La distinzione tra il reato di estorsione consumata attraverso la prospettazione di un pericolo creato ad arte dall’agente, ed il reato di truffa aggravata dalla prospettazione di un pericolo immaginario, deve essere effettuata misurando la concreta efficacia coercitiva della minaccia, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, dovendosi ritenere che si verte nella ipotesi estorsiva quando il male prospettato, derivato dalla volontà potestativa dell’agente, coarta la volontà della vittima; si verte invece nell’ipotesi della truffa quando la prospettazione del pericolo, irrealizzabile per sua intrinseca inconsistenza, non ha capacità coercitiva, ma si limita ad influire sul processo di formazione della volontà deviandolo attraverso la induzione in errore. La valutazione della efficacia coercitiva, piuttosto che semplicemente manipolativa della minaccia deve essere effettuata con apprezzamento da effettuarsi ex ante, ovvero in modo indipendente dalla effettiva realizzabilità del male prospettato.
La diagnosi differenziale tra il reato di truffa e quello di estorsione deve essere effettuata attraverso una attenta indagine delle emergenze processuali, volta a verificare:
a) se il male minacciato sia reale o immaginario e se questo dipenda dall’agente o da altri;
b) se la prospettazione di tale male produca, in concreto, una manipolazione della volontà riconducibile alla induzione in errore piuttosto che ad una vera e propria coazione della volontà derivata dalla intensa prospettata concretezza della minaccia.
Per quanto la prospettazione di un effetto negativo abbia - comunque e ragionevolmente - come conseguenza una reazione di "evitamento" del male prospettato, quel che rileva ai fini del corretto inquadramento del fatto è se tale reazione sia riconducibile ad una condotta fraudolenta, piuttosto che ad una irresistibile coartazione. Se, cioè, la volontà della vittima risulti semplicemente manipolata o, piuttosto, irresistibilmente coartata.
La coazione della volontà si distingue dalla manipolazione "agita" attraverso l’induzione in errore, in quanto solo nel primo caso la azione illecita si presenta irresistibile.
L’induzione in errore è azione diversa dalla costrizione, sebbene entrambe le condotte siano idonee a deviare il fisiologico sviluppo dei processi volitivi: la condotta induttiva, anche quando si manifesta con la esposizione di pericoli inesistenti, si differenzia dalla condotta estorsiva proprio nella misura in cui la volontà risulta "diretta" e "manipolata" dai pericoli prospettati ab externo, ma non irresistibilmente "piegata" da una minaccia irresistibile.
La idoneità della rappresentazione del male a "dirigere" piuttosto che "piegare" la volontà non può essere stabilita in astratto, ma necessita di uno scrutinio che verifichi in concreto la consistenza della azione minatoria, anche rispetto alla effettiva capacità di resistenza della vittima. Tale indagine non può che analizzare la idoneità coercitiva della minaccia nel momento in cui la stessa viene posta in essere, nulla rilevando che ex post il male prospettato risulti irrealizzabile.
Corte di Cassazione
sez. II Penale
sentenza 20 febbraio – 18 giugno 2020, n. 18542
Presidente De Crescienzo – Relatore Perrotti
Ritenuto in fatto
La Corte di appello di Messina, con la sentenza impugnata, confermava nella qualificazione giuridica del fatto contestato, riformandola solo quanto a riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e conseguente riduzione della sanzione principale ed accessoria, la sentenza emessa il 26 gennaio 2015 dal tribunale del medesimo capoluogo, con la quale il ricorrente era stato condannato per il delitto di estorsione continuata.
Reati commessi in (omissis) .
1. Avverso tale sentenza ricorre l’imputato, a mezzo del difensore di fiducia, deducendo a motivi della impugnazione le argomentazioni in appresso enunciate, ai sensi dell’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1, nei limiti strettamente necessari alla motivazione:
1.1. violazione della legge penale sostanziale e vizio esiziale di motivazione (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b ed e) per non avere la Corte rilevato che, qualificati i fatti come truffa aggravata dalla prospettazione di un pericolo immaginario, i reati, tenuto conto della data di consumazione, si sarebbero estinti per intervenuta prescrizione ben prima della pronuncia di appello;
1.2. vizio esiziale di motivazione (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), con riferimento all’accertamento della responsabilità per il delitto di estorsione, avendo la Corte omesso ogni dovuto controllo della attendibilità delle dichiarazioni rese dal genitore dell’imputato, vittima del reato e imputato di reato collegato; dichiarazioni non confortate da elementi di riscontro, nè connotate da intima coerenza e credibilità, giacché mosse da acredine ed avversione datate. Travisamento della prova nella affermazione della penale responsabilità.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è infondato.
1.1. La diagnosi differenziale tra il reato di truffa e quello di estorsione deve essere effettuata attraverso una attenta indagine delle emergenze processuali, volta a verificare: a) se il male minacciato sia reale o immaginario e se questo dipenda dall’agente o da altri; b) se la prospettazione di tale male produca, in concreto, una manipolazione della volontà riconducibile alla induzione in errore piuttosto che ad una vera e propria coazione della volontà derivata dalla intensa prospettata concretezza della minaccia. Per quanto la prospettazione di un effetto negativo abbia - comunque e ragionevolmente - come conseguenza una reazione di "evitamento" del male prospettato, quel che rileva ai fini del corretto inquadramento del fatto è se tale reazione sia riconducibile ad una condotta fraudolenta, piuttosto che ad una irresistibile coartazione. Se, cioè, la volontà della vittima risulti semplicemente manipolata o, piuttosto, irresistibilmente coartata (Sez. 2, n. 21974, del 18/4/2017, Rv. 270072). -
La coazione della volontà si distingue dalla manipolazione "agita" attraverso l’induzione in errore, in quanto solo nel primo caso la azione illecita si presenta irresistibile.
L’induzione in errore è, infatti, azione diversa dalla costrizione, sebbene entrambe le condotte siano idonee a deviare il fisiologico sviluppo dei processi volitivi: la condotta induttiva, anche quando si manifesta con la esposizione di pericoli inesistenti, si differenzia dalla condotta estorsiva proprio nella misura in cui la volontà risulta "diretta" e "manipolata" dai pericoli prospettati ab externo, ma non irresistibilmente "piegata" da una minaccia irresistibile.
La idoneità della rappresentazione del male a "dirigere" piuttosto che "piegare" la volontà non può essere stabilita in astratto, ma necessita di uno scrutinio che verifichi in concreto la consistenza della azione minatoria, anche rispetto alla effettiva capacità di resistenza della vittima. Tale indagine non può che analizzare la idoneità coercitiva della minaccia nel momento in cui la stessa viene posta in essere, nulla rilevando che ex post il male prospettato risulti irrealizzabile.
Se si individua nella concreta efficacia coercitiva della minaccia l’attributo della condotta utile per distinguere la truffa dall’estorsione perde rilevanza anche la eventuale irrealizzabilità del male prospettato, essendo l’analisi richiesta limitata alla verifica ex ante della concreta efficacia coercitiva della azione minatoria. Individuato nel costringimento forzato della vittima l’elemento caratterizzante del reato di estorsione, l’idoneità del male minacciato ad incidere il processo volitivo, pertanto, non può che essere valutato ex ante ed in modo indipendente dalla effettiva realizzabilità dell’evento dannoso prospettato (Sez. 2, n. 11453, del 17/2/2016, Rv. 267124).
La valutazione della capacità di concreta ed effettiva coazione della minaccia è, ancora una volta, un’indagine di merito che deve essere effettuata prendendo in esame le circostanze del caso concreto, ovvero sia la potenza oggettiva della minaccia, che la sua soggettiva incidenza sulla specifica vittima e che se congruamente e logicamente motivata dal giudice di merito, non è ulteriormente sindacabile nel giudizio di legittimità (Cass. sez. 6, n. 27996, del 28/5/2014, Rv 261479).
1.2. Deve dunque essere affermato il seguente principio di diritto: la distinzione tra il reato di estorsione consumata attraverso la prospettazione di un pericolo che, apprezzato ex ante, appare quanto mai concreto, sebbene creato ad arte dall’agente, ed il reato di truffa aggravata dalla prospettazione di un pericolo immaginario, deve essere effettuata misurando la concreta efficacia coercitiva della minaccia, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, dovendosi ritenere che si verte nella ipotesi estorsiva quando il male prospettato, derivato dalla volontà potestativa dell’agente, coarta la volontà della vittima; si verte invece nell’ipotesi della truffa quando la prospettazione del pericolo, irrealizzabile per sua intrinseca inconsistenza, non ha capacità coercitiva, ma si limita ad influire sul processo di formazione della volontà deviandolo attraverso la induzione in errore (similmente Cass. sez. 2, n, 46084 del 21/10/2015, Rv. 265362). La valutazione della efficacia coercitiva, piuttosto che semplicemente manipolativa della minaccia deve essere effettuata con apprezzamento da effettuarsi ex ante, ovvero in modo indipendente dalla effettiva realizzabilità del male prospettato.
1.3. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha fatto buon uso di tale esegesi ed ha escluso la riconducibilità della condotta alla ipotesi di truffa, giacché le concrete e ripetute minacce di morte rivolte all’imputato, prospettate dal figlio e da terzi (che manifestavano di conoscere nel dettaglio le abitudini delle vittime) al padre al fine di indurlo ad atti di disposizione patrimoniale, erano da questi percepite come serie ed effettive; tanto che questi manifestò concretamente a più terze persone i propri timori per l’incolumità del figlio, messa in pericolo da ignoti malfattori.
Il peso delle minacce concrete e la loro efficacia intimidatoria è dipesa totalmente dalla capacità dell’imputato e dei terzi che agivano in concorso con lui di rappresentare come reale ed attuale il pericolo per la vita. La vittima pertanto non è stata indotta con l’inganno, ma costretta dal peso delle minacce a determinarsi al sacrificio patrimoniale in favore del figlio.
1.4. La motivazione della sentenza impugnata appare pertanto sul punto congrua e logica, conforme ai consolidati principi elaborati da questa Corte sul tema.
2. La medesima infondatezza avvince i restanti motivi di ricorso, meramente ripetitivi di quelli spesi in sede di appello e tesi - peraltro - ad ottenere una rivalutazione di aspetti attinenti all’accertamento di merito della penale responsabilità.
2.1. Ed invero, le critiche esposte dal ricorrente riguardano profili in fatto, coerentemente scrutinati nel corpo della decisione impugnata, la cui riproposizione è tesa - in tutta evidenza - ad una rivalutazione del peso dimostrativo degli elementi di prova. In tal senso, il ricorso finisce con il proporre argomenti di merito, la cui rivalutazione è preclusa in sede di legittimità.
È costante, infatti, l’insegnamento di questa Corte per cui il sindacato sulla motivazione del provvedimento impugnato va compiuto attraverso l’analisi dello sviluppo motivazionale espresso nell’atto e della sua interna coerenza logico-giuridica, non essendo possibile compiere in sede di legittimità "nuove" attribuzioni di significato o realizzare una diversa lettura dei medesimi dati dimostrativi e ciò anche nei casi in cui si ritenga preferibile una diversa lettura, maggiormente esplicativa (si veda, ex multis, Sez. 6, n. 11194, del 8/3/2012, Rv. 252178). Così come va ribadito che l’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (Sez. U., n. 24 del 24/11/1999, Rv. 214794; Sez. U., n. 47289, del 24/09/2003 Rv. 226074).
La Corte di merito, nel confermare la decisione assunta in primo grado in punto di riconosciuta responsabilità, ha spiegato, in maniera logica e coerente, che la attendibilità dell’offeso (genitore dell’imputato) è stata vagliata, oltre che sotto il profilo della intrinseca credibilità, anche e soprattutto in ragione dei plurimi ed obiettivi riscontri estrinseci al narrato. Tale complessivamente coerente narrazione è stata invero scrutinata sulla base del conforto offerto da testi indifferenti, documentazione incontestata e logica evoluzione della regiudicanda, avendo il giudizio di merito apprezzato, nella conformità della duplice pronuncia di condanna, sia la effettiva concretezza ultimativa delle minacce, che la obiettiva depauperazione del genitore in favore del figlio, determinata esclusivamente per i timori ingenerati dalla condotta di costui. Tali argomentazioni, logiche e coerenti, non appaiono invero incrinate sotto il profilo logico da argomenti di ricorso che censurano un difetto di motivazione che non è dato cogliere dalla lettura della sentenza impugnata.
3. Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Si dà atto che il presente provvedimento è sottoscritto, oltre che dall’estensore, dal consigliere anziano del collegio, per impedimento del presidente, ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, art. 1, comma 1, lett. a).