Non c'è il reato di resistenza di pubblico ufficiale nel caso in cui l’agente ponga in essere una condotta di mera resistenza passiva, come nel caso egli si dia semplicemente alla fuga, ovvero quando si limiti a divincolarsi come una reazione spontanea ed istintiva al compimento dell’atto del pubblico ufficiale.
Integra l’elemento materiale della violenza del delitto di resistenza a pubblico ufficiale anche la condotta del soggetto che si dia alla fuga alla guida di una autovettura, allorquando egli non si limiti a cercare di sottrarsi all’inseguimento, ma ponga deliberatamente in pericolo, con una condotta di guida obiettivamente pericolosa, l’incolumità personale degli agenti inseguitori o degli altri utenti della strada.
Corte di Cassazione
sez. VI Penale, sentenza 2 febbraio – 5 aprile 2017, n. 17061
Ritenuto in fatto
1. Con il provvedimento in epigrafe, la Corte d’appello di Messina ha confermato la sentenza del (..) Tribunale di Messina ha condannato alle pene di legge, all’esito del giudizio abbreviato, B.A. in ordine ai reati di detenzione a fine di spaccio di 266,70 grammi di canapa indiana e di resistenza a pubblico ufficiale.
2. Avverso il provvedimento ha presentato ricorso l’Avv. GT, difensore di fiducia di B.A. , e ne ha chiesto l’annullamento per i seguenti motivi:
2.1. violazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione all’art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, per avere la Corte d’appello confermato il giudizio di penale responsabilità sebbene, come specificamente rilevato nell’atto d’impugnazione, manchi la prova, sotto entrambi i profili oggettivo e soggettivo, della destinazione della sostanza ad un uso non esclusivamente personale;
2.2. violazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione all’art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, per avere la Corte escluso la configurabilità dell’ipotesi lieve, sebbene il dato quantitativo dello stupefacente non sia rilevante e la somma di denaro rinvenuta nella disponibilità del ricorrente sia modesta;
2.3. violazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione all’art. 377 cod. pen., per avere la Corte ritenuto erroneamente integrato il reato di resistenza a pubblico ufficiale sebbene l’imputato si sia limitato a darsi alta fuga e dunque a tenere un comportamento meramente passivo;
2.4. violazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione all’art. 133 cod. pen., per avere la Corte confermato la pena irrogata in primo grado omettendo di indicare le ragioni per le era quali essa stata commisurata al di sopra del minimo edittale;
2.5. violazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione all’art. 133 cod. pen., per avere la Corte escluso l’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche, argomentando del tutto genericamente in merito al presunto “collegamento del ricorrente con ambienti criminali di sicuro spessore”, senza in effetti circostanziare l’assunto, né motivare in ordine alle specifiche deduzioni mosse nell’atto d’appello.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è fondato con limitato riguardo alla deduzione concernente il reato di resistenza a pubblico ufficiale, mentre deve essere dichiarato inammissibile con riferimento alle restanti censure.
2. Oltre a replicare i rilievi già mossi in appello senza confrontarsi con la risposta data dal Collegio del gravame (il che già riverbera in termini di inammissibilità dei motivi, v. Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone e altri, Rv. 243838), il primo ed il secondo motivo sono volti a sollecitare una rilettura delle emergenze probatorie con specifico riguardo alla destinazione della sostanza ad un uso non esclusivamente personale ed alla integrazione dell’ipotesi c.d. lieve di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.
2.1. D’altronde, l’argomentare in risposta al primo motivo è scevro da illogicità manifeste, là dove la Corte territoriale ha escluso la finalizzazione all’uso personale della sostanza detenuta dal B. valorizzando: a) la disponibilità in capo al B. di un quantitativo di stupefacente ampiamente eccedente il ragionevole fabbisogno per il consumo personale; b) la circostanza che il compendio fosse sequestrato fuori dall’abitazione, in un contesto non compatibile con l’immediata destinazione al consumo; c) il fatto che lo stesso imputato non abbia dato una spiegazione alternativa delle ragioni per le quali avrebbe acquistato il consistente quantitativo di droga sequestratogli affrontando un significativo esborso economico per una sostanza vegetale destinata a perdere rapidamente le qualità stupefacenti e, dunque, prima del tempo necessario per essere consumato da una sola persona; d) la disponibilità nell’abitazione di un ulteriore quantitativo di canapa indiana già frazionato. Il Collegio del gravame ha dunque operato una valutazione unitaria e ragionata di una pluralità di dati sintomatici, traendone conclusioni conformi a ragionevolezza ed a condivise massime d’esperienza, non sindacabile nella sede di legittimità.
2.2. Analoghe considerazioni valgono quanto al secondo motivo, avendo il Giudice d’appello escluso i presupposti dell’ipotesi lieve, correttamente evidenziando il rilevante dato ponderale della sostanza detenuta dal B. (grammi 266,70), seppure di specie c.d. leggera.
Al riguardo occorre invero chiarire che, ai fini del riconoscimento della fattispecie incriminatrice del fatto di lieve entità di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, il giudice è tenuto a valutare, secondo una visione unitaria e globale, tutti gli elementi normativamente indicati. Quindi, sia quelli concernenti l’azione (mezzi, modalità e circostanze della stessa), sia quelli attinenti all’oggetto materiale del reato (quantità e qualità delle sostanze stupefacenti oggetto della condotta criminosa) come manifestatisi nel peculiare caso di specie, senza nessun automatismo o preclusione derivante dalla natura delle sostanze, anche se eterogenea, né dalle modalità organizzate della condotta, potendo escludere il riconoscimento della fattispecie in ragione del mero dato quantitativo ovvero dei soli connotati dell’azione soltanto qualora possano ritenersi dimostrativi di una significativa, concreta e non virtuale potenzialità offensiva e, dunque, di un pericolo non circoscritto di diffusività della sostanza, incompatibile con la fattispecie incriminatrice in parola.
A tali indicazioni ermeneutiche si è attenuto il Giudice a quo, là dove ha rimarcato come la quantità di stupefacente oggetto della condotta risulti “considerevole”, così da rendere evidente la significativa potenzialità offensiva del fatto ed il pericolo di diffusività della sostanza e da precludere l’inquadramento della fattispecie concreta nell’invocata ipotesi incriminatrice.
3. Sono inammissibili anche le ultime due deduzioni concernenti la determinazione della pena (non sul minimo edittale) e la denegata applicazione delle circostanze attenuanti generiche.
3.1. Occorre rammentare come la determinazione della pena entro il minimo e il massimo edittale rientri tra i poteri discrezionali del giudice di merito e come sia pertanto insindacabile nella sede di legittimità allorché non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione (Cass. Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, Ferrario Rv. 259142).
Adeguata motivazione che si rinviene nella specie là dove i Giudici della cognizione hanno bene argomentato la commisurazione della pena (in anni due e mesi sei di reclusione e 8000 Euro di multa, con aumento per la continuazione di mesi sei di reclusione e 1000 Euro di multa), osservando che il lieve scarto rispetto al minimo edittale è ampiamente giustificato dal precedente dell’imputato e dalla condotta tenuta da questo nell’immediatezza del fatto e nel corso del giudizio.
3.2. Ineccepibile è anche la motivazione svolta dalla Corte che ha ritenuto insussistenti i presupposti per applicare le circostanze attenuanti generiche in assenza di elementi positivamente valutabili, in linea con la costante giurisprudenza di legittimità (Sez. 3, n. 19639 del 27/01/2012, Gallo e altri, Rv. 252900).
4. Come anticipato, è di contro fondato il terzo motivo concernente la contestazione di resistenza a pubblico ufficiale.
4.1. In via preliminare, mette conto di rilevare come il reato di resistenza a pubblico ufficiale postuli, giusta il chiaro dato normativo, la “violenza” o la “minaccia” per opporsi all’atto d’ufficio o di servizio, il che presuppone – quanto alla prima ipotesi – un vero e proprio impiego di forza da parte dell’agente e quanto alla seconda ipotesi – l’attuazione di un comportamento percepibile come minaccioso, in entrambi i casi volto a contrastare il compimento dell’atto del pubblico ufficiale. Se ne inferisce che il delitto non è configurabile nel caso in cui l’agente ponga in essere una condotta di mera resistenza passiva, come nel caso egli si dia semplicemente alla fuga, ovvero (ma si tratta di fattispecie che non viene in rilievo nel caso di specie) quando si limiti a divincolarsi come una reazione spontanea ed istintiva al compimento dell’atto del pubblico ufficiale.
Nondimeno, come questa Corte ha avuto modo di chiarire, integra l’elemento materiale della violenza del delitto di resistenza a pubblico ufficiale anche la condotta del soggetto che si dia alla fuga alla guida di una autovettura, allorquando egli non si limiti a cercare di sottrarsi all’inseguimento, ma ponga deliberatamente in pericolo, con una condotta di guida obiettivamente pericolosa, l’incolumità personale degli agenti inseguitori o degli altri utenti della strada (Sez. F, n. 40 del 10/09/2013, dep. 2014, E., Rv. 257915).
In tale caso, l’autore del fatto non si limita a tentare un commodus discessus a bordo di un mezzo di locomozione e dunque a sottrarsi all’atto dovuto del pubblico ufficiale, ma tiene un comportamento di guida integrante di per sé – in considerazione della pericolosità delle manovre attuate per seminare gli inseguitori e della messa a repentaglio dell’incolumità di essi e degli altri utenti della strada – gli estremi della “violenza” o comunque della “minaccia” rilevanti ai fini della integrazione della fattispecie incriminatrice in parola. Pur allontanandosi dai pubblici ufficiali, l’agente pone, difatti, in atto nei loro riguardi o comunque della collettività (la cui incolumità e sicurezza sono tenuti a proteggere gli operanti), una condotta aggressiva o comunque minacciosa seppure attuata mediante il mezzo di locomozione – al fine di indurli a soprassedere dal compimento dell’atto d’ufficio e, dunque, realizza un’intenzionale opposizione ad esso.
In questo senso, questa Corte ha avuto modo di affermare che, nel reato di resistenza a pubblico ufficiale, la violenza o minaccia deve consistere in un comportamento idoneo ad opporsi all’atto che il pubblico ufficiale sta legittimamente compiendo, in grado di ostacolarne la realizzazione; sicché, in mancanza di elementi che rendano evidente la messa in pericolo per la pubblica incolumità e l’indiretta coartazione psicologica dei pubblici ufficiali, l’agente non deve rispondere di tale reato (nella specie, il soggetto, alla guida di un’autovettura, non si era fermato con il segnale “rosso” ed aveva tentato di sottrarsi all’inseguimento degli agenti, viaggiando ad elevata velocità) (Sez. 6, n. 35448 del 08/07/2002, dep. 2003, P.M. in proc. De Santi, Rv. 226686).
È ovvio che la demarcazione fra una condotta di fuga meramente passiva, non dante luogo al reato de quo, ed una condotta di fuga invece connotata da sia pur minimi tratti di offensività o di messa in pericolo dell’incolumità personale di terzi (pubblici ufficiali o estranei), integrante invece la fattispecie, postula un attento e puntuale accertamento delle modalità esecutive del comportamento di guida tenuto dall’agente, che potrà ritenersi sussumibile nell’ipotesi di cui all’art. 337 cod. pen. soltanto allorquando risulti volto non meramente ad eludere, a sfuggire passivamente, ma ad intralciare attivamente l’atto d’ufficio del pubblico agente, con una condotta violenta o comunque lato sensu intimidatoria, volontaria e diretta a tale scopo.
4.2. In ossequio al principio di diritto testé delineato, giudica il Collegio che, nella specie, non possa ritenersi provato – al di là di ogni ragionevole dubbio che B. sia fuggito agli operanti tenendo una condotta di guida tale da porre deliberatamente in pericolo l’incolumità personale degli agenti inseguitori e della collettività e, dunque, da integrare la contestata resistenza.
Secondo la ricostruzione storico fattuale operata dai Giudici della cognizione, il ricorrente si limitò a condurre il motociclo in modo imprudente, ma non per questo – almeno per quanto dato genericamente conto negli atti di P.G. utilizzati ai fini della decisione del giudizio abbreviato e compendiati nelle sentenze di merito – tale da integrare gli estremi del reato ex art. 337 cod. pen.. Ed invero, come si legge nella decisione di primo grado, la responsabilità del B. per il reato in oggetto è stata argomentata sulla scorta della considerazione, del tutto vaga, che egli poneva “a serio repentaglio l’incolumità fisica degli agenti”; nella pronuncia d’appello in verifica, si è fatto riferimento, in termini altrettanto approssimativi, ad una condotta “obbiettivamente pericolosa”, “imprudente e non rispettosa delle regole della circolazione stradale” ed al fatto che, abbandonato il motociclo, B. aveva tentato “di proseguire la fuga a piedi”.
Ritiene il Collegio che, tenuto conto dell’evidenziata mancanza di indicazioni specifiche quanto alle manovre in concreto attuate dal B. nel frangente e soprattutto – all’effettiva messa in pericolo dell’incolumità personale altrui, anche alla luce del tenore della imputazione elevata nella quale è contestato al ricorrente soltanto di essere fuggito “a velocità elevata”, non possa ritenersi provato con certezza che l’imputato abbia posto in essere una sia pur minima forma di violenza o di minaccia volta ad impedire l’atto del pubblico ufficiale. Difetto di prova non superabile nell’ambito di un’eventuale giudizio di rinvio, trattandosi di procedimento “allo stato degli atti” e, dunque, basato delle sole emergenze degli atti di P.G. già contenuti nel fascicolo processuale.
4.3. La sentenza deve pertanto essere annullata sul punto senza rinvio. A mente dell’art. 620, comma 1, lett. I), cod. proc. pen., alla rideterminazione della pena può direttamente provvedere questa Corte nei termini indicati nel dispositivo, dovendosi soltanto eliminare la pena inflitta quale aumento ex art. 81, comma secondo, cod. pen. in relazione a tale imputazione.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all’art. 337 cod. pen. perché il fatto non sussiste ed elimina la relativa pena di mesi due di reclusione e 667 Euro di multa.
Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.