Nel vilipendio alla religione, la condotta consiste nel "tenere a vile", ovvero nel manifestare un'offesa volgare e grossolana, che si concreta in atti che assumano caratteri evidenti di dileggio, derisione, disprezzo; atti sorretti dal dolo generico, ossia dalla volontà di commettere il fatto con la consapevolezza della loro idoneità a vilipendere, tale da rendere irrilevante il movente dell'azione (politico o sociale), che non vale perciò ad escluderlo.
Il sentimento religioso, quale vive nell'intimo della coscienza individuale e si estende anche a gruppi più o meno numerosi di persone legate tra loro dal vincolo della professione di una fede comune, è da considerare tra i beni costituzionalmente rilevanti, come risulta coordinando gli artt. 2, 8 e 19 Cost., ed è indirettamente confermato anche dal primo comma dell'art. 3 e dall'art. 20 Cost.
Corte di Cassazione
sez. III Penale, sentenza 7 aprile – 13 ottobre 2015, n. 41044
Presidente Squassoni – Relatore Mengoni
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 13/12/2013, la Corte di appello di Milano confermava la pronuncia emessa dal Tribunale della stessa città il 21/9/2010, con la quale S.B. era stato condannato alla pena di 800,00 euro di multa in ordine al delitto di cui all'art. 403 cod. pen.; allo stesso era ascritto di aver commesso vilipendio alla religione cattolica, esponendo nel centro di Milano un trittico da lui realizzato - tre fotocopie in bianco e nero, stampate su tela, delle dimensioni di 170x70 centimetri - raffigurante, rispettivamente, il Papa Benedetto XVI, un pene con testicoli ed il segretario personale del Pontefice, mons. G.G., con la didascalia "Chi di voi non è culo scagli la prima pietra".
2. Propone ricorso per cassazione il B., a mezzo del proprio difensore, deducendo - con unico, complesso motivo - carenza ed illogicità della motivazione, erronea applicazione della legge e travisamento dei fatto. La Corte di appello, come già il Giudice di primo grado, non avrebbe compreso che l'opera era da interpretare esclusivamente in chiave critica, ironica e satirica, espressione artistica quale «declinazione dei più generale diritto costituzionale di libera espressione dei pensiero», ancorché manifestata con natura cruda e volgare. L'opera, quindi, non potrebbe esser valutata come indecorosa od offensiva, atteso che «l'intento dell'autore era la rappresentazione della ritenuta posizione oppositiva nei confronti dell'omosessualità delle gerarchie ecclesiastiche e non l'allusione a sussistenti rapporti interpersonali di natura non consentita verso chi ha fatto voto di castità». Né, infine, varrebbero, in questo caso, i limiti costituzionali che la libertà di espressione pur conosce, quali la tutela dei buon costume e dell'onore personale.
Considerato in diritto
3. II ricorso è infondato.
L'ampia censura che il ricorrente muove alla sentenza - pur nell'apparente diversità di profili prospettati, dall'illogicità della motivazione al travisamento del fatto, fino all'erronea applicazione di legge - insiste, invero, su un unico e decisivo profilo, quale il significato da attribuire al trittico esposto nel centro di Milano: in sintesi, se espressione di libertà di critica, satira e, in generale, libertà di pensiero, ovvero manifestazione di vilipendio.
Orbene, occorre premettere che l'art. 403 cod. pen. sanziona chiunque offende una confessione religiosa mediante vilipendio di chi la professa o di un ministro dei culto. Laddove la condotta consiste nel "tenere a vile", ovvero nel manifestare un'offesa volgare e grossolana, che si concreta in atti che assumano caratteri evidenti di dileggio, derisione, disprezzo; atti sorretti dal dolo generico, ossia dalla volontà di commettere il fatto con la consapevolezza della loro idoneità a vilipendere, tale da rendere irrilevante il movente dell'azione (politico o sociale), che non vale perciò ad escluderlo (Sez. 3, n. 328 del 24/2/1967, Pasolini, Rv. 104261). Ancor più in particolare, questa Corte ha affermato - con pronuncia risalente ma ancora ben saldata ai vigenti principi costituzionali - che in materia religiosa la critica è lecita quando - sulla base di dati o di rilievi già in precedenza raccolti o enunciati - si traduca nella espressione motivata e consapevole di un apprezzamento diverso e talora antitetico, risultante da una indagine condotta, con serenità di metodo, da persona fornita delle necessarie attitudini e di adeguata preparazione: mentre trasmoda in vilipendio quando - attraverso un giudizio sommario e gratuito - manifesti un atteggiamento di disprezzo verso la religione, disconoscendo alla istituzione e alle sue essenziali componenti (dogmi e riti) le ragioni di valore e di pregio ad essa riconosciute dalla comunità (Sez. 3, n. 1801 del 20/6/1966, D'Alessio, Rv. 102510).
E con l'ulteriore precisazione, riferibile anche al caso in esame, per cui, ai fini della configurabilità del reato, non occorre che le espressioni offensive siano rivolte a fedeli ben determinati, ma è sufficiente che le stesse siano genericamente riferibili alla indistinta generalità degli aderenti alla confessione religiosa (Sez. 3, n. 10535 dell'11/12/2008, Donvito, Rv. 243084).
Questi principi hanno poi trovato sfogo anche nelle parole della Corte costituzionale, più volte chiamata a pronunciarsi in materia di sentimento religioso e fattispecie penale; al riguardo, particolarmente significativa risulta la sentenza n. 188 del 27 giugno 1975, con la quale la Corte ha offerto dell'art. 403 cod. pen. una lettura orientata ai principi costituzionali, con particolare riguardo a quell'art. 21 Cost. che fonda il presente ricorso. Il Giudice delle leggi, nell'occasione, ha affermato che «il sentimento religioso, quale vive nell'intimo della coscienza individuale e si estende anche a gruppi più o meno numerosi di persone legate tra loro dal vincolo della professione di una fede comune, è da considerare tra i beni costituzionalmente rilevanti, come risulta coordinando gli artt. 2, 8 e 19 Cost., ed è indirettamente confermato anche dal primo comma dell'art. 3 e dall'art. 20.
Perciò il vilipendio di una religione, tanto più se posto in essere attraverso il vilipendio di coloro che la professano o di un ministro del culto rispettivo, come nell'ipotesi dell'art. 403 cod. pen., che qui interessa, legittimamente può limitare l'ambito di operatività dell'art. 21: sempre che, beninteso, la figura della condotta vilipendiosa sia circoscritta entro i giusti confini, segnati, per un verso, dallo stesso significato etimologico della parola (che vuol dire "tenere a vile', e quindi additare al pubblico disprezzo o dileggio), e per altro verso, dalla esigenza di rendere compatibile la tutela penale accordata al bene protetto dalla norma in questione con la più ampia libertà di manifestazione del proprio pensiero in materia religiosa, con specifico riferimento alla quale non a caso l'art. 19 anticipa, in termini quanto mai espliciti, il più generale principio dell'art. 21. E' evidente, ad esempio, a tacer d'altro, che non sussisterebbe quella libertà di far "propaganda" per una religione, come espressamente prevede e consente l'art. 19, se chi di tale diritto si avvale non potesse altrettanto liberamente dimostrarne la superiorità nei confronti di altre, di queste ultime criticando i presupposti o i dogmi. Il vilipendio, dunque, non si confonde né con la discussione su temi religiosi, così a livello scientifico come livello divulgativo, né con la critica e la confutazione pur se vivacemente polemica; né con l'espressione di radicale dissenso da ogni concezione richiamantesi a valori religiosi trascendenti, in nome di ideologie immanentistiche o positivistiche od altre che siano. Sono, invece, vilipendio, e pertanto esclusi dalla garanzia dell'art. 21 (e dell'art. 19), la contumelia, lo scherno, l'offesa, per dir cosi, fine a sé stessa, che costituisce ad un tempo ingiuria al credente (e perciò lesione della sua personalità) e oltraggio ai valori etici di cui si sostanzia ed alimenta il fenomeno religioso, oggettivamente riguardato».
Così ricostruiti i termini della materia, ritiene questa Corte che la sentenza impugnata ne abbia fatto buon governo, confermando il giudizio di responsabilità con una motivazione oltremodo adeguata, logica, priva di censure argomentative o contraddizioni di sorta.
In particolare, la Corte di merito, rispondendo alle medesime censure riproposte in questa sede, ha rilevato che l'opera esposta - in uno con la citata didascalia, che ne costituisce essenziale corredo, e valutatane l'immediata percepibilità da parte di tutti i passanti - intendeva chiaramente riferirsi a «rapporti sessuali di natura omosessuale» e, pertanto, «non costituiva un'espressione interpretabile in termini artistici, come vorrebbe l'appellante, ma anzi, per le obiettive caratteristiche delle riproduzioni, indecorosa ed offensiva nell'accezione dell'uomo medio».
Una manifestazione che la sentenza qualifica come «altamente volgare ed idonea al vilipendio della religione cattolica, andando a colpire il Papa, al vertice della struttura ecclesiastica, ponendone l'effigie - con ciò facendo intendere rapporti interpersonali di natura non consentita a chi ha fatto voto di castità - accanto a quella dei suo collaboratore più stretto e, collocando fra di esse, l'immagine del membro maschile».
In forza di queste considerazioni, la Corte di appello - con argomento ancora adeguato e lineare, non censurabile in questa sede - ha quindi concluso che «risulta violato il limite dovuto al rispetto della devozione altrui, ingiustamente messo a repentaglio da una manifestazione che, lungi dall'essere meramente critica di costumi sessuali non consentiti a ministri del culto, appare costituire una mera contumelia, scherno e offesa fine a sé stessa».
Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato, ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali