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Querelare l'avvocato, quali regole deontologiche? (CAss. 1002/14)

20 gennaio 2014, Cassazione civile

La norma deontologica non impone all'avvocato che autentica la frma sulla uqerela una valutazione fattuale improntata "maggior approfondimento, dovendo agire contro dei colleghi", dato che sarebbe in contrasto con elementari principi costituzionali, oltre che foriera di una sorta di impredicabile "riguardo alla categoria" imposta all'esercente la professione forense in guisa di lex specialis ex non scripto dal massimo organo disciplinare.

 

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 24 settembre 2013 - 20 gennaio 2014, n. 1002
Presidente Rovelli – Relatore Travaglino

I fatti

Nell'ottobre 2009 R.F. , avvocato in (..), propose ricorso avverso la decisione con la quale il locale Consiglio dell'ordine le aveva irrogato la sanzione disciplinare della censura, ritenendola responsabile della violazione di cui all'art. 22 del codice deontologico per aver presentato, nell'interesse di un proprio assistito, un atto di denuncia querela nei confronti dell'avvocato M.A. senza avere adeguatamente esaminato la fondatezza delle accuse rivolte al collega e senza avere tempestivamente informato il Consiglio dell'Ordine di tale iniziativa (così, testualmente, il capo di incolpazione).
L'atto di querela - materialmente presentato dinanzi alla competente A.G. non dall'incolpata, ma dal suo collega di studio avv. P. - era stato proposto, con riferimento alla condotta ascritta al M. , ai sensi e per gli effetti della norma di cui all'art. 380 c.p..
Si contestava, in particolare, al M. di essere venuto meno ai propri doveri professionali per non avere adeguatamente assistito L.R. nel corso di un giudizio civile da questi intentato nei confronti dei suoi coeredi a seguito della morte del loro dante causa L.C. : in particolare, veniva contestato al legale di non aver compiutamente informato il proprio cliente circa l'attività svolta dal proprio consulente di parte nell'ambito delle operazioni peritali disposte dal giudice, conclusesi poi con esito sfavorevole per il L. .

Gli addebiti mossi all'avv.essa R. da parte del COA di Treviso erano stati, in particolare:
- L'avere l'incolpata ricevuto immediato riscontro alla propria richiesta (dell'ottobre 2005) da parte del collega, il quale sosteneva di avere sempre tenuto informato il L. dell'attività svolta;
- L'essere già desumibile dagli atti di causa e dai verbali di udienza l'attività svolta dal M. , il cui operato consentiva di escludere "carenze significative" nell'attività svolta, onde nessuna censura poteva dirsi realmente fondata nei confronti di quest'ultimo;
- L'essere stata parimenti consumata la violazione dell'art. 22 del CDF, avendo la R. dato comunicazione al Consiglio della querela soltanto due mesi dopo la sua presentazione, senza che, all'uopo, potesse giovare all'incolpata la modifica normativa del gennaio 2006 (disciplina a lei più favorevole), alla luce del principio del tempus regit actus più volte ritenuto applicabile in subiecta materia dalla giurisprudenza di questa Corte regolatrice.
Il ricorso dell'avv. R. , rigettato nell'an, verrà accolto dal CNF nella sola parte in cui si era invocata l'irrogazione di una più mite sanzione (la sentenza risulta depositata il 29 novembre 2012).
Alla decisione di soltanto parziale accoglimento dell'impugnazione faceva da preambolo, nella parte motiva della decisione, una generale considerazione alla luce della quale doveva ritenersi responsabile della violazione dei principi di correttezza e lealtà "l'iscritto che, assunto mandato ad agire penalmente contro taluni colleghi", pur dovendo "sempre effettuare un attento controllo delle carte esibite dal cliente" per verificare l'effettivo fondamento dell'azione da intraprendere, non avesse poi debitamente considerato come "l'approfondimento da svolgere dovesse essere ancora maggiore qualora il destinatario risultasse" (non un quisque de populo, bensì) "un altro collega".
Alla luce di tale premessa, il CNF trasformerà la sanzione della censura in quella dell'avvertimento, alla luce, prima ancora che dell'assenza di precedenti disciplinari, "della giovane età della ricorrente, della modesta esperienza maturata all'epoca della violazione contestata, del comportamento tenuto successivamente alle contestazioni dell'addebito", contraddistinto "segnatamente, dai ripetuti tentativi di trovare una soluzione conciliativa alla controversia insorta con l'avv. M. ": fatti, questi, costituenti, a giudizio dell'organo disciplinare forense, "evidente dimostrazione dell'essersi la ricorrente resa conto di avere superato i limiti imposti dalla norma deontologica".
La sentenza è stata impugnata da R.F. con ricorso per cassazione sorretto da 5 motivi di censura, che si concludono con l'indicazione di un principio di diritto, benché la relativa formulazione (anche se in forma interrogativa piuttosto che non assertiva) non risulti più necessaria, alla luce della novella processuale del 2009.
Le parti intimate non hanno svolto attività difensiva.

Le ragioni della decisione

Il ricorso è meritevole di accoglimento.
Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 22 C.D., 45 RDL 1578/1933, 111 comma 1 Cost., 112 c.p.c. con riferimento all'art. 56 comma 3 RDL 1578/1933.
Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 48 n. 2 RD 37/1934, 3 L. 241/90, 24 e comma 111 Cost. con riferimento all'art. 56 comma 3 RDL 1578/1933.
Con il terzo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 120 c.p. e 336-337 c.p.p..
Con il quarto motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. III Cost., 64 RD 37/1934 per assoluta omissione della motivazione in ordine ad un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, con riferimento all'art. 56 comma 3 DDL 1578/1933.
Con il quinto motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 22 C.D.F. con riferimento all'art. 56 comma 3 DDL 1578/1933.
Le censure, che possono esaminarsi congiuntamente attesane la intrinseca connessione e la sostanziale omogeneità, sono nel loro complesso fondate.

Esse appaino tali per le seguenti, concorrenti ragioni:

1) Contrariamente a quanto statuito in sede di condanna disciplinare - e cioè l'aver predisposto l'atto di denuncia querela -, e contrariamente a quanto (diversamente) contestato alla ricorrente nel capo di incolpazione - e cioè l'aver presentato un atto di denuncia/querela nell'interesse di un proprio assistito" - l'avv. R. non ha mai personalmente presentato alcun atto di denuncia-querela nei confronti dell'avv. M. , e ciò tanto sotto il profilo formale (la presentazione fu opera di altro legale) quanto sotto quello sostanziale (il contenuto dell'atto essendo riconducibile alla sola volontà del soggetto querelante, giusta il combinato disposto degli artt. 337 comma 1 e 333 comma 2 del codice di rito penale);

2) Contrariamente a quanto statuito in sede di condanna disciplinare, l'atto di denuncia/querela doveva ritenersi riconducibile, sul piano funzionale (e cioè quoad effecta), alla sola volontà del querelante -volontà espressa con irremovibile ed iraconda fermezza di propositi, come non contestato in sede di giudizio di merito: in particolare, gli stessi atti di indagine che condussero il P.M. a chiedere l'archiviazione del procedimento avviato nei confronti dell'avv. M. contenevano espliciti riferimenti (come rileva parte ricorrente con riferimento al documento n. 18 della propria produzione) alla "negativa personalità" ed alla "litigiosità" del L. ;

3) Contrariamente a quanto statuito in sede disciplinare, con tale atto vennero esposte soltanto vicende oggettivamente riscontrabili, allo stato dei fatti e per quanto a conoscenza ratione temporis della odierna ricorrente, in adempimento di un non meno pregnante dovere, tanto deontologico quanto direttamente riferibile alla Carta costituzionale, di tutelare il cliente e di preservarlo da possibili conseguenze pregiudizievoli delle proprie affermazioni in sede di esercizio del proprio diritto di difesa;

4) Contrariamente a quanto statuito in sede disciplinare, la denuncia/querela doveva ritenersi riconducibile, sul piano genetico, ancora una volta al solo L. , unico sottoscrittore dell'atto, essendosi la R. limitata ad autenticarne la sottoscrizione in ossequio al poc'anzi ricordato disposto normativo del codice di rito penale;

5) Contrariamente a quanto statuito in sede disciplinare, la contestata mancanza di un adeguato vaglio di fondatezza dell'iniziativa assunta dal cliente appare smentita dallo stesso esito dell'indagine penale, volta che il P.M. investito della notitia criminis si risolse a chiedere l'archiviazione del procedimento non per manifesta infondatezza, riscontrabile ictu oculi, dei fatti posti a base delle contestazioni mosse all'avv. M. , ma soltanto all'esito delle disposte indagini, che la difesa ricorrente definisce "approfondite" senza che la circostanza possa dirsi contestata, nell'assenza di controdeduzioni di parte intimata non costituita;

6) Contrariamente a quanto statuito in sede disciplinare, l'avv. M. omise di fornire, illico et immediato (come pure sarebbe stato suo preciso onere) tutte le informazioni richiestegli tra l'ottobre e il novembre del 2005, con tale comportamento non contribuendo a rendere poco o nulla credibili le accuse che il cliente gli muoveva.
Non erra il difensore di parte oggi ricorrente nel sostenere (folio 28 dell'atto di impugnazione) che, se ciò fosse accaduto a seguito della puntuale richiesta dell'avv. R. , e non a distanza di tempo - e rendendo destinatario delle informazioni il solo COA -, i fatti avrebbero verosimilmente costituito oggetto di una diversa interpretazione da parte del nuovo difensore;

7) Contrariamente a quanto statuito in sede disciplinare, la norma deontologica non imponeva né impone una valutazione fattuale improntata ad un ben "maggiore approfondimento, dovendo agire contro dei colleghi" (folio 4 della sentenza impugnata). Tale, invero singolare affermazione appare, difatti, in contrasto con elementari principi costituzionali, oltre che foriera di una sorta di impredicabile "riguardo di categoria" imposta all'esercente la professione forense in guisa di lex specialis ex non scripto dal massimo organo disciplinare. Ciò che si richiedeva all'avv. R. era non altro, per converso, che un'analisi di verosimiglianza e di non palese infondatezza del contenuto delle dichiarazioni del cliente;

8) Contrariamente a quanto statuito in sede disciplinare - e pur volendo in questa sede prescindere dalla delicatissima quaestio iuris della applicabilità, o meno, della norma più favorevole succedutasi nel tempo nelle more del procedimento disciplinare (atteso, di questo, l'evidente carattere para-penalistico, assai più che amministrativo, nonostante il contrario avviso espresso da questa Corte con la sentenza n. 15314 del 2010) -, l'odierna ricorrente ha fornito ampia prova e consequenziale spiegazione dei presupposti di riservatezza che l'avevano indotta ad inviare la prescritta comunicazione al COA in data successiva alla presentazione della denuncia/querela: ciò è a dirsi tanto con riferimento alla regola di segretezza degli atti del procedimento penale sino alla notifica dell'avviso ex art. 415 bis c.p.p., quanto alla necessità di procurarsi, all'uopo, il consenso scritto del cliente, rilasciato soltanto nel mese di gennaio del 2006. Sul punto, la motivazione dell'impugnata sentenza risulta cosi tacitiana da risultare, nella sostanza, meramente apparente (folio 5 della sentenza impugnata).

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione, al Consiglio Nazionale Forense, in altra composizione.