totalizzante» («fatti salvi i commi 3 e 3-bis ed i casi di dolo»), per effetto della quale la clausola di salvaguardia non opera in tutti i casi di colpa grave in cui scatta la responsabilità dello Stato e, in sede di rivalsa, del magistrato: sicché, nella sostanza – secondo il giudice a quo – «è come se la clausola non ci fosse».

Rendere civilmente responsabile il giudice pure per la sua attività di interpretazione di norme giuridiche e di valutazione del fatto e delle prove comporterebbe, peraltro, una evidente lesione dei principi di soggezione del giudice solo alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.) e di indipendenza della magistratura (art. 104, primo comma, Cost.). Un simile regime genererebbe, infatti, il concreto pericolo che il giudice sia portato a preferire, tra due opzioni ermeneutiche o tra due ricostruzioni probatorie dei fatti, quella che appare meno rischiosa sul piano di una eventuale responsabilità risarcitoria, tenuto conto anche del “peso” delle parti in causa. Sul piano interpretativo, inoltre, il giudice sarebbe indotto – sempre per limitare i rischi – ad uniformarsi agli indirizzi della Corte di cassazione e della giurisprudenza europea, con una surrettizia elusione della regola, desumibile dal citato art. 101, secondo comma, Cost., che esclude l’efficacia vincolante dei precedenti giurisprudenziali.

Al fine di rendere conforme a Costituzione la nuova disciplina, sarebbe necessario – secondo il rimettente – reintrodurre la clausola di salvaguardia in rapporto all’azione di rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato: operazione che risulterebbe pienamente rispettosa delle indicazioni della Corte di giustizia dell’Unione europea, che hanno costituito il principale stimolo alla riforma. È ben vero, infatti, che la Corte di Lussemburgo ha ritenuto incompatibile con il diritto comunitario l’esclusione della responsabilità civile nei casi in cui il danno connesso all’esercizio di funzioni giudiziarie sia dovuto ad una errata interpretazione di norme di diritto o ad una errata valutazione del fatto o delle prove (sentenza 13 giugno 2006, causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo), ma tale affermazione – come precisato espressamente dalla sentenza 30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler – si riferisce solo alla responsabilità dello Stato, e non anche alla responsabilità personale del magistrato. Alcuni passaggi delle pronunce della Corte di giustizia parrebbero, anzi, evocare necessari limiti alla responsabilità personale del giudice.

2.3.– Il Tribunale trevigiano dubita, in secondo luogo, della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, della legge n. 18 del 2015, che, abrogando l’art. 5 della legge n. 117 del 1988, ha eliminato qualunque filtro sulla domanda risarcitoria, nonché degli artt. «4 e/o 7» della legge n. 117 del 1988, come riformulati, «nella parte in cui non prevedono, per l’appunto, alcun meccanismo di filtro volto a delibare la manifesta infondatezza della domanda di risarcimento».

Il rimettente denuncia innanzitutto il contrasto delle norme censurate con gli artt. 101, 104 e 113 Cost., ricordando come il «rilievo costituzionale» del meccanismo di filtro – quale strumento di salvaguardia dei valori dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura – fosse stato specificamente affermato dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 468 del 1990 e n. 18 del 1989. Il filtro apparirebbe, peraltro, ancora più necessario nel nuovo regime, essendo tutt’altro che remota la possibilità che l’azione di responsabilità venga esercitata quando il giudizio in cui si sarebbe verificato il danno pende ancora dinanzi al giudice “accusato” dell’illecito civile. È vero, infatti, che l’art. 4, comma 2, della legge n. 117 del 1988, come novellato, subordina l’esercizio dell’azione risarcitoria contro lo Stato all’esperimento dei mezzi ordinari di impugnazione o dei rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, ovvero – se tali rimedi non sono previsti – all’esaurimento del grado di giudizio nell’àmbito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno. Il successivo comma 3 aggiunge, tuttavia, che «l’azione può essere esercitata decorsi tre anni dalla data del fatto che ha cagionato il danno se in tal termine non si è concluso il grado del procedimento nell’ambito del quale il fatto stesso si è verificato».

La possibile sovrapposizione dei due giudizi – quello che si assume produttivo di danno e quello risarcitorio – provocherebbe, peraltro, un «grave “cortocircuito giudiziario”», che aprirebbe la strada a ricusazioni e astensioni, con conseguente lesione anche del principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 25 Cost.).

Il rimettente lascia alla Corte costituzionale il compito di stabilire se, ai fini della tutela dei valori costituzionali evocati, il filtro debba riguardare, ab origine, la domanda di risarcimento proposta dal danneggiato contro lo Stato oppure la successiva domanda di rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato.

2.4.– Il giudice a quo censura, infine, l’art. 8, comma 3, della legge n. 117 del 1988, come sostituito dall’art. 5 della legge n. 18 del 2015, «nella parte in cui prevede che l’esecuzione della rivalsa da parte dello Stato nei confronti del magistrato, quando viene effettuata mediante trattenuta sullo stipendio, può comportare il pagamento per rate mensili fino ad un importo corrispondente ad un terzo dello stipendio».

Il rimettente rileva come la norma tratti i magistrati in modo deteriore rispetto a tutti gli altri dipendenti pubblici, i cui emolumenti – in forza dell’art. 2 del d.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180 (Approvazione del testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti dalle Pubbliche Amministrazioni) e dell’art. 33, ottavo comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato) – possono formare oggetto di sequestro e di pignoramento solo nei limiti del quinto del rateo mensile.

Tale disparità di trattamento, oltre a violare anch’essa gli artt. «101 e seguenti» Cost., togliendo serenità al magistrato, si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., risultando priva di ogni ragionevole giustificazione. Quest’ultima non potrebbe essere rinvenuta, in specie, nell’ammontare dello stipendio, essendovi notoriamente dipendenti pubblici che percepiscono stipendi più elevati di quello dei magistrati.

2.5.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dell’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza sulla base di considerazioni analoghe a quelle svolte in rapporto all’ordinanza r.o. n. 198 del 2015, contestandone, in ogni caso, la fondatezza nel merito.

Quanto alle questioni aventi ad oggetto l’art. 7 della legge n. 117 del 1988, la difesa dell’interveniente rileva che la cosiddetta clausola di salvaguardia non è stata eliminata dal legislatore, ma solo ridisegnata anche al fine di renderla conforme alle pronunce della Corte di giustizia dell’Unione europea. L’«erosione» della clausola sarebbe stata, d’altra parte, ragionevolmente circoscritta ai casi di «manifesto e ingiustificato esercizio non corretto dell’attività di interpretazione delle norme e di valutazione dei fatti e delle prove».

Infondate sarebbero anche le questioni inerenti all’abolizione del filtro di ammissibilità, previsto dall’art. 5 della legge n. 117 del 1988, per le stesse ragioni indicate in rapporto all’ordinanza r.o. n. 198 del 2015. Con particolare riguardo all’assunto del rimettente, secondo il quale la Corte costituzionale dovrebbe valutare se il filtro sia indispensabile in relazione alla causa contro lo Stato ovvero solo per l’azione di rivalsa, l’Avvocatura generale dello Stato aggiunge che la presenza del filtro nell’azione di rivalsa non avrebbe, in realtà, alcun senso, tanto da non essere prevista neppure nella previgente disciplina.

Quanto, infine, alle questioni inerenti alla misura della rivalsa, nel caso di esecuzione mediante trattenuta sullo stipendio, le posizioni poste a confronto dal rimettente – quella del magistrato e quella degli altri dipendenti pubblici – sarebbero palesemente diverse e non comparabili.

3.– Con ordinanza del 6 febbraio 2016 (r.o. n. 113 del 2016), il Tribunale ordinario di Catania ha sollevato questioni di legittimità costituzionale:

a) dell’art. 7 della legge n. 117 del 1988, come sostituito dall’art. 4, comma 1, della legge n. 18 del 2015, nella parte in cui prevede che l’azione di rivalsa sia esperibile anche nelle ipotesi di ritenuto «travisamento del fatto o delle prove di cui all’art. 2, commi 2, 3», per contrasto con gli artt. 3, 24, 28 e «101-113» Cost.;

b) dell’art. 3, comma 2, della legge n. 18 del 2015, che ha abrogato l’art. 5 della legge n. 117 del 1988, per contrasto con gli artt. 3 e «101-113» Cost.;

c) dell’art. 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988, come modificato dall’art. 6, comma 1, della legge n. 18 del 2015, nella parte in cui prevede l’obbligo del titolare dell’azione disciplinare di procedere nei confronti del magistrato per i fatti che hanno dato causa all’azione di risarcimento, a seguito della proposizione dell’azione risarcitoria, indipendentemente dall’esito della domanda, per contrasto con gli artt. 3, e «101-113» Cost.;

d) dell’art. 4, comma 3, della legge n. 117 del 1988, per contrasto con gli artt. 3 e «101-113» Cost.;

e) dell’art. 8, comma 3, della legge n. 117 del 1988, come sostituito dall’art. 5, comma 1, della legge n. 18 del 2015, nella parte in cui prevede che la rivalsa, ove effettuata mediante trattenuta sullo stipendio, possa comportare il pagamento per rate mensili fino ad importo corrispondente ad un terzo dello stipendio netto, anziché ad un quinto, per contrasto con gli artt. 3, 101 e 111 Cost.

3.1.– Il giudice a quo riferisce di essere investito dell’opposizione proposta da un datore di lavoro avverso l’ordinanza – emessa dallo stesso Tribunale, nella medesima composizione monocratica – con la quale, in parziale accoglimento del ricorso proposto da una lavoratrice contro il licenziamento per giusta causa, era stata disposta la reintegrazione della medesima nel posto di lavoro a norma dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento).

L’ordinanza opposta, pur dando atto dell’esistenza di elementi indiziari a carico della lavoratrice, li aveva ritenuti non sufficienti per considerare provati gli addebiti a questa mossi (impossessamento illecito di beni commercializzati dal datore di lavoro), per difetto dei caratteri dell’univocità e della concordanza (art. 2729 cod. civ.).

L’opponente aveva censurato aspramente l’ordinanza, sostenendo che essa avesse disatteso risultanze decisive dell’istruttoria con affermazioni contrarie «alla logica e al buon senso, prima ancora che ai principi di diritto», dovendo l’ordinanza stessa, «all’evidenza», «smontare tutte le prove raccolte per dar credito alla tesi dell’opposta».

Alla prima udienza di discussione, lo stesso opponente, rilevata l’identità fisica tra il giudice della fase sommaria e il giudice dell’opposizione, aveva proposto istanza di ricusazione ai sensi dell’art. 51, numero 4), cod. proc. civ.: istanza rigettata, tuttavia, dal collegio, sul rilievo che la fase di opposizione, prevista dall’art. 1, comma 51, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), non costituisce un giudizio di impugnazione, ma un giudizio ordinario di cognizione in materia di lavoro.

Riassunta la causa, le parti avevano chiesto un rinvio per la discussione, ritenendo esaustiva l’istruttoria già espletata nella fase sommaria. Nelle more, era entrata, peraltro, in vigore la legge n. 18 del 2015.

Tanto premesso, il rimettente rileva come l’oggetto del giudizio di cui è investito sia costituito dalla conferma, o meno, della decisione assunta nella fase preliminare, sulla base di una nuova valutazione dello stesso materiale probatorio. Rileva, altresì, come i vizi che l’opponente addebita all’ordinanza opposta possano essere ricondotti alla nozione, particolarmente generica, di «travisamento del fatto o delle prove». Sarebbe, quindi, del tutto verosimile che il medesimo addebito verrebbe mosso dalla parte opponente alla decisione di conferma del provvedimento. La stessa lavoratrice, peraltro, in caso di accoglimento delle tesi avversarie, potrebbe a sua volta ravvisare un omologo vizio. Sussisterebbe, dunque, la «reale e tangibile probabilità» che qualsiasi decisione possa essere contestata «per ritenuto “travisamento del fatto o delle prove”»: ipotesi, questa, oggi rientrante nei casi di «colpa grave», costituenti presupposto tanto dell’azione risarcitoria nei confronti dello Stato per i danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, quanto della successiva azione di rivalsa nei confronti del magistrato.

La novella legislativa del 2015 ha anche stabilito che l’azione risarcitoria dia subito luogo ad un giudizio a cognizione piena, essendo stato abolito il filtro di ammissibilità già previsto dall’art. 5 della legge n. 117 del 1988; che il titolare dell’azione disciplinare debba attivarsi indipendentemente da un esito della domanda risarcitoria; che la misura delle somme ripetibili dallo Stato attraverso la trattenuta sullo stipendio del magistrato sia elevata ad un terzo (art. 8 della legge n. 117 del 1988, come novellato); che l’azione risarcitoria, decorsi tre anni, sia esperibile ove il grado di giudizio nel quale il fatto si è verificato non risulti esaurito (art. 4, comma 3, della legge n. 117 del 1988, come novellato).

Tale complesso di disposizioni sarebbe direttamente rilevante nel giudizio a quo – considerati i termini della controversia – in quanto idoneo a pregiudicare la serenità del giudizio, l’imparzialità ed il libero convincimento di esso rimettente: il timore di poter subire svantaggi – anche solo sul piano dell’esigenza di svolgere «una considerevole attività difensiva» – potrebbe indurre, infatti, il giudice, «anche inconsapevolmente o in maniera del tutto istintiva, ad adottare una decisione, anziché un’altra, non perché ritenuta più corretta […], ma solo perché, per lui, meno rischiosa».

Né varrebbe obiettare che la decisione emananda è suscettibile di impugnazione, posto che, nel caso di conferma della sentenza nei successivi gradi di giudizio, l’eventuale domanda risarcitoria riguarderebbe, comunque sia, anche e innanzitutto, l’operato del giudice di primo grado.

Le conclusioni ora esposte sarebbero, d’altronde, conformi – anche secondo il Tribunale di ordinario di Catania – alle affermazioni contenute nella sentenza n. 18 del 1989 della Corte costituzionale.

3.2.– Ciò posto, il giudice a quo dubita, anzitutto, della legittimità costituzionale dell’art. 7 della legge n. 117 del 1988, come sostituito dall’art. 4, comma 1, della legge n. 18 del 2015, nella parte in cui prevede che l’azione di rivalsa sia esperibile anche nelle ipotesi di ritenuto «travisamento del fatto o delle prove di cui all’art. 2, commi 2, 3».

Ad avviso del rimettente, la disposizione violerebbe l’art. 3 Cost., riducendo irragionevolmente, se non addirittura eliminando, «il carattere tassativo delle ipotesi per le quali il magistrato, nell’attività di valutazione del fatto o delle prove, può essere convenuto civilmente in sede di rivalsa»: carattere di fronte al quale la giurisprudenza costituzionale (e, in particolare, la sentenza n. 18 del 1989) aveva escluso che l’originario impianto della legge n. 117 del 1988 si esponesse a rilievi sul piano della legittimità costituzionale.

La formula «travisamento del fatto o delle prove» – evidentemente non riferibile alle ipotesi dell’affermazione o della negazione di un fatto incontrastabilmente escluso o emergente dagli atti del procedimento, già originariamente contemplate dalla legge n. 117 del 1988 e da essa tuttora menzionate – risulterebbe, infatti, generica ed ambigua, apparendo idonea a ricomprendere un numero indefinito di casi e prestandosi, perciò, a letture soggettive e opinabili.

L’ipotesi di responsabilità in questione rischierebbe, quindi, di instaurare «una sorta di “contro-processo”», sovrapponendo al giudizio del giudice naturale precostituito per la definizione della controversia quello di altro giudice, con sostanziale soppressione della clausola di salvaguardia pure formalmente ribadita dall’art. 2, comma 2, della legge n. 117 del 1988, volta a tutelare «l’indipendenza del giudice nel cuore della propria attività» (quella di valutazione del fatto e delle prove).

La norma censurata violerebbe anche il «principio di legalità» desumibile dalle previsioni degli artt. 28 e 101 Cost., in forza del quale dovrebbe essere il legislatore a stabilire in quali casi il giudice è civilmente responsabile. Con l’adozione di formule così generiche quale quella censurata, il predetto compito verrebbe, di fatto, delegato al giudice dell’azione risarcitoria, con conseguente rischio di affermazioni di responsabilità basate semplicemente sulla mancata condivisione dei criteri valutativi e interpretativi applicati nel giudizio che si assume produttivo di danno.

Sarebbero violati, ancora, i principi di indipendenza ed autonomia del giudice «di cui agli artt. 101-113 Cost.». La mera possibilità che il giudice sia sottoposto ad azione di rivalsa per aver “travisato” il materiale probatorio o il fatto genera il pericolo che egli sia indotto a scegliere, tra più opzioni disponibili, non quella ritenuta più giusta, ma quella che appare «meno rischiosa», favorendo così – in contrasto con il principio del libero convincimento – «atteggiamenti remissivi o conformisti».

In questo modo, il giudice verrebbe anche privato – in contrasto con l’art. 111 Cost. – della sua terzietà, perdendo la propria necessaria “indifferenza” rispetto alle parti e alla causa. Il timore di pregiudizi personali lo porterebbe, infatti, «istintivamente» ad adottare soluzioni “accomodanti”, tanto più quando taluna delle parti vanti particolari risorse economiche od ostenti «atteggiamenti audaci ovvero velatamente minacciosi».

Il pericolo di condizionamenti non è escluso dal fatto che, in base alla norma denunciata, l’azione di rivalsa deve essere esercitata solo se il travisamento del fatto o delle prove siano stati determinati da dolo o da «negligenza inescusabile». Tale condizione non è, infatti, prevista dall’art. 2, comma 3, della legge n. 117 del 1988, nel testo vigente, ai fini della proponibilità dell’azione risarcitoria nei confronti dello Stato. Di conseguenza, il mero risarcimento del danno per ritenuto travisamento assoggetterebbe il giudice alla decisione del Presidente del Consiglio dei ministri di attivare l’azione di rivalsa, potendo ogni ulteriore valutazione dell’elemento soggettivo rilevare in tale sede. In ogni caso, il presunto travisamento potrebbe attenere ad una attività di valutazione che il giudice ha svolto con perfetta consapevolezza, nell’adempimento del suo dovere di decidere secondo il proprio convincimento: sicché egli potrebbe essere chiamato a rispondere addirittura per aver travisato il fatto con dolo.

Per superare gli esposti rilievi non si potrebbe far leva sugli indirizzi della giurisprudenza comunitaria, secondo i quali l’esclusione della responsabilità civile, nei casi di danno determinato da un’errata interpretazione di norme di diritto o di valutazione del fatto o delle prove, non è compatibile con il diritto dell’Unione europea. L’affermazione riguarda, infatti, la sola responsabilità dello Stato e non investe la responsabilità del singolo giudice, rispetto alla quale, anzi, lo stesso Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa – con la raccomandazione CM/Rec(2010) 12 del 17 novembre 2010 – ha sollecitato gli Stati aderenti ad evitare aggravamenti suscettibili di minacciare un esercizio della funzione giurisdizionale conforme ai principi dello Stato di diritto. Le limitazioni apposte dalla legge n. 18 del 2015 alla clausola di salvaguardia («Fatti salvi i commi 3 e 3-bis») sarebbero quindi giustificabili in rapporto alla responsabilità dello Stato, ma non in relazione alla responsabilità del giudice.

3.3.– Il Tribunale etneo dubita, altresì, della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, della legge n. 18 del 2015, che abroga l’art. 5 della legge n. 117 del 1988.

L’eliminazione, «senza […] appositi bilanciamenti», del filtro di ammissibilità sulla domanda risarcitoria previsto dalla norma abrogata violerebbe i principi di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e di indipendenza e autonomia della magistratura (artt. «101-113» Cost.). In occasione dello scrutinio dell’impianto originario della legge n. 117 del 1988, la Corte costituzionale aveva, infatti, posto in rilievo come il meccanismo fosse indispensabile al fine di garantire i valori costituzionali evocati, ponendo al riparo il magistrato da azioni temerarie e intimidatorie (sentenze n. 468 del 1990 e n. 18 del 1989).

La soppressione del filtro non potrebbe essere logicamente giustificata con la supposizione che l’istituto abbia favorito, in passato, atteggiamenti «di tipo corporativo», posto che analoghi atteggiamenti potrebbero, comunque sia, manifestarsi, dopo la sua scomparsa, nelle sedi di merito. L’intervento sarebbe contrario, per converso, alle esigenze di deflazione e di efficienza del sistema, creando fenomeni di congestione degli uffici giudiziari competenti sulle domande risarcitorie.

Nell’attuale sistema, d’altro canto, qualsiasi domanda risarcitoria, indipendentemente dalla sua fondatezza, esporrebbe il giudice a pregiudizi di carattere non patrimoniale, dovendo egli preoccuparsi di predisporre un’adeguata difesa, eventualmente già come interveniente nel giudizio risarcitorio ai sensi dell’art. 6 della legge n. 117 del 1988. Di qui un ulteriore possibile stimolo a scelte accomodanti e arrendevoli.

3.4.– Il rimettente censura ancora, per violazione dei medesimi parametri costituzionali, l’art. 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988, come sostituito dall’art. 6, comma 1, della legge n. 18 del 2015, nella parte in cui prevede l’obbligo del titolare dell’azione disciplinare di procedere nei confronti del magistrato per i fatti che hanno dato causa all’azione di risarcimento, a seguito della mera proposizione di quest’ultima, indipendentemente dall’esito della domanda.

Tale modifica – conseguente alla soppressione del filtro di ammissibilità – violerebbe anch’essa i principi di indipendenza, terzietà ed imparzialità del giudice, facendo sì che quest’ultimo possa risultare esposto contemporaneamente, a seguito della mera proposizione della domanda risarcitoria, «a più oneri difensivi, sia in sede risarcitoria che in sede disciplinare, anche in chiave meramente preventiva», con conseguenti rischi di condizionamento della sua serenità di giudizio.

La norma violerebbe, altresì, l’art. 3 Cost., apparendo irragionevole imporre l’avvio del procedimento disciplinare a prescindere da ogni valutazione di fondatezza della domanda risarcitoria, con il risultato di provocare intuibili disfunzioni sia presso l’ufficio del giudice coinvolto (le cui energie verrebbero distolte dall’esigenza di curare le proprie difese), sia presso l’ufficio titolare dell’azione disciplinare.

3.5.– Il rimettente ventila, poi, l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, della legge n. 117 del 1988, ove si stabilisce – in deroga alla regola generale enunciata dal comma 2 dello stesso articolo – che l’azione risarcitoria può essere esercitata decorsi tre anni dalla data del fatto che ha cagionato il danno, se in tale termine non si è concluso il grado del procedimento nell’àmbito del quale il fatto stesso si è verificato.

La norma denunciata violerebbe gli artt. 3 e «101-113» Cost., in quanto idonea «a turbare la serenità, l’indipendenza e, dunque, l’imparzialità del giudice». Questi, nell’ipotesi di prolungamento del giudizio nel medesimo grado oltre i tre anni, potrebbe, infatti, veder promossa un’azione risarcitoria riferita ad un proprio provvedimento interinale, pur essendo ancora investito della causa. In questo modo, la serenità del giudicante – chiamato a confermare le valutazioni interinali cui è riferita la domanda risarcitoria – risulterebbe del tutto compromessa. Il condizionamento dell’autonomia di giudizio – acuito dall’avvenuta abolizione del filtro di ammissibilità su detta domanda – potrebbe, peraltro, estendersi anche al giudice del grado successivo, chiamato a verificare la correttezza dell’operato del primo giudice.

La soluzione costituzionalmente corretta – anche in un’ottica di bilanciamento degli interessi contrapposti – sarebbe, per converso, quella di differire, in ogni caso, l’esperibilità dell’azione risarcitoria al momento in cui il provvedimento che si assume dannoso non sia più modificabile.

3.6.– Con i medesimi parametri costituzionali si porrebbe in contrasto, da ultimo, anche l’art. 8, comma 3, della legge n. 117 del 1988, come sostituito dall’art. 5, comma 1, della legge n. 18 del 2015, nella parte in cui prevede che la rivalsa, ove effettuata mediante trattenuta sullo stipendio, possa comportare il pagamento per rate mensili fino ad un importo corrispondente ad un terzo dello stipendio netto, anziché ad un quinto.

La norma censurata discriminerebbe, infatti, irragionevolmente i magistrati rispetto agli altri dipendenti pubblici – le cui retribuzioni, a mente degli artt. 2 del d.P.R. n. 180 del 1950 e 3, ottavo comma, del d.P.R. n. 3 del 1957, sono sequestrabili e pignorabili solo fino a concorrenza di un quinto – perturbando, una volta ancora, con il timore di una così rilevante compressione dei propri emolumenti, il sereno svolgimento delle loro funzioni.

3.7.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, eccependo l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza, sulla base di considerazioni analoghe a quelle già svolte in rapporto alle precedenti ordinanze di rimessione.

Le questioni sarebbero, in ogni caso, infondate.

Con riguardo alle prime tre delle cinque norme censurate, la difesa dell’interveniente ripropone argomenti similari a quelli prospettati nei precedenti atti di intervento. In particolare, con riguardo alle questioni concernenti l’art. 7 della legge n. 117 del 1988, ribadisce che il concetto di «travisamento» non sarebbe affatto ambiguo e generico e, soprattutto, esulerebbe dall’àmbito dell’attività valutativa, rappresentandone un grave e ingiustificato sviamento. La circostanza, poi, che l’azione di rivalsa presupponga, a mente della disposizione censurata, il dolo o la negligenza inescusabile del magistrato escluderebbe senz’altro il rischio che questi possa essere chiamato a rispondere civilmente per la mera «non condivisione» dei criteri valutativi e interpretativi da lui applicati. Del tutto infondato sarebbe, altresì, l’assunto del rimettente stando al quale la consapevole scelta della decisione da parte del giudice potrebbe addirittura integrare il «dolo». Quest’ultimo si configurerebbe, infatti, solo nei casi di scelte contra legem perché frutto di interessi o di accordi illeciti, e non perché si tratti di scelte «consapevoli».

Riguardo, poi, alle questioni che investono l’art. 4, comma 3, della legge n. 117 del 1988, l’Avvocatura generale dello Stato rileva come sia comprensibile e ragionevole che, a tutela del danneggiato, sia prevista la possibilità di agire per il risarcimento quando il grado di giudizio non si sia concluso nel termine di tre anni. Il riconoscimento di tale facoltà – peraltro di rara esplicazione pratica – trova, infatti, giustificazione nella irragionevole durata del grado del procedimento in cui si è verificato il fatto dannoso. La circostanza che penda una causa risarcitoria contro lo Stato non dovrebbe, d’altra parte, in alcun modo intaccare la serenità di giudizio del magistrato che ha operato secondo diligenza.

Infondate, da ultimo, risulterebbero anche le questioni relative all’esecuzione della rivalsa, per le stesse ragioni già indicate in rapporto alle omologhe questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Treviso.

4.– Con ordinanza del 25 febbraio 2016 (r.o. n. 126 del 2016), il Tribunale ordinario di Enna ha sollevato questioni di legittimità costituzionale:

a) dell’art. 2, comma 3, della legge n. 117 del 1988, come sostituito dall’art. 2, comma 1, lettera c), della legge n. 18 del 2015, nella parte in cui, secondo il diritto vivente, configurerebbe come «colpa grave» del magistrato, per «violazione manifesta del diritto», l’adozione di un’interpretazione di norme di diritto contrastante con quella adottata dalla Corte costituzionale in una pronuncia interpretativa di rigetto, resa in un diverso processo, per violazione degli artt. 101, secondo comma, 104, primo comma, 107, terzo comma, e 134 Cost.;

b) dell’art. 2, comma 2, della legge n. 117 del 1988, come sostituito dall’art. 2, comma 1, lettera b), della legge n. 18 del 2015, nella parte in cui, secondo il diritto vivente, non estenderebbe la clausola di esclusione della responsabilità per l’«interpretazione delle norme di diritto» anche all’ipotesi in cui l’interpretazione accolta dal giudice sia in contrasto con quella adottata dalla Corte costituzionale in una pronuncia interpretativa di rigetto, resa in un diverso processo, per violazione degli artt. 101, secondo comma, 104, primo comma, 107, terzo comma, e 134 Cost.

4.1.– Il giudice a quo premette di essere investito del giudizio di opposizione a un decreto ingiuntivo, emesso per il pagamento della somma di euro 13.679,92 a titolo di regresso nell’àmbito di un contratto di fideiussione.

Il debitore ingiunto aveva dedotto, a fondamento dell’opposizione, l’usurarietà degli interessi applicati dalla banca garantita sulle rate di mutuo rimaste inadempiute, per il cui pagamento era stato escusso il fideiussore ingiungente. Quest’ultimo, nel costituirsi in giudizio, aveva contestato le avverse deduzioni, aveva chiesto di chiamare in causa la banca e, infine, aveva fatto istanza per la concessione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto.

Con riguardo a tale ultima istanza, il rimettente rileva che l’opposizione – oltre a non apparire di pronta soluzione – non risulta neppure fondata su prova scritta. Alla luce del tenore letterale dell’art. 648, primo comma, cod. proc. civ., ciò dovrebbe portare all’accoglimento della richiesta dell’ingiungente, impedendo una rivalutazione in fase di opposizione della prova documentale da questi offerta in sede monitoria: soluzione che risulterebbe conforme al principio di ragionevole durata del processo, apparendo «superfluo» e illogico sottoporre a due diversi giudici la valutazione delle stesse prove, in un ristretto arco temporale.

La Corte costituzionale, tuttavia, con una pronuncia interpretativa di rigetto – l’ordinanza n. 295 del 1989 – ha offerto una diversa lettura della disposizione, affermando che anche «nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, non fondata su prova scritta, la concessione della provvisoria esecuzione […] deve ovviamente essere esercitata – come in ogni ipotesi di misura avente (anche) natura cautelare – attraverso la congiunta valutazione del fumus boni iuris e del periculum in mora». La riconduzione del provvedimento previsto dall’art. 648 cod. proc. civ. nell’alveo dei provvedimenti lato sensu cautelari, quindi, legittimerebbe – secondo la Corte – una rivalutazione dell’intero materiale offerto dalla parte creditrice anche di fronte a un’opposizione non fondata su prova scritta.

In una simile situazione, verrebbero in rilievo, ai fini della decisione che il giudice a quo è chiamato ad assumere, alcune delle disposizioni della legge n. 117 del 1988 – e, in particolare, il suo art. 2, commi 2 e 3 – «così come interpretate dal diritto vivente della Corte di cassazione».

Secondo il rimettente, le sezioni unite civili della Corte di cassazione avrebbero infatti affermato, con la sentenza 16 dicembre 2013, n. 27986, che le pronunce interpretative di rigetto della Corte costituzionale hanno effetto vincolante nei confronti di tutti i giudici comuni, e non solo del giudice che ha sollevato l’incidente di costituzionalità. Con altra pronuncia (sezione terza civile, 5 novembre 2013, n. 24798), la Corte di cassazione avrebbe, altresì, ritenuto che l’adozione di una soluzione interpretativa rifiutata dalla Corte costituzionale in una pronuncia interpretativa di rigetto costituisca, per il giudice, una «grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile», ai sensi dell’originario testo dell’art. 2, comma 3, lettera a), della legge n. 117 del 1988: affermazione riferita proprio a fattispecie nella quale il giudice si era discostato dall’interpretazione adottata dalla citata ordinanza della Corte costituzionale n. 295 del 1989, in punto di presupposti per la concessione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo.

Sulla ricordata conclusione non inciderebbero le modifiche normative operate dalla legge n. 18 del 2015: la nozione di «manifesta violazione della legge», utilizzata dalla novella, sarebbe infatti sovrapponibile a quella di «grave violazione di legge», da essa sostituita.

Di conseguenza, per non incorrere in responsabilità, il giudice a quo dovrebbe – a suo avviso – scartare a priori una delle possibili opzioni interpretative dell’art. 648 cod. proc. civ. (la prima dianzi prospettata). Una motivazione che disattendesse expressis verbis l’interpretazione accolta dall’ordinanza n. 295 del 1989 esporrebbe il rimettente – sempre secondo la sua ricostruzione – addirittura ad una responsabilità diretta nei confronti delle parti, potendosi configurare una ipotesi di dolo.

Di qui, dunque, la rilevanza delle questioni, anche alla luce dei principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 18 del 1989 e implicitamente ribaditi – a parere del rimettente – nella sentenza n. 237 del 2013.

4.2.– In punto di non manifesta infondatezza, il Tribunale di Enna assume che le norme censurate – nella parte in cui, secondo il «diritto vivente», configurano come ipotesi di «colpa grave» del giudice l’adozione di una interpretazione contrastante con quella adottata dalla Corte costituzionale in una pronuncia interpretativa di rigetto resa in un diverso processo – violerebbero i principi di soggezione del giudice soltanto alla legge e di indipendenza della magistratura, espressi dagli artt. 101, secondo comma, 104, primo comma, e 107, terzo comma, Cost.

Detti principi, sottraendo il giudice ad ogni vincolo gerarchico, escluderebbero che possa attribuirsi efficacia vincolante ad interpretazioni di disposizioni di legge provenienti da giurisdizioni superiori, compresa la Corte costituzionale. Diversamente opinando, si attribuirebbe alla Corte – in violazione dell’art. 134 Cost. – una «funzione nomofilattica», riconoscendo a tale organo, non solo il potere di dichiarare erga omnes l’incompatibilità della legge con la Costituzione, ma anche il «monopolio interpretativo della compatibilità tra legge e Costituzione».

4.3.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, eccependo l’inammissibilità della questione per difetto di rilevanza.

Le norme della cui compatibilità costituzionale si dubita verrebbero, infatti, in rilievo solo in linea teorica ed eventuale, qualora il giudice a quo decidesse di disattendere il richiamato orientamento della Corte costituzionale. Peraltro, il Tribunale rimettente non avrebbe neppure indicato le ragioni che dovrebbero indurlo ad una simile opzione.

Ove pure, poi, il giudice a quo si ritenesse vincolato all’interpretazione della Corte costituzionale riguardo alla natura del giudizio sulla concessione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo, potrebbe pur sempre sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 648 cod. proc. civ. Questa soltanto sarebbe, in effetti, la norma rilevante nel giudizio a quo, e non già le disposizioni sulla responsabilità civile dei magistrati. Nella stessa sentenza delle sezioni unite civili della Corte di cassazione citata dal rimettente si afferma specificamente, del resto, che il vincolo che deriva, sia per il giudice a quo che per tutti i giudici comuni, dalle pronunce interpretative di rigetto è solo negativo, consistendo nell’imperativo di non applicare la “norma” ritenuta non conforme al parametro scrutinato dalla Corte costituzionale. Non è preclusa, invece, la possibilità di seguire “terze interpretazioni” ritenute compatibili con la Costituzione, oppure di sollevare nuovamente, in diversi gradi dello stesso processo a quo o in diversi processi, la questione di legittimità costituzionale della medesima disposizione sulla base dell’interpretazione rifiutata dalla Corte costituzionale.

Non pertinente risulterebbe, altresì, il richiamo del giudice a quo alla sentenza della Corte di cassazione n. 24798 del 2013, concernente una fattispecie nella quale il giudice aveva negato l’esistenza del fumus boni iuris, concedendo, ciò nondimeno, la provvisoria esecuzione del decreto opposto.

Nel merito, la questione sarebbe, ad ogni modo, infondata. La clausola di salvaguardia, in base alla quale «non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove», sarebbe rimasta inalterata nell’impianto della legge n. 117 del 1988 anche dopo le modifiche di cui alla legge n. 18 del 2015, «salva la sua erosione derivante anche dagli interventi della Corte di Giustizia dell’Unione Europea». In ogni caso, tale clausola cesserebbe di operare nei casi di «manifesto ed ingiustificato esercizio non corretto dell’attività di interpretazione delle norme», quale quello del giudice che si discostasse immotivatamente dal diritto vivente e dall’unica opzione ermeneutica suggerita dalla Corte costituzionale come legittima, senza sollevare un nuovo incidente di costituzionalità.

5.– Con ordinanza del 10 maggio 2016 (r.o. n. 130 del 2016), il Tribunale ordinario di Genova ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, della legge n. 18 del 2015, che ha abrogato l’art. 5 della legge n. 117 del 1988, per contrasto con gli artt. 3, 25, 101, 104 e 111 Cost.

5.1.– Il Tribunale premette di essere investito della causa civile per risarcimento del danno promossa nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso depositato il 2 aprile 2015, da una persona che si assume danneggiata dall’operato di alcuni giudici del Tribunale di Firenze e della Corte d’appello di Firenze. Il ricorrente si era lamentato del fatto che il Tribunale fiorentino, con sentenza poi confermata dalla Corte d’appello, avesse dichiarato il fallimento di una società in accomandita semplice e del ricorrente stesso, quale socio illimitatamente responsabile, senza che gli fosse stato dato valido avviso dell’udienza a seguito della quale il fallimento era stato pronunciato. Il ricorso per cassazione dell’interessato era stato accolto con sentenza del maggio 2013, che aveva annullato la sentenza di fallimento rimettendo gli atti al giudice di primo grado. Nel 2011, peraltro – e, dunque, prima ancora della pronuncia della Corte di cassazione – il fallimento era stato chiuso per mancanza di attivo.

L’Avvocatura dello Stato, nel giudizio a quo, aveva contestato la pretesa del ricorrente, eccependo l’inammissibilità della domanda sotto un duplice profilo: da un lato, per tardività, in quanto, trattandosi di fallimento chiuso nel 2011, il ricorso sarebbe stato depositato oltre il termine previsto a pena di decadenza dalla legge n. 117 del 1988; dall’altro, per mancato esperimento di tutti i mezzi di impugnazione, non avendo il ricorrente riassunto il giudizio dopo l’annullamento con rinvio della decisione della Corte d’appello. Nel merito, la difesa dello Stato aveva negato la sussistenza dei vizi procedurali denunciati dal ricorrente.

Il giudice istruttore – sul presupposto che l’abolizione del filtro di ammissibilità, disposta dall’art. 3, comma 2, della legge n. 18 del 2015, dovesse ritenersi inoperante in rapporto alle domande risarcitorie proposte dopo l’entrata in vigore della novella, ma per illeciti anteriori ad essa (quale quella in esame) – aveva rimesso le parti davanti al collegio per la deliberazione preliminare di ammissibilità ai sensi del previgente art. 5 della legge n. 117 del 1988.

Il collegio rimettente ritiene, tuttavia, di dover aderire alle opposte indicazioni della giurisprudenza di legittimità, secondo le quali la soppressione del filtro opera anche rispetto alle domande relative agli illeciti pregressi: circostanza che gli imporrebbe di restituire la causa al giudice istruttore per la prosecuzione del giudizio nelle forme ordinarie. Di qui, dunque, la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale della citata norma abrogatrice.

5.2.– Ciò premesso, il rimettente denuncia, in primo luogo, la violazione dell’art. 111 Cost., assumendo che il filtro di ammissibilità costituisca strumento imprescindibile per l’attuazione del «giusto processo» sia nell’àmbito del giudizio risarcitorio promosso dal danneggiato contro lo Stato, sia nell’àmbito del giudizio in cui si è verificato il fatto che si assume dannoso.

Sul primo versante, il filtro risulterebbe essenziale al fine di assicurare la ragionevole durata del giudizio risarcitorio. In virtù di esso, il collegio era chiamato a valutare in limine litis l’ammissibilità e la non manifesta infondatezza della domanda, nel comune interesse del soggetto che si pretendeva danneggiato e dello Stato, dichiarando immediatamente l’eventuale inammissibilità con decreto, la cui procedura di impugnazione era «snella e compressa» e, soprattutto, «alleggerita della valutazione del merito». A seguito dell’abolizione del filtro, i tempi per pervenire ad una pronuncia sull’ammissibilità sono invece quelli del processo ordinario, di «lunghezza eccessiva ed irragionevole», senza considerare, poi, i maggiori tempi dell’impugnazione, «appesantita dalla commistione tra profili di ammissibilità e profili di merito».

Tali effetti negativi della riforma sarebbero bene apprezzabili nel caso sottoposto all’esame del rimettente, nel quale potrebbero rivelarsi fondate alcune delle eccezioni di inammissibilità formulate dalla difesa del Presidente del Consiglio dei ministri, con la conseguenza che la pronuncia immediata su di esse consentirebbe uno svolgimento della causa «adeguato ai principi di effettività e celerità della tutela».

L’intervento considerato si porrebbe, d’altra parte, in frizione con la recente introduzione, da parte del legislatore, di «pronunce semplificate di inammissibilità» in rapporto alle impugnazioni ordinarie, quali quelle previste dagli artt. 360-bis e 375, primo comma, numeri 1) e 5), cod. proc. civ., riguardo al ricorso per cassazione, e dagli artt. 348-bis e 348-ter cod. proc. civ., in relazione all’appello. Per questo verso, la soppressione del filtro di ammissibilità disposta dalla legge n. 18 del 2015 si porrebbe in contrasto anche con i principi di ragionevolezza e di eguaglianza (art. 3 Cost.), posto che il giudizio sulla responsabilità civile del giudice assumerebbe assai spesso il carattere di un “processo sul processo”, presentando, perciò, evidenti «comunanze logiche» con le impugnazioni.

L’abolizione del filtro pregiudicherebbe, peraltro, l’attuazione del giusto processo anche nel giudizio nel quale si assume essersi verificato il fatto dannoso. Le peculiarità dell’attività giurisdizionale – in particolare, la circostanza che ogni processo comporti un pregiudizio per almeno una delle parti – e la difficoltà che la parte soccombente incontrerebbe nel comprendere quando vi sia stato realmente un cattivo esercizio della giurisdizione incentiverebbero, infatti, la proposizione di azioni di responsabilità anche inammissibili o palesemente infondate. Un meccanismo di filtro che blocchi sul nascere iniziative di tal fatta assumerebbe, quindi, una essenziale funzione di tutela della serenità di giudizio del magistrato.

Per converso, l’assenza del filtro genererebbe il rischio della cosiddetta «giurisprudenza “difensiva”», ossia che il giudice si curi – già nel processo “a monte” – del proprio interesse e della propria difesa, abdicando alla propria posizione di terzietà ed imparzialità. Tale atteggiamento potrebbe manifestarsi in varie forme, dal semplice ricorso a motivazioni ridondanti e poco aderenti al caso concreto, sino al vero e proprio “snaturamento” del contenuto delle decisioni, secondo quale fra le parti possa più facilmente proporre un’azione di responsabilità: e ciò specie in presenza di parti «agguerrite o già larvatamente minacciose».

L’abolizione del meccanismo in questione – impedendo l’immediata declaratoria di inammissibilità della domanda per mancato esaurimento dei mezzi di impugnazione – favorirebbe, altresì, la contemporanea pendenza del giudizio di responsabilità intentato nei confronti dello Stato e di quello che vi ha dato origine, con conseguente lesione anche del principio del contraddittorio. Sarebbe, infatti, ben difficile che la controparte di un soggetto che ha proposto azione di responsabilità civile «possa essere certa di non avere un trattamento diverso da parte di un giudice “coinvolto”».

Risulterebbero violati anche i principi di soggezione del giudice solo alla legge (art. 101 Cost.) e di autonomia e indipendenza della magistratura (art. 104 Cost.). La giurisprudenza costituzionale, infatti, avrebbe posto in evidenza a più riprese come la presenza di un filtro, che ponga il giudice al riparo da domande temerarie o intimidatorie, debba ritenersi indispensabile per la salvaguardia di detti valori (sono citate le sentenze n. 468 del 1990, n. 18 del 2015 e n. 2 del 1968).

Da ultimo, il giudice a quo ravvisa la violazione del principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 25 Cost.).

Secondo il rimettente, sarebbe condivisibile l’orientamento della giurisprudenza di legittimità in base al quale la proposizione di un’azione di responsabilità, ai sensi della legge n. 117 del 1988, quando è ancora pendente il primo giudizio non comporta automaticamente un obbligo di astensione per il giudice di quest’ultimo, né consente alle parti di ricusarlo. In mancanza del filtro, tuttavia, il magistrato sarebbe incentivato ad esercitare la facoltà di intervento nel giudizio risarcitorio, non essendo più nettamente distinto l’esame dei profili di ammissibilità della domanda da quello del merito: opzione che, rendendolo parte di quel giudizio, farebbe scattare l’obbligo di astensione nel processo originario ai sensi dell’art. 51, primo comma, numero 3), cod. proc. civ. Anche laddove non sussista tale obbligo, il giudice potrebbe ravvisare, comunque sia, gravi ragioni di convenienza per un’astensione facoltativa, «che difficilmente gli verrebbe negata».

La proposizione dell’azione di responsabilità potrebbe, pertanto, costituire uno strumento per distogliere la causa dal suo giudice naturale, specie nei casi in cui il magistrato assegnatario della stessa abbia assunto decisioni interinali che facciano presagire la soccombenza di una delle parti.

5.3.– Intervenuto a ministero dell’Avvocatura generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei ministri ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza.

Il collegio rimettente non avrebbe, infatti, considerato che, essendo stato investito della decisione dal giudice istruttore a norma dell’art. 189 cod. proc. civ., avrebbe potuto, comunque sia, definire nel merito la controversia, a prescindere dal previo esame della domanda in sede di filtro. Nella stessa ordinanza di rimessione si rileva, d’altro canto, che alcune delle eccezioni di inammissibilità prospettate dalla parte convenuta potrebbero rivelarsi fondate. Di conseguenza, il collegio avrebbe dovuto darsi carico di verificare se la causa potesse essere decisa, esaminando le questioni preliminari pur di fronte all’erronea rimessione della causa da parte del giudice istruttore sulla base della disciplina previgente.

Nel merito, le questioni sarebbero, ad ogni modo, infondate.

Quanto al dedotto contrasto con l’art. 111 Cost., la difesa dell’interveniente rileva che, pur essendo ovvio che un rito accelerato è più breve di un rito ordinario, nondimeno anche l’ordinario giudizio di cognizione si presta ad essere definito in tempi brevi in base alle scansioni processuali delineate dalla normativa vigente, sulle quali possono incidere negativamente solo mere circostanze di fatto, irrilevanti ai fini del giudizio di costituzionalità, quali l’organizzazione degli uffici giudiziari o la limitatezza delle risorse disponibili.

Né l’eliminazione del filtro potrebbe ritenersi contraddittoria rispetto all’avvenuta introduzione di meccanismi di valutazione preliminare dell’ammissibilità e della non manifesta infondatezza con riguardo al giudizio di appello e al giudizio di cassazione. Tali ultimi meccanismi attengono, infatti, alle impugnazioni, mentre il filtro previsto dall’art. 5 della legge n. 117 del 1988 condizionava l’accesso al giudizio di primo grado.

Seguendo il ragionamento del rimettente, poi, si dovrebbe ritenere che l’applicazione del rito ordinario a qualsiasi tipo di controversia determini una violazione del principio di ragionevole durata del processo.

Privo di pregio sarebbe, altresì, l’assunto del giudice a quo, secondo il quale l’eliminazione del filtro di ammissibilità creerebbe il pericolo di un atteggiamento “difensivo” del magistrato, il quale sarebbe indotto ad adottare la soluzione per lui meno “rischiosa” a detrimento della giustizia sostanziale. L’alta professionalità che caratterizza la funzione giurisdizionale dovrebbe essere, infatti, idonea a scongiurare un simile pericolo; d’altra parte, la decisione meno “rischiosa” per il giudice è quella presa secondo legge e sulla base del prudente apprezzamento dei fatti e delle prove, non quella che pregiudichi la parte più «agguerrita» o «larvatamente minacciosa».

Il rimettente non valorizzerebbe, poi, adeguatamente la duplice circostanza che l’azione risarcitoria ha come unico legittimato passivo lo Stato e che la proposizione di cause pretestuose o preordinate ad incidere sulla serenità del giudicante è già scoraggiata dalla responsabilità aggravata del soccombente temerario prevista dall’art. 96 cod. proc. civ.

Quanto alla censura di violazione dei principi di autonomia e indipendenza della magistratura, l’Avvocatura generale dello Stato, dopo aver ribadito alcune delle considerazioni svolte su questioni consimili nei precedenti atti di intervento, pone in risalto come il principio che si ricava dalla giurisprudenza costituzionale evocata dal giudice a quo sia solo quello della necessità di prevedere adeguate garanzie e limiti nella disciplina della responsabilità civile dei magistrati, correlate alla peculiarità delle funzioni giudiziarie e alla natura dei relativi provvedimenti, non anche quello dell’imprescindibilità di una fase di valutazione preliminare dell’ammissibilità della domanda risarcitoria indiretta (contro lo Stato).

Dette garanzie e limiti non mancherebbero nell’attuale assetto normativo, caratterizzato dalla previsione della sola legittimazione passiva dello Stato nell’azione risarcitoria, con esclusione dell’azione diretta verso il magistrato; dalla previsione di un termine di decadenza (ora triennale) per la proposizione dell’azione, inferiore a quello quinquennale valevole per tutti gli altri dipendenti pubblici, e di uno ancora più breve (biennale) per l’azione di rivalsa; dall’onere, per il danneggiato, di esperire preventivamente tutti i rimedi impugnatori avverso il provvedimento che si assume dannoso; dalla previsione di rigidi presupposti sostanziali che delimitano l’àmbito della colpa grave e di un tetto massimo (pari alla metà dello stipendio annuo) alla eventuale condanna del magistrato in sede di rivalsa.

La questione riferita all’art. 25 Cost. sarebbe, infine, inammissibile per difetto di rilevanza, essendo argomentata con il riferimento all’astratta possibilità che il magistrato sia indotto a spiegare intervento volontario nella causa risarcitoria con maggiore frequenza che non in passato: evenienza che non risulta, tuttavia, essersi concretamente verificata nel giudizio a quo. Lo stesso rimettente, d’altra parte, condivide la tesi secondo cui la proposizione dell’azione di responsabilità non comporta alcun obbligo di astensione del magistrato e, correlativamente, non ne consente la ricusazione.

La questione risulterebbe, comunque sia, infondata nel merito, posto che, in nessun caso, l’esercizio dell’azione risarcitoria potrebbe costituire strumento per sottrarre la causa al giudice naturale. Seguendo il ragionamento del rimettente, d’altronde, anche nella vigenza del filtro una situazione come quella ipotizzata (intervento del magistrato e richiesta di astensione) si sarebbe potuta parimente verificare.

Considerato in diritto

1.– Questa Corte è chiamata a pronunciarsi su un articolato complesso di questioni di legittimità costituzionale, dianzi analiticamente descritte, tutte attinenti alla disciplina della responsabilità civile dei magistrati, quale risultante a seguito delle modifiche apportate dalla legge 27 febbraio 2015, n. 18 (Disciplina della responsabilità civile dei magistrati) alle previgenti disposizioni della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati).

2.– In ragione della rilevata comunanza di oggetto e dei profili problematici coinvolti, le questioni vanno riunite per essere decise con unica sentenza.

3.– Deve preliminarmente essere esaminata l’eccezione con cui l’Avvocatura generale dello Stato ha contestato l’ammissibilità, per difetto di rilevanza, di tutte le questioni sollevate con le ordinanze dei Tribunali ordinari di Verona (r.o. n. 198 del 2015), di Treviso (r.o. n. 218 del 2015), di Catania (r.o. n. 113 del 2016) e di Enna (r.o. n. 126 del 2016).

Nei vari atti di intervento, la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri, con argomentazioni similari, ove non anche identiche, pone in evidenza che i giudici rimettenti non sono chiamati a fare diretta applicazione delle disposizioni della cui costituzionalità dubitano, sicché la rilevanza di esse, nei rispettivi giudizi a quibus, è affermata «solo in linea teorica ed eventuale». Le disposizioni impugnate – secondo l’Avvocatura − potrebbero venire in rilievo esclusivamente nell’ipotesi «in cui il giudicante adottasse un provvedimento errato con dolo o colpa grave» e, dunque, nel caso di una «patologia conclamata del futuro provvedimento». Ma, in tale ipotesi, esso sarebbe rimediabile dallo stesso giudice che lo ha emesso ovvero dal giudice cui sarebbe devoluta l’impugnazione, considerata la natura dell’azione di responsabilità, la quale presuppone che il rimedio previsto sia stato esperito. In conseguenza, risulterebbe del tutto insussistente la dedotta incidenza sulla serenità del giudicante, come invece ipotizzato dai giudici a quibus.

In ogni caso – risultando imprescindibile presupposto dell’azione risarcitoria l’irrevocabilità del provvedimento, ai sensi dell’art. 4 della legge n. 117 del 1988 − i dedotti profili di disarmonia costituzionale potrebbero venire in rilievo solo dopo l’eventuale esaurimento dei gradi dei rispettivi giudizi incidentali, con la «definitività del provvedimento giudiziario», che, invece, neppure risulta adottato nei giudizi in questione. La rilevanza delle questioni affermata dai giudici rimettenti risulterebbe, pertanto, pressoché virtuale, in quanto ancorata solo al mero «pericolo di una valutazione errata delle risultanze di causa»: non sussisterebbe, infatti, alcuna correlazione «tra la regola da applicare e la soluzione della questione controversa», fino al punto che, in alcune delle ordinanze di rimessione, la «pericolosità decisionale» sarebbe, addirittura, semplicemente postulata, trattandosi piuttosto di semplici problemi decisori, risolvibili in base ad elementari ed ordinarie regole di diritto e sulla base del prudente apprezzamento del giudice.

L’Avvocatura dello Stato ha ulteriormente osservato che, nelle questioni di costituzionalità prospettate, la sussistenza della rilevanza sarebbe stata dedotta dall’asserito perturbamento del giudice conseguente ad un’ipotetica azione di rivalsa intentabile, nei suoi confronti, dallo Stato: azione a sua volta meramente eventuale ed effetto di altra azione di risarcimento danni esperita nei confronti di quest’ultimo, per la responsabilità derivante dal provvedimento giudiziario, frutto dell’«errore commesso dal magistrato». Per effetto di tale catena ipotetica, la rilevanza delle questioni di costituzionalità sollevate risulterebbe, tuttavia, giustificata solo dalla stessa «pericolosità […] della funzione giurisdizionale», ritenuta, sempre e comunque sia, incidente sulla serenità di giudizio e, quindi, sullo status del magistrato.

Il presupposto della rilevanza, in conclusione, riposerebbe solo su postulati ed «ipotetici condizionamenti psicologici»: con la paradossale conseguenza che qualsivoglia modifica della legge n. 117 del 1988 risulterebbe rilevante in tutte le controversie di ogni tipo (civili, penali e amministrative), «con effetti distorsivi sul funzionamento dell’intero sistema giudiziario, in contrasto, peraltro, con i principi costituzionali e del diritto dell’U.E. sull’effettività della tutela giurisdizionale».

3.1.– L’eccezione d’inammissibilità è fondata, per i motivi che seguono.

3.2.– Nelle quattro ordinanze di rimessione, i giudici a quibus – di là dalla complessità o difficoltà decisoria specifica dei singoli giudizi in corso, di cui non è necessario dar conto in questa sede − affermano che le sollevate questioni di costituzionalità, pur concernenti alcune delle norme introdotte dalla legge n. 18 del 2015, risultano direttamente rilevanti nei rispettivi giudizi incidentali in quanto tale disciplina normativa sarebbe «concretamente ed immediatamente produttiva di una responsabilità potenziale» di essi giudicanti, «potendo dar luogo ad un giudizio di responsabilità» (così, testualmente, l’ordinanza del Tribunale ordinario di Verona, iscritta al r.o. n. 198 del 2015); ovvero in quanto essa va «ad incidere, in generale, sulla libertà del giudice di valutare i fatti e le prove secondo la legge e, quindi, anche sulla valutazione che il Giudice è chiamato ad operare nel presente processo» (in tal senso si esprime l’ordinanza del Tribunale ordinario di Treviso, iscritta al r.o. n. 218 del 2015); ovvero, ancora, che non è da escludersi che ogni decisione adottabile «possa essere contestata per ritenuto travisamento del fatto e delle prove», integrando dunque un’ipotesi di colpa grave ai sensi della normativa, come oggi modificata, sulla responsabilità civile dei magistrati (in tal senso opina, ad esempio, l’ordinanza del Tribunale ordinario di Catania, iscritta al r.o. n. 113 del 2016).

Tali affermazioni – che pure delineano la semplice e sola “potenzialità” dell’evenienza di una responsabilità civile dello Stato (e della successiva, eventuale, azione di rivalsa nei confronti del magistrato) connessa ai provvedimenti adottati nel giudizio a quo – assurgono a discorso giustificativo della rilevanza delle plurime questioni di legittimità costituzionale a mezzo del richiamo, comune a tutte le predette ordinanze di rimessione e su cui esse lungamente insistono, alle statuizioni della sentenza n. 18 del 1989.

Rammentano invero i rimettenti che, in tale pronuncia, questa Corte – chiamata a scrutinare alcune questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione alla disciplina della responsabilità civile dei magistrati di cui alla legge n. 117 del 1988 ed a fronte della eccezione di inammissibilità delle stesse per difetto di rilevanza, anche allora avanzata dall’Avvocatura generale dello Stato − ebbe a statuire l’infondatezza di detta eccezione.

Si osservò, in proposito, che, effettivamente, l’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), stabilendo che la questione di costituzionalità proposta debba essere tale che «il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione» di essa, «implica, di regola, che la rilevanza sia strettamente correlata all’applicabilità della norma impugnata nel giudizio a quo». Tuttavia, si affermò che «debbono ritenersi influenti sul giudizio anche le norme che, pur non essendo direttamente applicabili al giudizio a quo, attengono allo status del giudice, alla sua composizione nonché, in generale, alle garanzie ed ai doveri che riguardano il suo operare», e che pertanto la «eventuale incostituzionalità di tali norme è destinata a influire su ciascun processo pendente davanti al giudice del quale regolano lo status, la composizione, le garanzie e i doveri: in sintesi, la “protezione” dell’esercizio della funzione, nella quale i doveri si accompagnano ai diritti».

Tali affermazioni, secondo i giudici a quibus, risulterebbero ulteriormente corroborate, ai fini della rilevanza delle odierne questioni di legittimità costituzionale, dalla circostanza che la nuova disciplina sulla responsabilità civile, risultante dalle modifiche introdotte dalla legge n. 18 del 2015, ha ampliato le ipotesi che possono dar luogo a responsabilità dello Stato e del magistrato, introducendo, tra l’altro, quelle del «travisamento del fatto o delle prove». Pertanto, quantomeno le relative disposizioni modificate in tal senso (vale a dire gli artt. 2, comma 3, e 7, comma 1, della legge n. 117 del 1988) inciderebbero immediatamente su tutti i giudizi in corso.

I soli Tribunali ordinari di Verona ed Enna, inoltre, affermano che le statuizioni della sentenza n. 18 del 1989 sarebbero state implicitamente richiamate, da questa Corte, nella sentenza n. 237 del 2013.

3.3.– Movendo dall’esame di tale ultimo argomento, si deve rilevare che il convincimento dei due rimettenti è erroneo.

Nel giudizio conclusosi con la sentenza n. 237 del 2013, infatti, questa Corte era stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale di norme che avevano disposto la soppressione di diversi uffici giudiziari: oggetto del giudizio di costituzionalità era, dunque, la potestà di ius dicere dei giudici rimettenti, direttamente e immediatamente dipendente dalle norme censurate. Nessun dubbio poteva sussistere, pertanto, sulla rilevanza – secondo l’ordinaria regola posta dall’art. 23 della legge n. 87 del 1953 – delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, «ben potendo, in limine litis, ogni giudice investire questa Corte della verifica di conformità a Costituzione delle disposizioni legislative che affermino, ovvero escludano, la sua legittimazione a trattare un determinato procedimento» (ordinanza n. 258 del 2016), rientrando detta facoltà nel suo «potere-dovere di verificare la regolare costituzione dell’organo giudicante, anche in rapporto alla legittimità costituzionale delle norme che la disciplinano» (sentenza n. 71 del 1975).

3.4.– Quanto, poi, al richiamo operato da tutti i giudici rimettenti alla sentenza n. 18 del 1989, in funzione di giustificazione della rilevanza delle odierne questioni di legittimità costituzionale, esso non risulta pertinente.

È qui doveroso sottolineare il ben diverso àmbito dell’incidente di costituzionalità nel quale vennero a collocarsi le richiamate affermazioni di questa Corte. In quella circostanza, infatti, il nucleo principale delle varie questioni sollevate dai diversi giudici (ordinari, amministrativi e tributari), che dubitavano della legittimità costituzionale della prima legge sulla responsabilità civile dei magistrati, fece leva – per dedurre la rilevanza delle questioni stesse – sul fatto che nei diversi giudizi veniva in discorso l’applicazione della disciplina dettata dall’art. 16 della legge n. 117 del 1988 (poi dichiarata parzialmente incostituzionale con la sentenza n. 18 del 1989), la quale introduceva – nel processo civile (art. 131 del codice di procedura civile) ed in quello penale (art. 148 del codice di procedura penale) – il verbale relativo alla opinione dissenziente per i provvedimenti collegiali, per i conseguenti riverberi che la stessa disciplina presentava proprio sul piano della responsabilità civile.

Veniva in rilievo inoltre – e in relazione a ciò questa Corte affermò quanto oggi è richiamato − la stessa struttura e composizione dell’organo giudicante, assumendosi, da una delle ordinanze di rimessione, che il “concorso decisorio”, all’interno dell’organo collegiale civile, non potesse essere egualmente distribuito tra il relatore e gli altri componenti del collegio, poiché era da escludere che questi ultimi fossero «tenuti ad esaminare gli atti di causa, a ciò ostando l’immensa mole di lavoro gravante sui tribunali» e che, conseguentemente, a tale diversa collocazione “funzionale” interna avrebbe dovuto corrispondere anche una diversa graduazione di responsabilità. Prospettiva che indusse questa Corte a ribadire, al contrario, e proprio in ordine alla struttura e funzione dell’organo, che «la decisione emessa dall’organo giudiziario collegiale è un atto unitario, alla formazione del quale concorrono i singoli membri del collegio in base allo stesso titolo ed agli stessi doveri» (sentenza n. 18 del 1989).

Altra ordinanza di rimessione, poi, era stata adottata dalla sezione specializzata per le tossicodipendenze, a componente mista, in relazione alla quale si prospettava questione di legittimità costituzionale in ordine alla responsabilità dei laici componenti il collegio.

Infine, per le questioni sollevate da una commissione tributaria, si osservava, nella ordinanza di rimessione, che esse attenevano «alla costituzione del giudice», con la conseguenza che la rilevanza sussisteva in quanto, «ove le norme impugnate fossero illegittime, la decisione della Commissione tributaria sarebbe nulla», anche in questo caso evocando (come pure nella questione sollevata da un pretore onorario) il tema della partecipazione dei laici alla giustizia.

Nello scrutinio allora operato da questa Corte in punto di ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale, pertanto, ben si spiega la motivazione adottata (poi meramente richiamata soltanto dall’immediatamente successiva sentenza n. 243 del 1989). Essa, appunto, si fondava – coerentemente con il rilievo delle norme processuali allora coinvolte nei diversi giudizi a quibus – sui profili che concernevano lo «status di giudice», la «sua composizione, nonché, in generale, [le] garanzie e [i] doveri che riguardano il suo operare»: aspetti, questi, ontologicamente rilevanti nell’àmbito dei relativi procedimenti – ordinari, speciali, amministrativi o tributari – dai quali le questioni provenivano. Come dire che le quaestiones sulla responsabilità civile dei magistrati erano allora rilevanti in quanto direttamente collegate con profili attinenti alla struttura dell’organo e ad ipotizzate “distinzioni” funzionali interne ad esso: dunque, alla sua stessa composizione.

3.5.– Si trattava di un quadro profondamente diverso da quello che viene oggi in attenzione e che, in sé, vale a tracciare un netto distinguo tra dette statuizioni – pertinenti a quello specifico quadro di riferimento – e le altre che questa Corte è chiamata ad adottare circa la rilevanza delle questioni ora in esame.

Nell’àmbito delle odierne questioni, infatti, ciò che questa Corte è tenuta a verificare è la necessaria relazione di “dipendenza funzionale” tra giudizio a quo e tema agitato attraverso la questione di legittimità costituzionale: relazione che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, deve assumere i connotati della pregiudizialità, la quale comporta l’impossibilità di definire il procedimento pregiudicato in assenza della delibazione della quaestio pregiudicante.

Ebbene, alla luce di tali preliminari rilievi e tenuto conto di quanto gli stessi giudici rimettenti hanno posto in luce al fine di asseverare la sussistenza della rilevanza, se ne deve desumere che le questioni sono state dai rimettenti delibate a prescindere da qualsiasi considerazione circa una loro diretta incidenza sullo statuto di autonomia e di indipendenza dei magistrati, tale da condizionare strutturalmente e funzionalmente lo ius dicere, ma facendo esclusivo riferimento alle sue modalità di esercizio. Né rileva che tali modalità possano costituire elementi variamente perturbatori della condizione psicologica di questo o quel magistrato, secondo i principi, del resto, costantemente ribaditi – sia prima sia dopo la sentenza n. 18 del 1989 – dalla giurisprudenza di questa Corte.

Si è escluso, infatti, che potesse strutturare il nesso di pregiudizialità, richiesto ai fini di rendere rilevante la questione, il mero richiamo del giudice a quo al turbamento psicologico e della propria serenità di giudizio prodotto dall’applicazione dei «ferri di sicurezza» nelle operazioni di traduzione degli imputati detenuti, «non potendosi ovviamente qualificare per tale una soggettiva situazione psicologica come quella allegata dal giudicante che, oltre tutto, deriva da norme assolutamente estranee all’oggetto del processo principale» (sentenza n. 147 del 1974).

Allo stesso modo, si è pure escluso che potessero considerarsi rilevanti, in un qualsiasi giudizio di competenza della Corte dei conti, questioni volte a denunciare l’asserita menomazione della serenità e autonomia di giudizio dei magistrati di detta Corte derivante dal carattere, in assunto, «troppo latamente discrezionale» dei poteri riconosciuti al Presidente della Corte stessa in materia di assegnazione di funzioni e promozioni: le doglianze attenevano, infatti, a disposizioni che non dovevano essere applicate dal giudice rimettente, riflettendo «violazioni solo potenziali ma non attuali delle garanzie costituzionali» (sentenza n. 19 del 1978).

Nessun seguito hanno avuto, altresì, più di recente, le questioni intese a censurare, nell’àmbito di ordinari giudizi, la previsione di compensi dei giudici di pace e dei componenti delle commissioni tributarie collegati ad ogni singolo processo definito: sistema che si asseriva idoneo a condizionare psicologicamente l’operato di detti giudici, e dunque a comprometterne la terzietà ed imparzialità, inducendoli ad optare non per le soluzioni ritenute più corrette, ma per quelle che permettevano di decidere un maggior numero di cause in minor tempo, e consentendo, inoltre, alla parte attrice o ricorrente di avvantaggiarli economicamente con la proposizione di domande o ricorsi separati, anziché di domande o ricorsi cumulativi. Anche simili questioni sono state ritenute, infatti, prive di rilevanza, in quanto attinenti a norme che non venivano affatto in rilievo ai fini della decisione delle controversie di cui i giudici rimettenti erano investiti (ex plurimis, ordinanze n. 421 del 2008, n. 180 del 2006 e n. 326 del 1987).

3.6.– Più in generale, va riconosciuto, tuttavia, che un sistema che non garantisse un adeguato presidio istituzionale in capo alla posizione del giudice si presenterebbe, a sua volta, fortemente asintonico rispetto a quel rigoroso presupposto di legalità a cui il giudice è costituzionalmente tenuto.

Il ruolo del giudice, nell’architettura costituzionale della giurisdizione, appare infatti peculiare, non potendosi escludere a priori che norme, pur non immediatamente applicabili nel processo, vadano ad incidere in maniera evidente ed attuale sulle garanzie costituzionali della funzione giurisdizionale, così condizionando l’esercizio della relativa attività. Ciò tuttavia presuppone che tale incidenza – per qualità, intensità, univocità ed evidenza della sua direzione, immediatezza ed estensione dei suoi effetti – sia tale da determinare una effettiva interferenza sulle condizioni di indipendenza e terzietà nel decidere, a prescindere da qualsiasi profilo che possa riguardare un eventuale “perturbamento psicologico” del singolo giudice.

Di là da questa prospettiva, ai fini della rilevanza occorrerà ulteriormente verificare se la norma asseritamente interferente sullo status di magistrato ne comprometta o possa comprometterne l’indipendenza e la terzietà in relazione alla concreta regiudicanda posta al suo esame ed alla specifica e conseguente decisione che è chiamato ad adottare nel giudizio a quo. Presupposti − questi – che non è dato rinvenire nelle odierne questioni, alla luce della stessa motivazione sulla rilevanza fornita dai giudici a quibus in relazione all’attuale sistema normativo sulla responsabilità civile del giudice.

3.7.– In conclusione sul punto, devono pertanto essere dichiarate inammissibili, perché irrilevanti, tutte le questioni sollevate con le ordinanze dei Tribunali ordinari di Verona (r.o. n. 198 del 2015), di Treviso (r.o. n. 218 del 2015), di Catania (r.o. n. 113 del 2016) e di Enna (r.o. n. 126 del 2016).

4.– I profili di inammissibilità dianzi evidenziati non coinvolgono, invece, l’ordinanza di rimessione del Tribunale ordinario di Genova (r.o. n. 130 del 2016), unica, fra quelle in esame, emessa nell’àmbito di un giudizio risarcitorio promosso nei confronti dello Stato ai sensi della legge n. 117 del 1988.

4.1.– Con riguardo alle questioni sollevate da detta ordinanza, l’Avvocatura generale dello Stato ha formulato una diversa eccezione di inammissibilità.

In base al previgente art. 5 della legge n. 117 del 1988 – abrogato dall’impugnato art. 3, comma 2, della legge n. 18 del 2015 – il giudice istruttore della causa volta ad ottenere il ristoro dei danni conseguenti all’esercizio delle funzioni giudiziarie doveva rimettere le parti davanti al collegio alla prima udienza, ai fini della preliminare verifica della sussistenza dei presupposti dell’azione, della sua tempestività in rapporto al previsto termine biennale di proposizione e della sua non manifesta infondatezza (cosiddetto “filtro di ammissibilità”).

Nel caso di specie, il giudice istruttore ha provveduto nel modo ora indicato, sul presupposto che, in assenza di una disciplina transitoria, il meccanismo di “filtro” dovesse ritenersi ancora applicabile in rapporto alle domande risarcitorie proposte dopo l’entrata in vigore della legge di riforma, ma per illeciti anteriori ad essa, quale quella di cui si discute nel giudizio principale.

Il collegio rimettente reputa, tuttavia, di dover aderire alle opposte indicazioni della giurisprudenza di legittimità (e, in particolare, della sentenza della Corte di cassazione, sezione terza civile, 15 dicembre 2015, n. 25216), secondo le quali l’abolizione del “filtro” – in ragione della sua valenza processuale e non sostanziale – opera per tutti i giudizi introdotti dopo l’entrata in vigore della legge n. 18 del 2015 (ancorché relativi ad illeciti pregressi): circostanza che imporrebbe al collegio stesso di restituire gli atti al giudice istruttore per la prosecuzione del giudizio nelle forme ordinarie. Di qui la ritenuta rilevanza delle questioni sollevate, intese a censurare proprio e soltanto l’avvenuta soppressione del “filtro”.

Obietta il Presidente del Consiglio dei ministri che il collegio rimettente, essendo stato investito della decisione dal giudice istruttore ai sensi dell’art. 189 cod. proc. civ., avrebbe potuto definire in ogni caso la controversia, a prescindere dal previo esame della domanda in sede di filtro. Nella stessa ordinanza di rimessione si dà atto, d’altro canto, di come alcune fra le plurime eccezioni di inammissibilità della domanda risarcitoria, formulate dalla parte convenuta nel giudizio a quo, potrebbero rivelarsi fondate. A parere dell’Avvocatura generale dello Stato, pertanto, il collegio avrebbe dovuto verificare preventivamente se la causa potesse essere decisa, esaminando le questioni preliminari pur di fronte all’erronea rimessione della causa da parte del giudice istruttore sulla base della disciplina previgente.

4.2.– L’eccezione della difesa dell’interveniente non è fondata.

Ove pure fosse immediatamente riscontrabile una ragione di inammissibilità della domanda, le questioni inciderebbero, comunque sia, sulle modalità procedurali della relativa verifica, che l’abrogato art. 5 regolava con disciplina ad hoc, allo stato non più applicabile e che il rimettente mira per l’appunto a ripristinare, tramite la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma meramente abrogatrice.

In base alla disposizione abrogata, infatti, il tribunale doveva deliberare entro 40 giorni in camera di consiglio, anziché nelle forme ordinarie del giudizio di cognizione (che prevedono la possibile discussione in udienza pubblica, ai sensi dell’art. 275 cod. proc. civ.), dichiarando l’inammissibilità della domanda con decreto motivato (e non già con sentenza), impugnabile non nei modi ordinari, ma in quelli previsti dall’art. 739 cod. proc. civ. per i provvedimenti in camera di consiglio.

Se la domanda era ritenuta ammissibile, d’altro canto, il tribunale doveva disporre la prosecuzione del processo e la trasmissione degli atti ai titolari dell’azione disciplinare (previsione anche questa venuta meno).

La rilevanza delle questioni è, pertanto, indubbia.

5.– Ancorché ammissibili, le questioni prospettate dall’ordinanza di rimessione del Tribunale ordinario di Genova (r.o. n. 130 del 2016) sono tuttavia infondate.

5.1.– Il giudice a quo prospetta plurimi dubbi di legittimità costituzionale del solo art. 3, comma 2, della legge n. 18 del 2015, il quale, come già detto, abrogando l’art. 5 della legge n. 117 del 1988, ha eliminato il “filtro di ammissibilità” della domanda risarcitoria proposta nei confronti dello Stato.

Il Tribunale ordinario di Genova reputa, preliminarmente, che la soppressione del meccanismo dianzi descritto non possa trovare «pertinente» giustificazione nel richiamo alle pronunce «della Corte di Strasburgo» o di quelle della Corte di giustizia dell’Unione europea, il cui fondamento non riposerebbe sulla «responsabilità del singolo magistrato, ma (su) quella dello Stato», con la conseguenza che tali decisioni «non imponevano alcuna modifica della legge n. 117/1988 dal punto di vista processuale».

Ciò premesso, il rimettente ritiene che la disposizione denunciata violerebbe, anzitutto, l’art. 111 Cost., per contrasto con il principio di ragionevole durata del processo. Il meccanismo di “filtro” risponderebbe, infatti, al comune interesse tanto del cittadino, che si ritenga leso, quanto dello Stato, potenziale responsabile, a che l’eventuale inammissibilità della domanda risarcitoria sia dichiarata al più presto e con procedura snella. In assenza di tale meccanismo, i tempi per la pronuncia sono invece quelli del processo ordinario, di «lunghezza eccessiva ed irragionevole».

La norma censurata violerebbe, inoltre, l’art. 3 Cost., sotto il duplice profilo della disparità di trattamento e della irragionevolezza. L’abolizione del “filtro”, da essa disposta, contrasterebbe, infatti, con il sempre più diffuso ricorso del legislatore a meccanismi di questo tipo e, in particolare, con l’avvenuta introduzione di «pronunce semplificate di inammissibilità» in rapporto alle impugnazioni ordinarie: istituti, questi ultimi, comparabili all’azione prevista dalla legge n. 117 del 1988, atteggiandosi essa, spesso, come un «processo sul processo» (il riferimento del rimettente è alle previsioni degli artt. 348-bis e 348-ter cod. proc. civ., quanto all’appello, e degli artt. 360-bis e 375, primo comma, numeri 1 e 5, cod. proc. civ., quanto al ricorso per cassazione).

L’intervento abrogativo censurato pregiudicherebbe, inoltre, l’attuazione del giusto processo – così integrando un ulteriore vulnus all’art. 111 Cost. − anche nel giudizio nel quale si assume essersi verificato il fatto dannoso. Imbrigliando immediatamente le azioni di responsabilità inammissibili o palesemente infondate, il meccanismo processuale soppresso svolgerebbe, infatti, una essenziale funzione di tutela della serenità di giudizio del giudice, scongiurando il pericolo della cosiddetta «giurisprudenza “difensiva”», ossia che il giudice abdichi alla propria posizione di terzietà e imparzialità in favore delle decisioni che appaiono per lui meno “rischiose”.

Risulterebbero altresì violati i principi di soggezione del giudice solo alla legge (art. 101 Cost.) e di autonomia e indipendenza della magistratura (art. 104 Cost.), alla luce delle affermazioni della giurisprudenza costituzionale secondo cui la presenza di un “filtro”, che ponga il giudice al riparo da domande temerarie o intimidatorie, dovrebbe ritenersi indispensabile per la salvaguardia dei corrispondenti valori (sono citate le sentenze n. 468 del 1990, n. 18 del 1989 e n. 2 del 1968).

La norma censurata si porrebbe, infine, in contrasto con il principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 25 Cost.). In mancanza del meccanismo del “filtro”, infatti, il magistrato sarebbe incentivato ad esercitare la facoltà di intervento nel giudizio risarcitorio prevista dall’art. 6 della legge n. 117 del 1988, non essendo più nettamente distinto l’esame dei profili di ammissibilità della domanda da quello del merito: ciò che, rendendolo parte di quel giudizio, farebbe scattare l’obbligo di astensione nel processo originario ai sensi dell’art. 51, primo comma, numero 3), cod. proc. civ. In ogni caso, il giudice potrebbe ravvisare i presupposti per un’astensione facoltativa. In conseguenza, la proposizione dell’azione di responsabilità potrebbe costituire indiretto strumento per distogliere la causa dal suo giudice naturale.

5.2.– Movendo dal preliminare riferimento del giudice a quo alle decisioni della Corte di giustizia dell’Unione europea, va rammentato come un forte stimolo alla riforma operata dalla legge n. 18 del 2015 sia venuto proprio dai principi affermati dalla Corte di Lussemburgo, riguardo all’obbligo degli Stati membri di riparare i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario (ora, dell’Unione europea) commesse da organi giurisdizionali nazionali (anche di ultimo grado): principi con i quali alcune delle limitazioni previste dalla legge n. 117 del 1988 sono state ritenute incompatibili (Corte di giustizia, grande sezione, sentenza 13 giugno 2006, in causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo spa), tanto da dar luogo all’apertura di una procedura di infrazione, decisa in senso sfavorevole per il nostro Paese (Corte di giustizia, sentenza 24 novembre 2011, in causa C-379/10, Commissione europea contro Repubblica italiana).

Nel contesto di tali principi, assumono qui rilievo, in particolare, quelli relativi alla “giustiziabilità” della pretesa risarcitoria del danneggiato.

La Corte di Giustizia, a partire dalla nota pronuncia Köbler (sentenza 30 settembre 2003, in causa C-224/01, Gerhard Köbler), ebbe infatti a statuire che «[…] è nell’ambito delle norme del diritto nazionale relative alla responsabilità che lo Stato è tenuto a riparare le conseguenze del danno provocato, fermo restando che le condizioni stabilite dalle legislazioni nazionali in materia di risarcimento dei danni non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano reclami analoghi di natura interna e non possono essere congegnate in modo da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento».

In tale affermazione – ribadita dai costanti arresti successivi (ex multis, Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, sentenza 13 marzo 2007, in causa C-524/04, Test Claimants in the ThinCap Group Litigation; Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 25 novembre 2010, in causa C-429/09, Günter Fuß; Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 9 settembre 2015, in causa C-160/14, João Filipe Ferreira da Silva e Brito e altri) – risultano compendiati tanto il «principio di equivalenza» quanto il «principio di effettività», i quali così assurgono a cardini necessari di ogni diritto nazionale in tema di responsabilità dello Stato per le conseguenze del danno provocato da provvedimenti giurisdizionali adottati in violazione del diritto europeo.

Il «principio di equivalenza» − secondo denominazione propria ed originale della Corte di giustizia – postula che le condizioni stabilite dalle legislazioni nazionali in materia di risarcimento dei danni nei confronti dello Stato, per la responsabilità civile in esito alla violazione del diritto europeo per mezzo di provvedimento giurisdizionale, non possono essere «meno favorevoli» di quelle riguardanti analoghi reclami di natura interna, vale a dire delle altre “normali” azioni risarcitorie esercitabili dai cittadini nei confronti dello Stato in altre e diverse materie.

Il «principio di effettività» esige, poi, che i meccanismi procedurali del diritto nazionale non siano congegnati in modo da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento.

5.3.– L’affermazione di tali principi − pur se non immediatamente e specificamente pretensivi dell’abolizione del cosiddetto “filtro di ammissibilità” contemplato dall’art. 5 della legge n. 117 del 1988 – ha rappresentato un considerevole mutamento del quadro normativo di riferimento in tema di responsabilità civile dello Stato e del giudice, finendo inevitabilmente per ispirare e permeare l’intervento riformatore, sul punto, della legge n. 18 del 2015. Al riguardo, il legislatore ha ritenuto che, per un verso, l’azione di responsabilità nei confronti dello Stato per i danni conseguenti ad un provvedimento giudiziario non si collocasse in una condizione di equivalenza rispetto alle azioni risarcitorie nei confronti dello Stato in altre materie che non prevedono un simile “filtro” e, per altro verso, che l’esperienza applicativa della legge n. 117 del 1988, arrestando le azioni di danno contro lo Stato in larghissima misura nella fase della delibazione preliminare, non avesse garantito l’effettività del risarcimento per il cittadino danneggiato. È appena il caso di sottolineare, al proposito, che l’intervento riformatore non era evidentemente limitabile alle sole violazioni del diritto europeo, se non al prezzo di determinare una irragionevole disparità di trattamento rispetto alle violazioni delle norme del diritto nazionale che fossero all’origine, anch’esse, di danno per il cittadino.

Come più volte affermato da questa Corte, nella materia in esame occorre perseguire il delicato bilanciamento tra due interessi contrapposti: da un lato, il diritto del soggetto ingiustamente danneggiato da un provvedimento giudiziario ad ottenere il ristoro del pregiudizio patito, posto che «una legge che negasse al cittadino danneggiato dal giudice qualunque pretesa verso l’amministrazione statale sarebbe contraria a giustizia» (sentenza n. 2 del 1968); dall’altro, la salvaguardia delle funzioni giudiziarie da possibili condizionamenti, a tutela dell’indipendenza e dell’imparzialità della magistratura, «in quanto la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati, specie in considerazione dei disposti costituzionali appositamente dettati per la Magistratura (artt. 101 e 113), a tutela della sua indipendenza e dell’autonomia delle sue funzioni» (sentenza n. 26 del 1987).

Tale bilanciamento è stato operato anche dalla legge di riforma n. 18 del 2015, fondamentalmente tramite una più netta divaricazione tra la responsabilità civile dello Stato nei confronti del danneggiato − che le istituzioni europee chiedevano con forza di espandere − e la responsabilità civile del singolo magistrato. Il legislatore della riforma ha cioè mirato a superare la piena coincidenza oggettiva e soggettiva degli àmbiti di responsabilità dello Stato e del magistrato e, in tale prospettiva, ha ritenuto di ampliare il perimetro della prima a prescindere dai confini, più ristretti, della seconda, così stemperando il meccanico ed automatico effetto dell’accertamento della responsabilità dello Stato sul magistrato nel giudizio di rivalsa.

In tale cornice di rinnovato bilanciamento normativo − i cui termini sono rimessi alla discrezionalità del legislatore, nei limiti della ragionevolezza − si colloca la scelta legislativa di abolizione del cosiddetto “filtro di ammissibilità”, ritenuta funzionale al nuovo impianto normativo, specie se riguardata alla luce dei già ricordati principi affermati dalla Corte di giustizia dell’Unione europea. Non è costituzionalmente necessario, infatti, che, per bilanciare i contrapposti interessi di cui si è detto, sia prevista una delibazione preliminare dell’ammissibilità della domanda contro lo Stato, quale strumento indefettibile di protezione dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. Tale esigenza può essere infatti soddisfatta dal legislatore per altra via: ciò è quanto accaduto con la legge n. 18 del 2015, per un verso mediante il mantenimento del divieto dell’azione diretta contro il magistrato e con la netta separazione dei due àmbiti di responsabilità, dello Stato e del giudice; per un altro, con la previsione di presupposti autonomi e più restrittivi per la responsabilità del singolo magistrato, attivabile, in via di rivalsa, solo se e dopo che lo Stato sia rimasto soccombente nel giudizio di danno; per un altro ancora, tramite il mantenimento di un limite della misura della rivalsa. Tanto vale a stornare il paventato pericolo che l’abolizione del meccanismo processuale in esame determini un pregiudizio alla «serenità del giudice» come pure la temuta deriva verso una «giurisprudenza difensiva», ipotesi, questa, che evidentemente oblitera l’elevato magistero proprio di ogni funzione giurisdizionale. Che tutto ciò valga ad escludere il rischio – secondo una direttrice opposta a quanto riscontrato nel precedente assetto circa la sostanziale “irresponsabilità” dei magistrati – di un eventuale abuso dell’azione risarcitoria è questione, poi, che solo l’attuazione nel tempo della nuova disciplina potrà chiarire.

5.4.– Né le conclusioni sopra assunte palesano disarmonia o, tantomeno, contrasto con le pregresse affermazioni sul punto di questa Corte, richiamate dal Tribunale rimettente.

Il giudice a quo evoca taluni contenuti argomentativi delle sentenze n. 2 del 1968 e, soprattutto, n. 18 del 1989 e n. 468 del 1990.

È agevole tuttavia rilevare che la più remota di tali pronunce si è limitata ad affermare in termini generali, come già ricordato, l’esigenza di prevedere «condizioni e limiti» alla responsabilità del magistrato, avuto riguardo alla situazione normativa dell’epoca (che prevedeva una responsabilità civile diretta del magistrato limitata ai casi di dolo, frode, concussione e denegata giustizia, condizionando la domanda risarcitoria all’autorizzazione del Ministro di grazia e giustizia: originari artt. 55, 56 e 74 cod. proc. civ.). Affermazione, questa, di imprescindibile ed immutabile valenza, ma che risulta, al più, neutra rispetto all’odierno thema decidendum.

Le affermazioni sul preteso «rilievo costituzionale» del filtro sono piuttosto contenute nella già citata sentenza n. 18 del 1989 e, soprattutto, nella n. 468 del 1990. Nella prima di tali pronunce, questa Corte ebbe ad affermare che «la previsione del giudizio di ammissibilità della domanda (art. 5, l. cit.) garantisce adeguatamente il giudice dalla proposizione di azioni “manifestamente infondate”, che possano turbarne la serenità, impedendo, al tempo stesso, di creare con malizia i presupposti per l’astensione e la ricusazione». Nella sentenza n. 468 del 1990, si enunciò poi l’assunto della «indispensabilità di un “filtro” a garanzia della indipendenza ed autonomia della funzione giurisdizionale».

Se doverosamente riguardate nella cornice storica e normativa, oltre che nella specifica occasio che ebbe a determinarle, queste affermazioni risultano tuttavia di valore assai meno dirimente rispetto a quello loro attribuito dalle argomentazioni del tribunale rimettente.

L’affermazione – contenuta nella sentenza n. 18 del 1989 − relativa alla “garanzia adeguata” derivante dal preventivo giudizio di ammissibilità rispetto alla proposizione di azioni manifestamente infondate o temerarie non individua di certo, in tale rimedio, la soluzione unica e costituzionalmente obbligata affinché un sistema di responsabilità civile non risulti strutturalmente lesivo dell’autonomia ed indipendenza della magistratura, incidendo sul “perturbamento della serenità” del giudice. Già si è osservato che, in un mutato quadro storico e normativo, il legislatore ha praticato, in forme diverse e non censurabili per irragionevolezza, quel bilanciamento di valori contrapposti che, vigente la legge n. 117 del 1988, risultava svolto dal meccanismo procedurale in esame, oggi abrogato dalla norma censurata. Ciò è tanto più vero considerando, inoltre, che, anche a mezzo della citata argomentazione, questa Corte, con la sentenza n. 18 del 1989, ebbe a ritenere non fondato il dubbio di costituzionalità inerente all’«intera l. 13 aprile 1988, n. 117»: dubbio allora prospettato per «la previsione, in sé, di tale responsabilità», reputando, il giudice rimettente dell’epoca, che la stessa introduzione di una disciplina della responsabilità civile dei giudici per colpa grave compromettesse «l’imparzialità della magistratura, con l’attribuire alle parti uno strumento di pressione idoneo ad influenzarne le decisioni». Da qui la precisa valenza che il riferimento alla “garanzia adeguata” del filtro assumeva in quella decisione.

Parimente, anche l’indicata affermazione della sentenza n. 468 del 1990 – circa la «indispensabilità di un “filtro” a garanzia della indipendenza ed autonomia della funzione giurisdizionale» − assume una connotazione diversa rispetto a quella propugnata dal tribunale rimettente di soluzione costituzionalmente imposta. Mette conto, infatti, di rammentare l’assoluta peculiarità della prospettiva da cui tale affermazione trasse origine: quella, cioè, dell’estensione del meccanismo del filtro alle azioni di danno promosse per fatti anteriori alla sua entrata in vigore; azioni che – se pure fortemente limitate nei presupposti, in base all’abrogato art. 55 cod. proc. civ. – avevano, però, come destinatario diretto il magistrato. Come dire che il riferimento all’«indispensabilità di un “filtro”» quale garanzia dell’indipendenza ed autonomia del giudice risultava riferito ad un sistema così congegnato, del tutto diverso da quello odierno che non prevede forme di responsabilità diretta del magistrato.

Alla luce di quanto precede, le questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Genova in riferimento ai principi di indipendenza e autonomia della magistratura e di terzietà e imparzialità del giudice, di cui agli artt. 101, 104 e 111 Cost., debbono ritenersi quindi non fondate.

5.5.– Infondato è, altresì, il dubbio di costituzionalità avanzato dal giudice a quo in relazione all’art. 3 Cost., sulla base della ritenuta irragionevolezza intrinseca della soppressione del filtro di ammissibilità e della violazione del principio di eguaglianza rispetto alle «pronunce semplificate di inammissibilità» introdotte dal legislatore in rapporto alle impugnazioni ordinarie.

Invero, l’àmbito del tutto eterogeneo in cui si muove il raffronto prospettato dal rimettente – e rappresentato dagli artt. 348-bis e 348-ter cod. proc. civ., in relazione all’appello, e dagli artt. 360-bis e 375, primo comma, numeri 1) e 5), cod. proc. civ., riguardo al ricorso per cassazione – rende la censura priva di fondamento. La mera «comunanza logica» evocata dal giudice a quo non vale evidentemente ad accomunare normativamente – e, dunque, a rendere comparabili − strumenti deflattivi e semplificativi innestati dal legislatore nel regime delle impugnazioni civili con l’abrogato meccanismo del “filtro di ammissibilità”, il quale riguardava il giudizio di primo grado, la cui disciplina generale non contempla analoghi meccanismi. E ciò anche a prescindere dalla diversità di scopi degli istituti nonché dalla discrezionalità di cui gode il legislatore nelle scelte in materia processuale, il cui limite della manifesta irragionevolezza, ad ogni modo, non risulta, nel caso in esame, travalicato né in senso assoluto, né “per comparazione”.

5.6.– È altresì infondata la censura dell’art. 3, comma 2, della legge n. 18 del 2015 per violazione del principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 25 Cost.), che si verificherebbe, secondo il giudice rimettente, perché la contemporanea pendenza del giudizio contro lo Stato e di quello principale – agevolata dall’eliminazione del “filtro di ammissibilità” – indurrebbe il giudice del secondo giudizio ad astenersi o all’astensione addirittura lo obbligherebbe, nel caso in cui intervenisse nel giudizio intentato nei confronti dello Stato.

A prescindere dalla considerazione che l’identica situazione oggi paventata dal rimettente ben poteva verificarsi anche in vigenza del meccanismo abrogato, è sufficiente osservare che, secondo la giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 22 luglio 2014, n. 16627), la pendenza della causa di danno contro lo Stato non costituisce motivo di astensione o ricusazione del giudice autore del provvedimento. E ciò – come recentemente affermato dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 23 giugno 2015, n. 13018 – neppure nel caso di intervento del magistrato in detta causa: non vi è, infatti, un rapporto diretto parte-magistrato, che valga a qualificare il secondo come debitore – anche solo potenziale – della prima.

5.7.– È infine non fondata la questione in riferimento all’art. 111 Cost., sotto il profilo del contrasto con il principio della ragionevole durata del processo.

Il giudice a quo – motivando tale dubbio di legittimità costituzionale sulla base dell’assunto che, abolito il filtro preliminare, i tempi per pervenire ad una pronuncia sull’ammissibilità sono invece quelli del processo ordinario, di «lunghezza eccessiva ed irragionevole» − non considera che detto dubbio dovrebbe per ciò stesso inerire a tutti i giudizi civili ordinari se non preceduti da meccanismi di preliminare delibazione della domanda simili a quello contemplato dall’abrogato art. 5 della legge n. 117 del 1988. Ciò che rende di evidente precarietà logica la premessa argomentativa del rimettente e, dunque, non fondata la questione che da essa si sviluppa.

5.8.– In conclusione, tutte le questioni di legittimità costituzionale, aventi per oggetto l’art. 3, comma 2, della legge n. 18 del 2015, prospettate dal Tribunale ordinario di Genova, debbono essere dichiarate non fondate.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 2, comma 1, lettere a), b) e c), 3, comma 2, e 4 della legge 27 febbraio 2015, n. 18 (Disciplina della responsabilità civile dei magistrati), e dell’art. 9, comma 1, della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), come modificato dall’art. 6 della legge n. 18 del 2015, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, primo comma, 81, terzo comma, 101, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Verona, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. «4 e/o 7», 7 e 8, comma 3, della legge n. 117 del 1988, come modificati o sostituiti dalla legge n. 18 del 2015, e dell’art. 3, comma 2, della legge n. 18 del 2015, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 25, 101, «101 e seguenti», 104 e 113 Cost., dal Tribunale ordinario di Treviso, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

3) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 3, 7, 8, comma 3, e 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988, come modificati o sostituiti dalla legge n. 18 del 2015, e dell’art. 3, comma 2, della legge n. 18 del 2015, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 28, 101, 111 e «101-113» Cost., dal Tribunale ordinario di Catania, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

4) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2 e 3, della legge n. 117 del 1988, come sostituito dall’art. 2, comma 1, lettere b) e c), della legge n. 18 del 2015, sollevate, in riferimento agli artt. 101, secondo comma, 104, primo comma, 107, terzo comma, e 134 Cost., dal Tribunale ordinario di Enna, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

5) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, della legge n. 18 del 2015, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 25, 101, 104 e 111 Cost., dal Tribunale ordinario di Genova con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 aprile 2017.

F.to:

Paolo GROSSI, Presidente

Franco MODUGNO, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 12 luglio 2017.