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Passaggio in giudicato della condanna estingue misure cautelari non detentive (Cass., 18353/21)

11 maggio 2011, Cassazione penale

Il passaggio in giudicato di una sentenza di condanna a pena detentiva suscettibile di esecuzione comporta la caducazione immediata della misura coercitiva non custodiate già applicata al condannato.

La cessazione, al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, della misura coercitiva non custodiale in atto, opera di diritto, e non è necessario alcun provvedimento che la dichiari.

Ove insorgano questioni in ordine alla misura coercitiva non custodiale nel periodo intercorrente fra il passaggio in giudicato della sentenza e il concreto avvio della fase di esecuzione della pena, la competenza a deciderle spetta al giudice dell'esecuzione.

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE PENALI

(ud. 31/03/2011) 11-05-2011, n. 18353

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUPO Ernesto - Presidente

Dott. DE MAIO Guido - Consigliere

Dott. SIOTTO Maria Cristina - Consigliere

Dott. CORTESE Arturo - rel. Consigliere

Dott. FIALE Aldo - Consigliere

Dott. SANDRELLI Gian Giacomo - Consigliere

Dott. CONTI Giovanni - Consigliere

Dott. MACCHIA Alberto - Consigliere

Dott. BLAIOTTA Rocco Marco - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul conflitto di competenza sollevato dal Magistrato di sorveglianza per i Circondari di Genova, Chiavari, Savona, Imperia e Sanremo in relazione all'istanza di revoca dell'obbligo di dimora presentata nell'interesse di:

M.M., nato ad (OMISSIS);

visti gli atti;

udita la relazione svolta dal consigliere Arturo Cortese;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell'Avvocato generale CIANI Gianfranco che ha concluso per la declaratoria di competenza del Tribunale di Savona.

Svolgimento del processo

1. Con sentenza ex art. 444 cod. proc. pen. emessa il 6 novembre 2009 dal Tribunale di Savona veniva applicata a M.M. la pena di anni uno, mesi cinque e giorni 24 di reclusione ed Euro 4.000,00 di multa per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 5. In pari data veniva disposto a carico del M. l'obbligo di dimora nella provincia di Savona, con prescrizione di non allontanarsi dalla propria abitazione dalle ore 20.00 alle ore 7.00.

Divenuta irrevocabile in data 11 dicembre 2009 la sentenza suindicata, con provvedimento del 19 marzo 2010 il Pubblico ministero presso il Tribunale di Savona emetteva nei confronti del M. ordine di esecuzione per la carcerazione ai fini dell'espiazione della pena, disponendo contestualmente la sospensione dell'esecuzione a sensi dell'art. 656 c.p.p., comma 5, con termine di trenta giorni per la presentazione da parte del condannato di una istanza diretta a ottenere la concessione di una delle misure alternative di cui alla L. 26 luglio 1975, n. 354, artt 47 e 47-ter, art. 50, comma 1, e di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 94.

Con istanza depositata il 31 marzo 2010, il difensore del M., rilevando che la sentenza del 6 novembre 2009 era divenuta definitiva e che, per questo e per mancanza, comunque, dei relativi presupposti, non sussistevano più esigenze cautelari, chiedeva al Tribunale di Savona la revoca della misura dell'obbligo di dimora con divieto di allontanarsi dalla propria abitazione dalle ore 20 alle ore 7 o, in subordine, la revoca di tale ultimo divieto.

Con ordinanza del 31 marzo 2010 il Tribunale di Savona in funzione di giudice dell'esecuzione dichiarava la propria incompetenza a provvedere sull'istanza, rilevando, sulla base di presunte indicazioni espresse dalla Corte di cassazione (Sez. 1, n. 31094 del 15/07/2009, dep. 28/07/2009, Estfeller, Rv. 244324), che dopo l'emissione dell'ordine di esecuzione, sia pure sospeso, la competenza a decidere sulla revoca della misura cautelare spettava al magistrato di sorveglianza, cui quindi trasmetteva gli atti.

Con provvedimento del 14 aprile 2010 il Magistrato di sorveglianza per i circondari di Genova, Chiavari. Savona, Imperia e Sanremo interpretava la richiamata giurisprudenza di legittimità (Sez. 1, n. 31094 del 2009, Estfeller, nonchè Sez. 6, n. 21925 del 05/03/2002, dep. 17/05/2003, Formisano, Rv. 225415) come attributiva della competenza al magistrato di sorveglianza in riferimento alla sola ipotesi della perdurante sottoposizione del condannato, dopo il passaggio in giudicato della sentenza, alla misura degli arresti domiciliari ed evidenziava la insussistenza di norme dalle quali potesse desumersi analoga competenza al di fuori della suddetta ipotesi, non potendo in particolare riconoscersi un simile effetto all'art. 279 cod. proc. pen.: da un lato, perchè l'instaurazione di un procedimento di sorveglianza dopo l'ordine di esecuzione della pena è meramente eventuale, siccome subordinata alla duplice condizione della sospensione di tale ordine e della presentazione di una istanza di misura alternativa entro il termine di cui all'art. 656 c.p.p., comma 6, e, dall'altro, perchè il predetto procedimento, una volta instaurato, sarebbe radicato presso il tribunale (e non il magistrato) di sorveglianza.

Ritenendosi quindi incompetente a decidere, rimetteva gli atti alla Corte di cassazione per la soluzione del conflitto negativo di competenza.

2. La Prima Sezione, assegnatala della causa, l'ha rimessa alle Sezioni unite con ordinanza del 20 ottobre 2010, depositata il 19 gennaio 2011.

La Sezione rimettente, sulla premessa dell'esistenza di una situazione di stallo decisionale, da risolvere a norma dell'art. 28 cod. proc. pen., dopo aver rilevato che, in prima battuta, la competenza del Tribunale di sorveglianza pareva da escludere, in difetto dell'attualità di un procedimento di sorveglianza (presupponente che il p.m. avesse dato corso alla fase esecutiva), e che l'art. 670 cod. proc. pen. demanda al giudice dell'esecuzione ogni questione sul titolo esecutivo, mentre la particolare ipotesi individuata dall'art. 656 c.p.p., comma 10 si riferisce alla permanenza della misura cautelare degli arresti domiciliari, e solo a questa situazione (che, dopo la condanna, condiziona la sospensione dell'ordine di carcerazione in vista dell'istanza del condannato e del conseguente intervento del tribunale di sorveglianza per l'applicazione di misure alternative), ha soffermato in via pregiudiziale la propria attenzione sul problema della sorte della misura coercitiva in atto nel momento in cui venga a formarsi il giudicato di condanna, evidenziando che la risoluzione del conflitto presuppone in sostanza l'esclusione che un tale evento determini l'automatica caducazione della misura stessa.

Fra le pronunce schierate a favore di una simile esclusione l'ordinanza di rimessione richiama anzitutto la già cit. Sez. 1, n. 31094 del 2009, Estfeller, che, facendo leva sull'art. 300 e sull'art. 657 c.p.p., comma 1, ha affermato che per ogni tipo di misura "l'efficacia resta in ogni caso funzionalmente collegata alla formale instaurazione della fase esecutiva ad iniziativa del pubblico ministero e che se una giustificazione deve darsi al perdurare di una restrizione alla libertà personale ..., che non è fungibile con la pena detentiva oramai inflitta, detta giustificazione può consistere soltanto nella ideale necessità che il fisiologico iato temporale che può di fatto intercorrere tra passaggio in giudicato e doverosa immediata attivazione del pubblico ministero in funzione di organo dell'esecuzione, non produca - per quanto breve - soluzioni di continuità in relazione a quelle esigenze di controllo del condannato che la vigenza della misura coercitiva fa presumere ancora esistenti all'atto della condanna".

Nello stesso senso vengono poi citate:

- Sez. 6, n. 17 del 20/11/2006, Maddii, Rv. 235675 (avente ad oggetto la richiesta di aggravamento della misura cautelare coercitiva dell'obbligo di dimora e del divieto di uscire dall'abitazione nelle ore serali), secondo la quale l'efficacia della misura cautelare coercitiva personale viene meno a seguito della sentenza irrevocabile di condanna dell'interessato, alla stregua dell'art. 300 c.p.p., comma 3, soltanto se la pena è dichiarata estinta o condonata, con la conseguenza che in tutti gli altri casi la misura conserva la sua validità, in base alle regole applicabili nella fase che precede l'esecuzione;

- Sez. 2, n. 35480 del 12/07/2007, De Giovanni, Rv. 237308 (avente ad oggetto l'aggravamento dell'obbligo di presentazione periodica alla polizia giudiziaria), ove si afferma che dal complessivo assetto degli artt. 300, 656 e 657 cod. proc. pen. "si evince il principio secondo cui la misura cautelare permane anche dopo la pronuncia definitiva di condanna, rimanendo funzionalmente predisposta alla formale instaurazione della fase esecutiva ad iniziativa del p.m.";

- Sez. 3, n. 2021 del 08/11/2007, Piacenti, Rv. 238765, che, per dare coerenza a tale linea interpretativa, perviene ad affermare che "in tema di misure cautelari, la sopravvenienza di provvedimenti giurisdizionali diversi da quelli previsti dall'art. 300 cod. proc. pen. (archiviazione, sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento, sentenza di condanna a pena dichiarata estinta, condizionalmente sospesa ovvero inferiore alla custodia cautelare subita) non esplica alcuna rilevanza sulla misura cautelare applicata, in quanto la stessa mantiene la propria efficacia fino alla scadenza dei termini di durata massima di cui all'art. 303 cod. proc. pen.".

In riferimento alla sentenza da ultimo richiamata, l'ordinanza di rimessione osserva però che Sez. U, n. 31524 del 14/07/2004, Litteri, Rv. 228167, sembrerebbe avere ribadito, senza apparenti eccezioni, il principio che "in tema di impugnazione di provvedimenti cautelari, la questione posta nella fase di cognizione circa la scadenza dei termini massimi, perde rilevanza quando interviene una sentenza definitiva di condanna a pena superiore al presofferto perchè la definitività dell'accertamento del merito, aprendo la fase esecutiva del processo, esclude la possibilità della rimessione in libertà"; principio che - aggiunge l'ordinanza, se applicato in tema di misure coercitive in genere, come risulta fatto da Sez. 1, n. 1550 del 01/06/1990, Rv. 184641, Colombelli, renderebbe priva di effettività la garanzia dell'art. 308 cod. proc. pen..

Il Collegio della Prima Sezione, non aderendo all'orientamento descritto, osserva che non basta una "presunzione" di pericolosità per giustificare una restrizione cautelare della libertà al di fuori del processo. Per dettato costituzionale non sarebbe infatti possibile alcuna forma di limitazione della libertà personale se non per atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. E nessuna norma sembra prevedere che quando diviene inoppugnabile la sentenza di condanna a pena detentiva non sospesa o non altrimenti estinta, pronunziata nei confronti di persona sottoposta a misura coercitiva diversa dalla custodia cautelare in carcere o nel domicilio, la restrizione della libertà debba permanere in forza della predetta sentenza di condanna.

La legge - sottolinea il Collegio rimettente - ha dettato una puntuale disciplina riferibile alla protrazione di una misura cautelare che non sia la custodia in carcere solo in relazione gli arresti domiciliari, ai sensi dell'art. 656 c.p.p., comma 10. E, soprattutto, il legislatore si è preoccupato di predisporre una disciplina relativa alla fungibilità delle pene esclusivamente con riguardo alla custodia cautelare - ex art. 657 cod. proc. pen. - e alle pene accessorie - ex art. 662 cod. proc. pen. - escludendo da un tale regime le misure coercitive diverse da quelle custodiali (esclusione peraltro ritenuta legittima da C. cost., n. 215 del 1999).

Ammettere, in assenza di esplicita previsione, che una misura cautelare non custodiale si protragga oltre il giudizio di cognizione senza alcun collegamento con le esigenze di questo e senza che le limitazioni della libertà in tal modo patite possano in alcun modo essere scomputate dalla pena da espiare, soltanto a causa della minore solerzia del p.m. nel porre in esecuzione la sentenza, comporterebbe, in conclusione, non soltanto la totale negazione della funzione servente (il processo) delle misure cautelari, ma la sottrazione delle stesse dall'alveo dei principi di necessità, di proporzione e, in ultima analisi, di legalità.

Ad avviso della Prima Sezione, parrebbe di conseguenza da privilegiare un'interpretazione sistematica che nel caso in esame riconosca che la misura coercitiva applicata è da considerare già venuta meno con il passaggio in giudicato della sentenza di condanna.

Essendo però tale soluzione in contrasto con la prevalente giurisprudenza di legittimità, è stata ravvisata l'opportunità di rimettere la causa alle Sezioni unite penali.

3. Con decreto del 31 gennaio 2011, il Primo presidente della Corte di Cassazione assegnava il procedimento in esame alle Sezioni unite, fissando per la trattazione la camera di consiglio del 31 marzo 2011.

Motivi della decisione
1. La questione controversa rimessa alla cognizione delle Sezioni unite si pone nei seguenti termini: "Se il passaggio in giudicato di una sentenza di condanna a pena detentiva non sospesa o non altrimenti estinta comporti la caducazione automatica della misura coercitiva non custodiale (nella specie l'obbligo di dimora) applicata al condannato; se sia comunque necessario un provvedimento giudiziale che dichiari tale cessazione di efficacia; se la competenza a emettere detto eventuale provvedimento spetti al giudice dell'esecuzione o al magistrato di sorveglianza". 2. Un primo orientamento, maggioritario (come evidenzia l'ordinanza rimettente), della giurisprudenza di legittimità esclude in generale il determinarsi, al passaggio in giudicato della sentenza di condanna a pena detentiva non dichiarata estinta nè condizionalmente sospesa, della caducazione automatica della misura coercitiva già applicata al condannato.

Questo indirizzo può farsi risalire a Sez. 6, n. 1554 del 08/05/1992, dep. 07/07/1992, Consalvo, Rv. 191049 (avente peraltro ad oggetto una fattispecie relativa a misura custodiale), per la quale, nel caso in cui divenga inoppugnabile una sentenza di condanna pronunciata nei confronti di persona sottoposta a custodia cautelare, non rientrante tra le decisioni che a norma dell'art. 300 cod. proc. pen. comportano la cessazione immediata delle misure cautelari, il vinculum libertatis già imposto al condannato conserva efficacia, rimanendo funzionalmente predisposto alla formale instaurazione della fase esecutiva a iniziativa dei pubblico ministero.

Affermano ancora, sempre sulla scorta dell'art. 300 c.p.p., comma 3, il venir meno dell'efficacia delle misure cautelari in relazione alle sole ipotesi di ineseguibilità della pena irrogata, Sez. 4, n. 2761 del 29/10/1997, dep. 07/11/1997, Badulli, Rv. 209407, e Sez. 6, n. 17 del 20/11/2006, dep. 03/01/2007, Maddii, Rv. 235675. In quest'ultima sentenza, favorevole al ricorso del p.m. avverso l'ordinanza del g.i.p. che, dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna e in pendenza di una istanza di detenzione domiciliare, aveva dichiarato inefficace la misura, già applicata al condannato, dell'obbligo di dimora e del divieto di uscire dall'abitazione nelle ore serali, con conseguente improcedibilità della richiesta del pubblico ministero di aggravamento della suddetta misura cautelare per violazione delle relative trascrizioni, si specifica che l'art. 300 c.p.p., comma 3, stabilendo "con chiarezza che - nella fase susseguente ad una pronuncia di condanna - le misure cautelari in atto perdono efficacia solo nelle ipotesi di declaratoria di estinzione della pena o di sua sospensione condizionale (cioè in casi nei quali la stessa sentenza di condanna esclude in radice ogni prospettiva di applicazione della pena), ... rende per converso chiaro che, negli altri casi, le misure cautelari sono destinate a conservare la loro efficacia, secondo le regole loro proprie, nella fase che precede l'esecuzione della sentenza di condanna. Una siffatta interpretazione appare, da un lato, conforme alle nitide indicazioni che provengono dal testo della legge processuale e, dall'altro lato, è quella che meglio risponde alla logica del sistema cautelare ed è l'unica idonea ad evitare il paradosso della cessazione automatica ed immediata delle misure cautelari nello stesso momento nel quale viene pronunciata una sentenza di condanna suscettibile di effettiva esecuzione".

Sulla stessa linea si colloca Sez. 2, n. 35480 del 12/07/2007, dep. 24/09/2007, De Giovanni, Rv. 237308, che ha ritenuto legittima l'applicazione della custodia in carcere disposta, dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna e in aggravamento della misura cautelare in atto, nei confronti di soggetto resosi precedentemente inottemperante all'obbligo di presentazione periodica alla polizia giudiziaria. La conclusione è fondata sul coordinato disposto dell'art. 300 (che prevede i casi in cui la pronuncia di sentenza definitiva comporta l'estinzione della misura cautelare), art. 656 (che affida al pubblico ministero l'iniziativa dell'esecuzione della pena; fa dipendere la concedibilità o meno della sospensione delle pene brevi dalla misura cautelare in corso; e prevede, altresì, che fino alla decisione del giudice di sorveglianza il condannato permane nello stato detentivo nel quale si trova) e art. 657 cod. proc. pen. (che regola la determinazione della pena detentiva da espiare), da cui deriverebbe "il principio secondo cui la misura cautelare permane anche dopo la pronuncia definitiva di condanna, rimanendo funzionalmente predisposta alla formale instaurazione della fase esecutiva ad iniziativa del p.m.".

Ancora ai principi contenuti nell'art. 300 cod. proc. pen. si richiama Sez. 3, n. 2021 dell'8/11/2007, dep. 15/01/2008, Piacenti, Rv. 238765, per la quale la sopravvenienza di provvedimenti giurisdizionali diversi da quelli ivi previsti non esplica alcuna rilevanza sulla misura cautelare in atto, che mantiene la propria efficacia fino alla scadenza dei termini di durata massima di cui all'art. 303 cod. proc. pen..

Risolvendo una ipotesi di conflitto analoga a quella sollevata nel presente giudizio, anche la già cit. Sez. 1, n. 31094 del 2009, Estfeller, si premura di escludere preliminarmente che "quando diviene inoppugnabile la sentenza di condanna a pena detentiva non sospesa o non altrimenti estinta, pronunciata nei confronti di persona sottoposta a custodia cautelare o ad altra misura coercitiva, la restrizione alla libertà cui era soggetto l'imputato cessa di diritto", e richiama a sostegno di tale assunto gli artt. 300 e 657 cod. proc. pen., osservando poi che la perdurante efficacia di una restrizione alla libertà personale non fungibile con la pena detentiva oramai inflitta e avente, per sua natura, funzione servente il processo, può giustificarsi soltanto con la necessità "che il fisiologico iato temporale che può di fatto intercorrere tra passaggio in giudicato e doverosa immediata attivazione del pubblico ministero in funzione di organo dell'esecuzione, non produca - per quanto breve - soluzioni di continuità in relazione a quelle esigenze di controllo del condannato che la vigenza della misura coercitiva fa presumere ancora esistenti all'atto della condanna". 3. Di contro all'orientamento esposto si riscontra nella giurisprudenza di legittimità un diverso indirizzo interpretativo che sostiene che il passaggio in giudicato della sentenza di condanna determina in ogni caso, come effetto automatico, l'estinzione delle misure coercitive di natura non custodiale.

Questo orientamento risale a Sez. 1, n. 1550 del 01/06/1990, dep. 13/06/1990, Colombelli, Rv. 184641 (relativa a divieto di espatrio), secondo la quale, con l'esaurimento del giudizio di cognizione e il passaggio alla fase di esecuzione del giudicato, vengono meno le ragioni poste a base delle misure cautelari, volte ad assicurare il corretto svolgimento del procedimento, la presenza dell'imputato quando necessaria, la genuinità delle prove, la loro acquisizione, la garanzia dall'eventuale pericolo derivante alla collettività dalla personalità del soggetto contro cui si procede. Sicchè, in ipotesi di proscioglimento, il giudice deve dichiarare cessate le misure cautelari personali eventualmente applicate (art. 532 cod. proc. pen.) mentre, nel caso di condanna non sospesa condizionalmente, segue l'assorbente actio iudicati attraverso l'ordine di carcerazione.

Alle stesse conclusioni è recentemente pervenuta Sez. 1, n. 41007 del 20/10/2010, dep. 22/11/2010, Riggio, Rv. 248937, che ha annullato senza rinvio l'ordinanza del giudice dell'esecuzione reiettiva dell'istanza avanzata nell'interesse di un condannato definitivo, volta a ottenere la declaratoria di inefficacia della misura cautelare dell'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria.

Secondo tale decisione è "la stessa funzione dispiegata nel nostro sistema processuale dalla misura cautelare (funzione strumentale al processo di cognizione) a dover far ritenere che la medesima non possa essere dispiegata oltre il giudizio di merito. Il passaggio in giudicato della sentenza determina infatti l'inizio della esecuzione penale a prescindere dall'assunzione da parte dei soggetti preposti alla sua gestione di atti formali. Le esigenze cautelari non sono pertanto più valutabili perchè esse non esistono più essendo radicalmente mutate le prospettive e la ragione della contenzione del soggetto". A sostegno dell'assunto si richiamano:

- la normativa in punto di termini massimi di custodia cautelare, improntata su griglie che hanno come capisaldi snodi procedimentali all'interno delle fasi di indagine preliminare e del giudizio di cognizione, "senza alcun riferimento a una eventuale decorrenza che superi la fase della irrevocabilità dove il titolo per la detenzione non è più e non potrebbe essere più il provvedimento che ha disposto la misura, bensì la sentenza passata in cosa giudicata";

- l'art. 91 disp. att. cod. proc. pen., che stabilisce che la competenza del giudice dì merito a decidere sulle misure cautelari si estende sino alla fase in cui pende il giudizio in cassazione;

- la previsione dell'art. 656 c.p.p., comma 10, che "esplicita formalmente che l'arrestato domiciliarmente, ai sensi dell'art. 284 cod. proc. pen., diviene, al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, un condannato e non più indagato o imputato e la misura in corso è considerata come pena espiata appunto per il mutamento del titolo detentivo".

Su una linea sostanzialmente analoga si muovono anche alcune decisioni, nelle quali si è rilevata la carenza di interesse delle impugnazioni avverso provvedimenti cautelari dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna.

In particolare:

- Sez. 1, n. 311 del 12/01/1999, dep. 22/03/1999, Cuntrera, Rv.

212873, ha affermato che, in tema di impugnazione di provvedimenti cautelari, l'interesse ad impugnare, previsto dall'art. 568 cod. proc. pen., comma 2 deve essere, secondo i principi generali, concreto ed attuale: presupposti che non ricorrono se la questione relativa alla scadenza del termine massimo di custodia cautelare sia stata sollevata nella fase di cognizione ma la sentenza di condanna sia divenuta definitiva prima che tale questione fosse stata risolta;

- Sez. U, n. 31524 del 14/07/2004, dep. 20/07/2004, Litteri, Rv.

228167, ha chiarito che la questione, posta nella fase di cognizione, circa la scadenza dei termini di durata massima della custodia in carcere (nella specie, dapprima in sede di appello cautelare e successivamente in cassazione) perde rilevanza quando diviene irrevocabile la sentenza di condanna a pena detentiva superiore al presofferto, perchè la definitività dell'accertamento del merito, aprendo la fase esecutiva del processo, esclude la possibilità della rimessione in libertà; con la conseguenza che, qualora sia pendente impugnazione cautelare, dovendo persistere l'interesse alla sua definizione fino al momento della decisione, l'impugnazione stessa è inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse.

4. Una parte della dottrina aderisce al prevalente indirizzo della giurisprudenza che ammette la persistenza dell'efficacia delle misure coercitive dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna a pena non dichiarata estinta nè condizionalmente sospesa.

Si evidenzia al riguardo che:

- le ipotesi di estinzione delle misure per effetto della pronuncia di determinate sentenze delineate dall'art. 300 cod. proc. pen. sono tassative, ed altri provvedimenti non esplicano alcuna rilevanza sulla misura applicata che mantiene la propria efficacia fino alla scadenza del termine di durata massima di cui all'art. 303;

- in quanto istituto strumentale al processo, il vincolo cautelare perde efficacia automaticamente in relazione agli epiloghi decisori in cui viene meno la condizione della responsabilità allo stato degli atti o la concreta punibilità: tale ultima eventualità si verifica quando, a seguito della pronuncia di sentenza di condanna, la pena irrogata viene dichiarata estinta o condizionalmente sospesa o quando la durata della custodia risulta non inferiore all'entità della pena irrogata, in quanto il permanere della misura si porrebbe in contrasto con il canone della proporzionalità.

Altra parte della dottrina, valorizzando le ragioni che militano a favore dell'opposto orientamento, secondo cui il passaggio in giudicato della sentenza di condanna comporta l'automatica estinzione delle misure cautelari personali di natura non detentiva, osserva invece che:

- quando diviene definitiva la sentenza di condanna, inizia l'esecuzione della pena e le misure cautelari applicate fino a quel momento si estinguono perchè viene meno la loro funzione cautelare:

dalla provvisorietà delle misure cautelari personali deriva il corollario che il provvedimento cautelare mantiene la sua esecutività fino a che non sia divenuta esecutiva la sentenza definitiva;

- secondo la regolamentazione dettata dall'art. 656 cod. proc. pen., le misure coercitive della custodia in carcere e degli arresti domiciliari mantengono la loro efficacia sino all'emanazione dell'ordine di esecuzione che le converte nella pena, mentre, per le misure non detentive, si deve presumere il venir meno delle ragioni cautelari e non può trovare applicazione nè l'art. 300 cod. proc. pen., a causa della mancanza di omogeneità tra la misura cautelare e la pena detentiva irrogata in executivis, nè il meccanismo di raccordo espressamente dettato dall'art. 656 cod. proc. pen., non valendo le misure in esame come presofferto;

- il passaggio in giudicato della sentenza di condanna fa eclissare le ragioni della tutela cautelare mediante il definitivo spirare dei termini di durata delle stesse misure, come è confermato dal fatto che, alla stregua delle disposizioni che sanciscono i termini di durata massima delle misure cautelari non custodiali, oltre il momento terminale della sentenza di condanna, ancorchè non sia interamente decorso il termine cui all'art. 303 c.p.p., comma 4, lett. d), non può iniziare a decorrere altro termine;

- la strumentalità delle misure cautelari rispetto alla decisione di merito implica la logica conseguenza che, una volta intervenuta la sentenza definitiva, la misura cautelare debba perdere efficacia, e non rileva in contrario che nessuna norma contempli la sentenza di condanna a pena da eseguire tra quelle che comportano l'estinzione immediata della misura cautelare in atto, in quanto le ragioni che giustificano l'inammissibilità della misura cautelare, dopo che nel giudizio di cognizione si sia formato il giudicato, risiedono nella stessa logica del sistema processuale;

- in eccezione a tale principio, l'art. 656 cod. proc. pen. prevede uno specifico strumento di raccordo tra la fase di cognizione e la fase esecutiva per quanto concerne la misura cautelare in itinere solo per quelle più afflittive (la custodia cautelare e gli arresti domiciliari), in ragione della maggiore presunzione di pericolosità che ad esse si accompagna.

5. Le Sezioni unite ritengono di aderire alla tesi dell'incompatibilità delle misure coercitive non custodiali con la fase successiva al passaggio in giudicato della sentenza di condanna.

5.1. Il punto di partenza per la corretta soluzione del quesito oggetto di rimessione non può che essere il principio di tassatività di cui all'art. 13 Cost., comma 2, per il quale non è ammessa "restrizione della libertà personale, se non ... nei soli casi e modi previsti dalla legge". L'assunto che una misura cautelare coercitiva applicata a un soggetto rimanga in vita, dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna emessa nei suoi confronti, deve dunque basarsi sull'esistenza di una positiva previsione di legge in tal senso.

Esaminando il sistema normativo, la prima considerazione da fare è che la complessiva disciplina delle misure cautelari personali appare indiscutibilmente improntata ad una funzione strumentale rispetto al processo di cognizione. Tale "natura servente" - fatta oggetto di espresso riconoscimento (formalmente relativo alla custodia cautelare ma logicamente riferibile a tutte le misure coercitive) da parte della Corte costituzionale (sent. n. 299 del 2005, ripresa nella successiva sent. n. 219 del 2008) - emerge con chiarezza dalla disciplina predetta, quale prevista nei capi 2^, 3^ e 6^ del Titolo 1^ del Libro 4^ del codice di rito, che fa univoco ed evidente riferimento al procedimento in corso e alla figura dell'imputato (cui è equiparata la persona sottoposta ad Indagini: art. 61 c.p.p., comma 2), così come ai soli giudici della cognizione fa riferimento l'art. 91 disp. att. cod. proc. pen., ai fini dell'adozione dei provvedimenti in materia.

In particolare, la specifica previsione di limiti alla durata delle misure (imposta per la "carcerazione preventiva" dall'art. 13 Cost., comma 5) e la relativa determinazione al di fuori di qualsiasi riferimento alla fase successiva al passaggio in giudicato della sentenza (previsto dall'art. 303 c.p.p., comma 1, lett. d solo come evento definitivamente interruttivo della scansione dei termini di fase) si pongono in evidente contrasto con una possibile concezione delle misure stesse in termini (anche) di logica e generale funzionalità all'esecuzione della decisione. Nè in contrario può invocarsi la previsione dei termini massimi di durata di cui all'art. 303 c.p.p., comma 4 (con il possibile allungamento di cui all'art. 304 c.p.p., comma 6), che altro non è che un corollario necessario e funzionale al sistema dei termini ordinari di fase, in relazione alle ipotesi di legittimo "sforamento" dei medesimi.

Quanto alle esigenze cautelari che possono giustificare l'adozione e il mantenimento delle misure, è agevole osservare che il pericolo di inquinamento della prova non ha ragione di esistere in vista della fase esecutiva, e il pericolo di recidivanza non viene in rilievo ai fini dell'emissione dell'ordine di esecuzione e della sua sospensione ex art. 656 c.p.p., commi 5 e 9, dovendo al riguardo il pubblico ministero limitarsi ad accertare l'entità della pena da espiare e se vi siano titoli di reato o condizioni soggettive - ad es. la recidiva reiterata o lo stato di detenzione carceraria - che ostano alla sospensione.

Quanto al pericolo di fuga, esso può certamente assumere rilievo ai fini dell'esecuzione. Ciò però non vale indistintamente per tutte le misure. Quelle non custodiali, infatti, non hanno all'evidenza, per loro natura (e come conferma la previsione di cui all'art. 307 c.p.p., comma 2, lett. b), una concreta idoneità a scongiurare il pericolo de quo, e non a caso non vengono in alcuna considerazione nella disciplina della sospensione dell'ordine di esecuzione ex art. 656 c.p.p., comma 5 (finalizzata ad evitare l'ingresso in carcere a chi sia nelle condizioni di ottenere la concessione delle misure alternative), che attribuisce invece coerentemente rilevanza, in modo differenziato secondo la gravità, alla custodia carceraria e a quella domiciliare (rispettivamente, del citato art. 656, comma 9, lett. b, e comma 10).

5.2. Da quanto sopra emerge chiaramente che il sistema processuale offre, nel suo complesso, indicazioni contrarie alla tesi della sopravvivenza delle misure non custodiali in atto nel momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna.

L'orientamento che patrocina tale tesi ritiene però, come si è sopra visto, di poter utilmente invocare in proprio favore alcuni specifici dati normativi.

Il primo di essi è costituito dall'art. 300 cod. proc. pen., che, stabilendo, al comma 3, che le misure cautelari perdono immediatamente efficacia quando la pena irrogata con la sentenza di condanna è dichiarata estinta o condizionalmente sospesa (cioè in casi nei quali la stessa sentenza di condanna esclude in radice ogni prospettiva di applicazione della pena), renderebbe chiaro che, negli altri casi, le misure cautelari sono destinate a conservare la loro efficacia nella fase che precede l'esecuzione; dunque, in presenza di una sentenza di condanna diversa da quelle espressamente indicate dall'art. 300 comma 3, cit., la misura cautelare rimarrebbe funzionalmente predisposta alla formale instaurazione della fase esecutiva ad iniziativa del pubblico ministero.

Tale conclusione troverebbe conferma e riscontro nei disposti dell'art. 656 cod. proc. pen. - che, ai commi 5 e 9, lett. b), fa dipendere la concedibilità o meno della sospensione delle pene brevi dalla misura cautelare in corso, e, al comma 10, prevede che fino alla decisione del giudice di sorveglianza, il condannato permanga nello stato detentivo (domiciliare) nel quale si trova - e dell'art. art. 657 c.p.p., comma 1, che include la custodia cautelare ancora in corso nel computo della pena detentiva da eseguire.

Sul piano logico l'orientamento de quo richiama poi l'esigenza di evitare il paradosso della cessazione automatica ed immediata delle misure cautelari nello stesso momento nel quale viene pronunciata una sentenza di condanna suscettibile di effettiva esecuzione e più pregnante appare, in considerazione del fisiologico iato temporale intercorrente tra detto momento e l'attivazione del pubblico ministero in funzione di organo dell'esecuzione, la necessità di controllo del condannato, che la misura in atto fa presumere ancora esistente.

5.3. Ora, la descritta interpretazione del coordinato disposto normativo posto a fondamento della tesi della "sopravvivenza" non è condivisibile e deve, a ben vedere, essere completamente capovolta, di tal che esso, lungi dall'offrire sostegno a detta tesi, fornisce al contrario ulteriore e decisivo conforto alla opposta tesi dell'incompatibilità.

La prima, agevole, considerazione da fare è, invero, che il cit. art. 300 non è affatto rivolto a regolare in via generale il rapporto fra sentenze irrevocabili e misure cautelari in corso. Esso infatti si preoccupa, all'evidenza, soltanto di indicare determinati epiloghi decisori comportanti per sè, e del tutto indipendentemente dal connotato della irrevocabilità, l'immediata perdita di efficacia delle misure cautelari in atto.

Al contrario, del rapporto fra sentenze irrevocabili di condanna e misure cautelari in corso si occupa senza dubbio l'art. 656 cod. proc. pen., e lo fa con riferimento alle sole misure custodiali, stabilendo, al comma 9, la non concedibilità della sospensione dell'esecuzione in favore del condannato che si trovi in stato di custodia cautelare in carcere (che quindi non viene interrotta) e, al comma 10, la concedibilità della stessa sospensione in favore del condannato che si trovi agli arresti domiciliari, dei quali dispone esplicitamente la persistenza fino alla decisione del tribunale di sorveglianza, con contestuale riconoscimento del tempo corrispondente "come pena espiata a tutti gli effetti".

Ora, sta di fatto che le misure custodiali presentano due caratteristiche strettamente correlate, da un punto di vista funzionale, all'esecuzione della pena, e cioè, da un lato, la concreta idoneità (come si è già avuto modo di notare) a scongiurare il pericolo di fuga, e, dall'altro, la computabilità del periodo di applicazione (secondo la regola fissata in via generale dall'art. 657 cod. proc. pen.) ai fini della determinazione della pena detentiva da espiare: computabilità che, inoltre, l'art. 656, cit. comma 10 espressamente riconosce, in relazione al tempo corrispondente alla permanenza degli arresti domiciliari, "a tutti gli effetti" e, quindi, anche in rapporto alle eventuali pene alternative alla detenzione. E' del tutto razionale, quindi, collegare causalmente le previsioni di "persistenza" operate dall'art. 656 cod. proc. pen. alle dette caratteristiche. Considerati tale logica esplicazione della ratio e il tenore testuale, non certo ostativo, della disciplina de qua, la sua interpretazione in chiave di deliberata scelta limitatrice, una volta sgombrato il campo dalla riferita erronea lettura dell'art. 300 cod. proc. pen., s'impone in maniera piana.

Si può, dunque, fondatamente affermare, in adesione a quanto ritenuto nell'ordinanza di rimessione, nella richiamata giurisprudenza minoritaria e nella più accorta dottrina, che la disciplina in parola, lungi dal supportare o presupporre una presunta (e inesistente) regola di generale sopravvivenza delle misure cautelari dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna da eseguire, costituisce in realtà, alla stregua della sua illustrata ratto, puntuale conferma del fatto che per le misure non custodiali, sfornite delle ricordate caratteristiche di efficacia e fungibilità che tale ratio sorreggono (sulla inidoneità di tali misure a scongiurare in concreto il pericolo di fuga si è già detto; sulla loro non computabilità ai fini della determinazione della pena da eseguire, la giurisprudenza è pacifica: v. Sez. 1, n. 3372 del 05/06/1995, dep. 15/09/1995, Mariani, Rv. 202408; Sez. 1, n. 5376 del 30/09/1997, dep. 16/12/1997, Balbo, Rv. 209127; Corte cost. n. 215 del 1999), vale l'opposta regola, discendente dal sistema e dal principio costituzionale di tassatività, e rispondente in definitiva all'elementare necessità di preservare la libertà personale da compressioni ultronee e sproporzionate, del loro immediato venir meno al verificarsi del citato passaggio in giudicato.

In tale linea ricostruttiva restano evidentemente superati anche i rilievi, su cui parimenti fa perno l'orientamento qui respinto, inerenti alla esigenza di evitare la cessazione delle misure nel momento in cui la sentenza di condanna diviene irrevocabile, posto che, come emerge dalle considerazioni che precedono, è proprio della suddetta esigenza che ha inteso, in sostanza, farsi carico il legislatore nelle citate previsioni dell'art. 656 cod. proc. pen., ritenendola meritevole di positiva tutela con esclusivo riferimento alle misure custodiali, secondo una scelta strettamente correlata alle loro connotazioni di efficacia e fungibilità e che, come tale, non può essere estesa alle altre misure.

In conclusiva risposta al primo dei quesiti sottoposti al Collegio allargato, si può, pertanto, enunciare il seguente principio di diritto:

"Il passaggio in giudicato di una sentenza di condanna a pena detentiva suscettibile di esecuzione comporta la caducazione immediata della misura coercitiva non custodiate già applicata al condannato".

6. Venendo ora alle modalità con cui si determina tale fenomeno, si osserva che, alla stregua dei principi sopra illustrati, la cessazione della misura, essendo correlata all'oggettivo venir meno dei relativi presupposti giustificativi, non può che operare di diritto, con la conseguenza, in mancanza di previsioni specifiche, che non occorre alcun provvedimento che la dichiari e l'interessato è immediatamente esonerato dall'osservanza degli obblighi già su di lui gravanti. Naturalmente, per evitare equivoci e incertezze, in particolare nel personale tenuto ai controlli, sarà opportuno che allo stesso venga data tempestiva comunicazione della cessazione, e a ciò - al di là di possibili specifici accorgimenti organizzativi adottabili all'interno degli uffici giudicanti, in analogia al regime previsto, per l'estinzione delle misure coercitive intervenuta in corso di procedimento, dall'art. 306 cod. proc. pen., artt. 97 e 98 disp. att. cod. proc. pen. - potrà normalmente provvedere il pubblico ministero (secondo un principio di intervento che trova legittimazione sistematica nelle previsioni di cui all'art. 667, comma 4 e al comma 3 dell'art. 672 cod. proc. pen.) nel momento in cui viene notiziato dalla competente Cancelleria, a sensi dell'art. 28 reg. esec. cod. proc. pen., e negli stretti termini ivi previsti, del passaggio in giudicato della sentenza di condanna da eseguire.

Ne consegue la formulazione del seguente principio di diritto:

"La cessazione, al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, della misura coercitiva non custodiale in atto, opera di diritto, e non è necessario alcun provvedimento che la dichiari".

7. Nella realtà pratica non si può escludere che insorgano comunque problemi in ordine alla (sorte o modificazione della) misura non custodiale, nel periodo (che può rivelarsi non breve) intercorrente fra il passaggio in giudicato della sentenza e il concreto avvio della fase di esecuzione della pena. In tali casi, la competenza per la loro risoluzione non può che spettare, come già ritenuto da questa Corte (pur se nell'erronea ottica della sopravvivenza delle misure) nella menzionata Sez. 1, n, 31094 del 2009, Estfeller, al giudice dell'esecuzione, in quanto unico giudice "procedente" in quella fase, nonchè giudice istituzionalmente designato a decidere su ogni questione comunque connessa all'esecuzione della sentenza: il quale non potrà che riconoscere e dichiarare ad ogni effetto l'avvenuta cessazione della misura.

Dal che il principio seguente:

"Ove insorgano questioni in ordine alla misura coercitiva non custodiale nel periodo intercorrente fra il passaggio in giudicato della sentenza e il concreto avvio della fase di esecuzione della pena, la competenza a deciderle spetta al giudice dell'esecuzione".

Applicando quanto sopra alla fattispecie di causa, nella quale è sorto un conflitto fra giudice dell'esecuzione e magistrato di sorveglianza in ordine alla competenza a provvedere su una istanza di revoca della misura dell'obbligo di soggiorno presentata dopo il passaggio in giudicato della sentenza e prima dell'inizio della sua esecuzione, il conflitto stesso non può che essere risolto nel senso dell'attribuzione della competenza al giudice dell'esecuzione.

P.Q.M.
Dichiara la competenza del Tribunale di Savona.

Così deciso in Roma, il 31 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 11 maggio 2011