Le presunzioni legali previste dalle norme tributarie non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato, assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell'esistenza della condotta criminosa.
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 8 aprile? 9 settembre 2014, n. 37302
Presidente Squassoni? Relatore Orilia
Ritenuto in fatto
La Corte d'Appello di L'Aquila con sentenza 19.7.2013 ha confermato la condanna alla pena di anni uno e mesi due di reclusione emessa dal Tribunale di Chieti, sez. Ortona, nei confronti di D.B.D. , ritenuto responsabile di dichiarazione infedele relativa agli anni di imposta 2004 e 2005 (art. 4 D. L.vo n. 74/2000). La Corte ha motivato rilevando che i numerosi versamenti sui vari conti della CED srl da lui amministrata non avevano trovato nessun riscontro nelle scritture contabili; inoltre, secondo quanto riferito dal funzionario dell'Agenzia delle Entrate, escusso in qualità di teste, l'imputato non aveva fornito alcuna giustificazione in sede di contradditorio con l'Ufficio Finanziario. Ha poi ritenuto priva di riscontro,oltre che tardiva, la tesi difensiva dei giroconti effettuati per fare fronte a pagamenti di assegni di altre società riconducibili al prevenuto.
Quanto al trattamento sanzionatorio, la Corte d'Appello ha confermato la pena inflitta dal primo giudice, attestata sul minimo edittale, ritenendo giustificato l'aumento per la recidiva in considerazione dell'esistenza di precedenti penali per reati quasi tutti connessi all'esercizio dell'attività imprenditoriale.
L'imputato - tramite i difensori - ricorre per cassazione con tre motivi.
Considerato in diritto
Con il primo motivo denunzia l'erronea applicazione dell'art. 4 del D. Lvo n. 74/2000 e dell'art. 32 del DPR n. 600/1973 nonché l'inutilizzabilità in sede penale degli accertamenti induttivi effettuati dall'Agenzia. Ritiene infatti che il giudice, invertendo l'onere probatorio nel processo penale, ha attribuito rilievo alle risultanze degli accertamenti induttivi compiuti ai sensi dell'art. 32 del DPR n. 600/1973, attività consentita solo nel processo tributario perché, come affermato dalla giurisprudenza, il riscontro in sede penale non può basarsi su presunzioni, ma su fatti positivi e concreti e il relativo accertamento può venire anche in contraddizione con quello effettuato in sede tributaria.
Con un secondo motivo, denunziando l'insufficienza e illogicità della motivazione in ordine alla sussistenza dell'evasione tributaria e all'ammontare dell'imposta evasa, il ricorrente rimprovera ancora una volta alla Corte d'Appello di avere fatto applicazione del regime probatorio valevole in sede tributaria attraverso un recepimento acritico delle risultanze dell'accertamento induttivo, ignorando il contenuto delle risultanze probatorie in atti, ritenute insuscettibili di superare la presunzione legale di cui all'art. 32 del DPR n. 600/1973. Rileva che i movimenti finanziari contestati risultavano per tabulas regolarmente annotati nelle scritture contabili con imputazione ai soci beneficiari e che l'Agenzia delle entrate non ha mai contestato l'inesistenza o la falsità delle registrazioni che giustificasse il ricorso all'art. 32 succitato. Osserva che per tutte le operazioni l'Agenzia aveva trovato riscontro in contabilità laddove tutti i prelevamenti e i versamenti contenevano l'indicazione dei rispettivi beneficiari.
Ripropone la tesi dei giroconti da lui effettuati quale legale rappresentante di diverse società, per far fronte al pagamento di assegni, trovandosi in un momento di difficoltà finanziaria e rileva che una perizia contabile avrebbe confermato la circostanza.
Le censure - che ben si prestano a trattazione unitaria in quanto entrambe introducono il tema dell'utilizzabilità in sede penale degli accertamenti induttivi svolti dall'Agenzia delle Entrate - sono fondate.
In tema di reati tributari, ai fini della configurabilità del reato di omessa dichiarazione ai fini di evasione dell'imposta sui redditi (art. 5, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74) non può farsi ricorso alla presunzione tributaria secondo cui tutti gli accrediti registrati sul conto corrente si considerano ricavi dell'azienda (art. 32, comma primo n. 2, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600), in quanto spetta al giudice penale la determinazione dell'ammontare dell'imposta evasa procedendo d'ufficio ai necessari accertamenti, eventualmente mediante il ricorso a presunzioni di fatto (tra le varie, Sez. 3, Sentenza n. 5490 del 26/11/2008 Ud. dep. 06/02/2009 Rv. 243089; Sez. 3, Sentenza n. 36396 del 18/05/2011 Ud. dep. 07/10/2011 Rv. 251280; sez. 3^, 26.2.2008 n. 21213, De Cicco, RV 239984 e, più di recente, Sez. 3, Sentenza n. 7078 del 23/01/2013 Cc. dep. 13/02/2013 Rv. 254852 in tema di dichiarazione infedele). Si è precisato in particolare che ai fini dell'accertamento in sede penale, deve darsi prevalenza al dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l'ordinamento tributario Sez. 3, Sentenza n. 21213 del 26/02/2008 Ud. dep. 28/05/2008 Rv. 239983). Insomma, le presunzioni legali previste dalle norme tributarie non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato, assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell'esistenza della condotta criminosa (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 7078/2013 cit.).
Il principio di diritto è dunque senz'altro applicabile anche alla fattispecie in esame in cui si discute appunto della sussistenza del reato di dichiarazione infedele.
Ebbene, nel caso di specie, i giudici di merito si sono discostati da tali insegnamenti: secondo la Corte d'Appello, infatti, i versamenti sui conti correnti dell'impresa non possono che essere ritenuti proventi di attività commerciale esercitata, in mancanza di prova contraria ed in proposito sono state richiamate le risultanze del contraddittorio svoltosi davanti con l'Agenzia delle Entrate nel corso del procedimento amministrativo: nessun accertamento è stato dunque compiuto per determinare l'ammontare dell'imposta evasa, nemmeno in base a presunzioni di fatto, ribaltandosi invece sul contribuente l'onere della prova liberatoria.
Si impone pertanto l'annullamento con rinvio per un nuovo esame alla stregua degli esposti principi, restando così logicamente assorbito l'esame del terzo ed ultimo motivo, attinente al trattamento sanzionatolo (aumento di pena per la recidiva e mancata concessione delle attenuanti generiche con prevalenza sulla aggravante).
P.Q.M.
annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d'Appello di Perugia.