L’interesse tutelato dalla norma penale che punisce il favoreggiamento della prostituzione non è costituito nè dalla pubblica morale nè dalla libertà morale di chi esercita il meretricio, ma piuttosto dalla dignità che, anche nello svolgimento dell’attività sessuale, è propria di ogni persona e per la cui salvaguardia non valgono nè possono valere ogni forma di contrattazione o di atti di disposizione i quali abbiano una rilevanza patrimoniale o siano comunque suscettibili di dar luogo a vantaggi patrimoniali in capo a chi ne approfitti.
La locuzione “ai danni” presente nella L. 20 febbraio 1958, n 75, art. 4, ai fini della configurabilità delle circostanze aggravanti (e contenuta nella L. n. 75 del 1958, art. 4, nn. 2, 5, 7 e 7 bis), non sta ad indicare un danno concreto, patrimoniale o anche morale, ma intende esprimere l’offesa (oggetto generico), che assume carattere di maggiore gravità quando il fatto è commesso "ai danni" di persona in istato di infermità o minorazione psichica, naturale o provocata (n. 2), di persone aventi rapporti di servizio domestico o d’impiego (n. 5), di più persone (n. 7) o di una persona tossicodipendente (n. 7-bis): quella espressione, cioè, equivale a ‘in confronto di- (v., in senso conforme, nella più remota giurisprudenza, la condivisibile Sez. 3, n. 125 del 25/01/1967 - dep. 23/03/1967, Polettini, Rv. 103839 - 01).
Corte di Cassazione
sez. III Penale, sentenza 25 novembre 2020 – 25 gennaio 2021, n. 2918
Presidente Rosi – Relatore Scarcella
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza 6.11.2019, la Corte d’appello di Palermo confermava la sentenza 13.02.2019 del tribunale di Palermo, appellata dalla H., che, in esito al rito abbreviato, era stata condannata alla pena di 3 anni e 4 mesi di reclusione ed Euro 3000,00 di multa, in quanto ritenuta colpevole del reato di sfruttamento della prostituzione aggravato dall’essere la persona offesa dipendente della ricorrente, in relazione a fatto contestato come accertato in data 27.08.2018.
2. Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia, iscritto all’Albo speciale previsto dall’art. 613 c.p.p., articolando un unico motivo, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p..
2.1. Deduce, con tale unico motivo, il vizio di violazione di legge in relazione alla L. n. 75 del 1958, art. 3, comma 1, nn. ri 4, 5, ed 8, e art. 4, n. 5, e art. 185, c.p., e correlato vizio di motivazione, non essendo il fatto commesso ai danni della persona offesa.
In sintesi, la difesa della ricorrente sostiene che i giudici di merito avrebbero errato nel ritenere sussistente l’aggravante di cui alla L. n. 75 del 1958, art. 4, n. 5, (fatto commesso ai danni di persone aventi rapporto di servizio domestico o d’impiego), in quanto, per ritenere sussistente tale aggravante, non può ritenersi sufficiente che il reato di sfruttamento e/o favoreggiamento della prostituzione altrui sia commesso nei confronti di un soggetto legato da rapporto d’impiego, anche precario o di breve durata, necessitando piuttosto di un’ipotesi di "danno", inteso.quale lesione alla sfera giuridica patrimoniale o non patrimoniale dello sfruttato o del favorito. Circostanza, quest’ultima, che non ricorrerebbe nel caso di specie, dove la persona offesa traeva un suo personale vantaggio dall’esercizio in proprio della prostituzione alle dipendenze della ricorrente, ricavando infatti una maggiore retribuzione (da 800 e 1000 Euro mensili), senza che la persona offesa soffrisse alcun condizionamento o sofferenza anche psichica dallo sfruttamento altrui. La sentenza impugnata, pertanto, sarebbe affetta dal predetto vizio di violazione di legge, oltre che dal dedotto vizio motivazionale laddove ha affermato che ai fini della quantificazione del danno risultava del tutto irrilevante che la p.o. non fosse stata costretta a prostituirsi e che la stessa avesse pure un interesse economico a svolgere quell’attività.
3. Il Procuratore Generale presso questa Corte, con requisitoria scritta del 30.10.2020, ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.
4. La difesa della ricorrente, in data 20.11.2020, ha fatto pervenire conclusioni scritte, con cui, in replica alla requisitoria del PG, ha insistito nell’accoglimento del ricorso, sostenendo che il reato di sfruttamento della prostituzione è commesso sempre ai danni della persona sfruttata e del cui meretricio l’agente profitta, sicché, ai fini della configurabilità della contestata aggravante, occorre un elemento di specificità e caratterizzante la condotta di agire "ai danni" di persona legata da rapporto di impiego e la mancanza di tale specifico elemento, che la Corte territoriale ha ritenuto non necessario per la configurabilità dell’aggravante, rende viziata la sentenza impugnata che va annullata con o senza rinvio.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è infondato.
2. La L. 20 febbraio 1958, n. 75, art. 4, n. 5, (Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui), meglio nota come Legge Merlin, prevede il raddoppio della pena stabilita dall’art. 5, stessa legge, "5) se il fatto è commesso ai danni di persone aventi rapporti di servizio domestico o d’impiego".
Orbene, è incontestato che la ricorrente sfruttasse l’attività di prostituzione della p.o. e che quest’ultima fosse una dipendente dell’odierna ricorrente, in quanto impiegata come massaggiatrice nel centro massaggi gestito dalla ricorrente (laddove tale attività di massaggio era certamente realizzata, sebbene non fosse l’unica e sebbene il massaggio tradizionale, a richiesta del cliente di turno, potesse essere concluso - con un "extra" di natura economica - con una prestazione sessuale).
3. La difesa sostiene che l’aggravante contestata richieda la costrizione dell’autore del danno rispetto all’esercente l’attività di meretricio, quale persona offesa. Nel caso di specie non sussisterebbe alcun "danno", per la partecipazione della persona offesa al maggiore guadagno derivato.
Ritiene, diversamente, il Collegio, così condividendo l’approdo giuridico cui sono pervenuti i giudici di merito, che l’aggravante in oggetto è stata correttamente applicata, in quanto l’attività di sfruttamento della prostituzione è stata realizzata dalla ricorrente nei confronti (e quindi comunque "ai danni") di una sua dipendente, risultando del tutto irrilevante che quest’ultima non fosse stata costretta a prostituirsi e che avesse un interesse economico a svolgere quell’attività.
4. La L. n. 75 del 1958, art. 3, che sanziona l’attività di favoreggiamento, reclutamento, induzione e sfruttamento della prostituzione, e la L. n. 75 del 1958, art. 4, n. 5, che statuisce che la pena è raddoppiata se il fatto è commesso "ai danni" di una persona avente rapporto d’impiego con l’autore del reato (cioè con chi ha sfruttato la sua attività di meretricio o con chi ha favorito la sua attività di meretricio o l’ha indotta a prostituirsi, etc.), devono infatti essere interpretati tenendo conto della ratio della normativa penale che tutela la libertà di autodeterminazione sessuale della persona (per brevità, la c.d. libertà sessuale), che, come chiarito del resto recentemente dalla stessa Corte costituzionale (sentenza 7 giugno 2019, n. 141), pur rientrando nel catalogo dei diritti inviolabili evocati dall’art. 2 Cost., non consente di ritenere che la prostituzione volontaria partecipi della natura di diritto inviolabile, quale forma di estrinsecazione della libertà di autodeterminazione sessuale, in quanto l’offerta di prestazioni sessuali verso corrispettivo non rappresenta affatto uno strumento di tutela e di sviluppo della persona umana, ma costituisce una particolare forma di attività economica, essendo la sessualità dell’individuo, in questo caso, nient’altro che un mezzo per conseguire un profitto.
Del resto, l’interesse tutelato dalla norma penale non è costituito nè dalla pubblica morale nè dalla libertà morale di chi esercita il meretricio, ma piuttosto dalla dignità che, anche nello svolgimento dell’attività sessuale, è propria di ogni persona e per la cui salvaguardia non valgono nè possono valere ogni forma di contrattazione o di atti di disposizione i quali abbiano una rilevanza patrimoniale o siano comunque suscettibili di dar luogo a vantaggi patrimoniali in capo a chi ne approfitti (conforme: Sez. 3, n. 5768 del 19/07/2017 - dep. 07/02/2018, C., Rv. 272694 - 01).
5. La difforme interpretazione sostenuta dalla difesa della ricorrente si noti, era stata in passato sostenuta da una remota giurisprudenza di legittimità (Sez. 3, n. 3815 del 16/10/1979 - dep. 19/03/1980, Poli, Rv. 144710 - 01; Sez. 3, n. 9182 del 09/12/1976 - dep. 15/07/1977, Martini, Rv. 136449 - 01; Sez. 3, n. 803. del 13/05/1968 - dep. 08/07/1968, Nummari, Rv. 108633 - 01), che è da intendersi tuttavia superata dalla più recente giurisprudenza (avallata dalla interpretazione recentemente fornita dalla Corte Cost., con la citata sentenza n. 141/2019), che, appunto, come dianzi precisato, chiarisce che il bene giuridico protetto dalla L. 20 febbraio 1958, n. 75, non è costituito dalla moralità e dalla salute pubblica, nè dalla libertà di autodeterminazione della donna nel compimento di atti sessuali, ma dalla dignità della persona, quale si esplica attraverso lo svolgimento dell’attività sessuale, non suscettibile di formare oggetto di contrattazioni o di atti di disposizione strumentali alla percezione di un’utilità patrimoniale.
6. La decisione impugnata, a giudizio del Collegio, ben motiva ed argomenta sulla interpretazione censurata.
Deve invero rilevarsi che il soggetto la cui prostituzione è sfruttata da altri è - per definizione - persona offesa e soggetto danneggiato dal reato. Consegue che il reato di sfruttamento della prostituzione è commesso "ai danni" della persona il cui meretricio si sfrutta, nonostante tra sfruttatore e sfruttato vi sia un accordo, quand’anche la vittima goda di benefici.
L’espressione "ai danni" (contenuta nella L. n. 75 del 1958, art. 4 nn. 2, 5, 7 e 7 bis) deve infatti intendersi equivalente all’espressione "nei confronti" o "nei riguardi". In tal modo la circostanza di cui all’art. 4, n. 5, in questione va intesa come un’aggravante che opera - tra l’altro - nel caso in cui l’attività di sfruttamento della prostituzione è effettuata nei confronti di un dipendente che goda di benefici da quella attività.
7. Deve, quindi, essere affermato il seguente principio di diritto: "La locuzione “ai danni” presente nella L. 20 febbraio 1958, n 75, art. 4, ai fini della configurabilità delle circostanze aggravanti (e contenuta nella L. n. 75 del 1958, art. 4, nn. 2, 5, 7 e 7 bis), non sta ad indicare un danno concreto, patrimoniale o anche morale, ma intende esprimere l’offesa (oggetto generico), che assume carattere di maggiore gravità quando il fatto è commesso "ai danni" di persona in istato di infermità o minorazione psichica, naturale o provocata (n. 2), di persone aventi rapporti di servizio domestico o d’impiego (n. 5), di più persone (n. 7) o di una persona tossicodipendente (n. 7-bis): quella espressione, cioè, equivale a ‘in confronto di- (v., in senso conforme, nella più remota giurisprudenza, la condivisibile Sez. 3, n. 125 del 25/01/1967 - dep. 23/03/1967, Polettini, Rv. 103839 - 01).
8. Al rigetto del ricorso segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
9. Segue, infine, ex lege, l’oscuramento dei dati personali dei soggetti coinvolti, tenuto conto della tipologia di delitto contestato, che coinvolge la sfera della sessualità.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto disposto d’ufficio e/o imposto dalla legge.