Anche una millanteria può costituire mezzo idoneo a turbare ed ostacolare l’operato del pubblico ufficiale, per effetto della prospettazione di conseguenze pregiudizievoli attraverso la presentazione di un esposto calunnioso con l’implicito riferimento alla possibilità di creare problemi grazie alle proprie conoscenze influenti.
Una frase oltraggiosa è reato se sono presenti persone diverse dai pubblici ufficiali destinatari delle espressioni oltraggiose.
Corte di Cassazione
sez. VI Penale, sentenza 4 giugno – 10 luglio 2019, n. 30424
Presidente Ricciarelli – Relatore Amoroso
Ritenuto in fatto
1. Con il provvedimento in epigrafe, la Corte d’Appello di Messina ha confermato la sentenza emessa in data 24/02/2016 dal Tribunale di Messina, con cui il ricorrente è stato condannato alla pena di mesi sette di reclusione per i reati di cui agli artt. 337 e 341 bis c.p..
In particolare, il ricorrente è stato ritenuto responsabile di avere minacciato due agenti della polizia di Stato per opporsi alla contestazione di una violazione del codice della strada e di avere oltraggiato un terzo agente in presenza di altre persone; in (omissis) .
2. Tramite il proprio difensore di fiducia, A.G. ha proposto ricorso, articolando i motivi di seguito indicati.
2.1. Con il primo motivo si deduce cumulativamente il vizio della motivazione e di violazione di legge in ordine alla riconosciuta sussistenza della minaccia, non essendo la prospettazione di una azione legale idonea a condizionare o ad ostacolare l’esercizio della funzione, ed essendo la minaccia contraddetta in fatto dalla sollecitazione rivolta nel medesimo contesto agli agenti di velocizzare la loro attività di verbalizzazione per esortarli a procedere con solerzia.
2.2. Con il secondo motivo si deduce il vizio di motivazione e di violazione di legge, in difetto della presenza di più persone diverse da quelle fatte oggetto delle espressioni oltraggiose, che sono state pronunciate all’interno dei locali del posto di polizia in cui l’imputato è stato condotto dopo il controllo stradale.
Considerato in diritto
1. Il primo motivo di ricorso relativo all’assenza della minaccia è infondato.
Costituisce, infatti, ius receptum nella consolidata giurisprudenza di questa Corte il principio per il quale il reato di resistenza a pubblico ufficiale è stato tipicizzato dal legislatore soltanto sotto il profilo teleologico, come volontà diretta ad impedire la liberta d’azione del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, di talché la minaccia o la violenza possono consistere in qualunque mezzo di coazione fisica o psichica diretto in modo idoneo ed univocamente a raggiungere lo scopo di impedire, turbare, ostacolare l’atto di ufficio o di servizio intrapreso, ciò perché l’idoneità della minaccia va valutata con giudizio "ex ante", a nulla rilevando il fatto che in concreto i destinatari non siano stati intimiditi e che il male minacciato non si sia realizzato (Sez. 6, n. 32390, 16/04/2008, Rv. 240650).
È evidente, dalla ricostruzione del fatto come descritta nel giudizio di merito, che il ricorrente abbia cercato di ostacolare l’attività degli agenti, facendo intendere di essere in grado di arrecare loro problemi in sede giudiziaria, millantando di averlo già fatto contro altri agenti, quindi prospettando implicitamente la presentazione di una denuncia calunniosa.
Non vi è dubbio che anche una millanteria può costituire mezzo idoneo a turbare ed ostacolare l’operato del pubblico ufficiale, per effetto della prospettazione di conseguenze pregiudizievoli attraverso la presentazione di un esposto calunnioso con l’implicito riferimento alla possibilità di creare problemi grazie alle proprie conoscenze influenti.
Inammissibile è, invece, il rilievo sulla asserita contraddittorietà tra la minaccia e l’invito rivolto agli agenti ad accelerare i tempi della verbalizzazione, trattandosi di una valutazione di merito rivolta a sollecitare una differente ricostruzione del fatto non consentita in sede di legittimità, essendo la motivazione sul punto del tutto logica e coerente alle risultanze probatorie.
2. Il secondo motivo addotto dal ricorrente relativamente al reato di oltraggio è inammissibile perché afferisce alla ricostruzione del fatto, attraverso una diversa ed alternativa lettura delle risultanze istruttorie, riproducendo le stesse doglianze che hanno costituito l’oggetto delle censure di merito avanzate in sede di appello, già esaminate e respinte con adeguata motivazione, immune da vizi logici.
Con esso si propongono deduzioni che implicano una rivalutazione nel merito della sentenza da parte di questa Corte, non consentita in sede di legittimità.
Il reato di oltraggio a pubblico ufficiale previsto dall’art. 341 bis c.p., richiede per la sua integrazione che l’offesa all’onore e al prestigio del pubblico ufficiale mentre egli compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni avvenga in luogo pubblico o aperto al pubblico ed in presenza di più persone, estremo quest’ultimo che deve essere provato non potendo essere affidato, quanto alla sua sussistenza, a valutazioni presuntive.
Il ricorrente contesta la sussistenza del presupposto della presenza di più persone, sulla base del rilievo che la frase oltraggiosa è stata rivolta a tutti i tre agenti presenti, e che secondo l’orientamento seguito dalla Cassazione perché possa dirsi sussistente tale requisito, è necessario che siano presenti persone diverse dai pubblici ufficiali destinatari delle espressioni oltraggiose (Sez. 6, 16/06/2016, n. 27955).
Si tratta, pertanto, di un rilievo che muove da una ricostruzione del fatto diversa da quella accertata nel giudizio di merito, secondo cui la frase oltraggiosa era diretta a soltanto uno dei tre agenti.
Quindi, il motivo appare manifestamente infondato, perché volto a censurare non già l’interpretazione della norma penale, ma la ricostruzione del fatto, non suscettibile di nuovo accertamento, in presenza di una motivazione sul punto adeguata e coerente alle risultanze istruttorie che hanno fatto emergere come l’espressione fosse stata rivolta ad un agente diverso dai due agenti che sono intervenuti al momento del controllo stradale.
3. Dal rigetto del ricorso consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.