Non integra il delitto di rissa la condotta di colui che, aggredito da altre persone, reagisca difendendosi, mentre configura il reato la condotta di due gruppi contrapposti che agiscano con la vicendevole volontà di attentare all'altrui incolumità (presupposto che non è integrato, ancora una volta, qualora un gruppo di persone assalga altri soggetti che fuggano dall'azione violenta posta in essere ai loro danni); ai fini della configurazione del reato di rissa, è sufficiente la partecipazione di almeno tre persone, in quanto rileva anche la contrapposizione tra due soggetti contro una sola persona.
E' ammissibile il ricorso della parte civile che invochi la più grave qualificazione giuridica di omicidio preterintenzionale, in luogo di quella di rissa aggravata dalle lesioni del soggetto coinvolto, poi deceduto senza che la morte sia stata riconosciuta come collegata causalmente alla condotta di reato, poiché tale richiesta di riqualificazione determina inevitabili effetti sulla quantificazione del danno morale o del danno biologico già riconosciuti, così configurandosi l'interesse a ricorrere della parte civile, a prescindere da qualsiasi allegazione formale e specifica della parte civile riguardo a detta quantificazione.
Cassazione penale
sez. V, ud. 2 marzo 2023 (dep. 22 maggio 2023), n. 21869
Ritenuto in fatto
1. La Corte d'Assise d'Appello di Milano, con la decisione impugnata, ha confermato la sentenza della Corte d'Assise di Milano del 5.7.2021 che ha condannato, per il delitto di rissa di cui all'art. 588, comma 2, aggravato ai sensi dell'art. 61, comma 1, n. 11 quinquies, c.p., S.H. , F.M.S. e F.S. alla pena di anni tre di reclusione, oltre al risarcimento del danno in favore delle parti civili costituite B.R. , R.A. e A. , da liquidarsi separatamente, assegnando una provvisionale immediatamente esecutiva pari a 30.000 Euro per ciascuna delle parti civili; con la stessa sentenza è stato assolto P.A. dal concorso nel reato. Gli imputati erano stati inizialmente tratti a giudizio in relazione al delitto di concorso in omicidio preterintenzionale di R.A. , poi riqualificato, dalla sentenza di primo grado confermata da quella di appello, in rissa aggravata dalle lesioni (di alcune) delle persone coinvolte, ma esclusa la circostanza della derivata morte; la morte, secondo la Corte d'Assise d'Appello è stata causata autonomamente dalla patologia cardiaca di cui la vittima soffriva, escluso il nesso eziologico con le lesioni; lo sfondo della vicenda è costituito dalla lite per un debito non pagato da parte di R.A. a S.H. .
2. Avverso il provvedimento in esame ha proposto ricorso la parte civile B.R. , moglie della vittima, tramite il difensore, deducendo un unico motivo di censura con cui contesta la riqualificazione del reato da omicidio preterintenzionale in rissa aggravata. Il ricorso premette una ricostruzione dei fatti, così come risultano accaduti all'esito dell'istruttoria dibattimentale: l'iniziale aggressione sarebbe avvenuta tra S. e la vittima, che non voleva saldare il proprio debito; sarebbe proseguita la lite, poi, coinvolgendo i fratelli di S. e i parenti (la moglie, il fratello, la figlia) della vittima; infine, quest'ultima sarebbe stata aggredita da sola dal gruppo capitanato da S. e, infine, mentre cercava di raggiungere casa, R.A. sarebbe morto, colpito da arresto cardiocircolatorio.
Secondo il pubblico ministero, già appellante, e la parte civile, che oggi ricorre in Cassazione, l'epilogo della vicenda e il suo nucleo essenziale configurano una vera e propria "spedizione punitiva" ai danni della vittima, con il conseguente omicidio preterintenzionale.
A giudizio delle sentenze di primo e secondo grado, invece, il conflitto che ha generato il decesso non era stato programmato; aveva coinvolto due gruppi di persone; era stato caratterizzato da qualche atto di violenza reciproca non particolarmente offensiva, senza lesioni gravi come conseguenza, sicché non era prevedibile, da parte degli autori, la morte della vittima, derivata dalla patologia cardiaca che lo affliggeva e della quale neppure lui era a conoscenza; nè gli elementi del fatto lasciavano presagire una tale vulnerabilità, come sottolineato dalla sentenza d'appello, che ha ritenuto, altresì, di non dover neppure soffermarsi sulla prevedibilità dell'evento morte ai fini della possibile configurazione del reato di omicidio preterintenzionale, vista la evidenza della qualificazione della condotta come rissa, anche alla luce del comportamento della vittima desunto dalle testimonianze: questi, piuttosto che essere intimorito e fuggire da un'aggressione, aveva invece ingaggiato lo scontro con la parte avversa, proseguendolo all'arrivo del fratello, della moglie e della figlia.
Il ricorso, invece, ritiene che la vittima abbia reagito all'aggressione per difendersi, aiutato, nella difesa, dai parenti, i quali non costituivano, sol per questo, una "fazione" avversa di contendenti.
La ricorrente, inoltre, rifacendosi all'orientamento di legittimità secondo cui il coefficiente psicologico della fattispecie astratta di cui all'art. 584 c.p. è costituito unicamente dal dolo di percosse o lesioni (il delitto "sussidiario"), in quanto la disposizione di cui all'art. 43 c.p. assorbe la prevedibilità dell'evento più grave nell'intenzione di risultato, sostiene che la morte del marito sia l'evento del reato progressivo unico ed il risultato delle percosse e lesioni cagionate alla vittima dai suoi aggressori. Si richiama, come precedente coerente con la tesi di ritenere configurabile, nel caso di specie, il delitto di omicidio preterintenzionale, la sentenza Sez. 5, n. 9789 del 3/12/2020, dep. 2021, che aveva proprio collegato un decesso improvviso alle ripetute aggressioni verbali e fisiche, idonee ad incidere sul precario stato di salute della vittima, valutata la contestualità della condotta aggressiva con la morte.
Ebbene, in relazione all'evento letale occorso ad R.A. , i consulenti medico-legali hanno senz'altro accertato il nesso eziologico esistente tra il decesso e la lite, tenendo conto sia della condizione patologica preesistente (l'aritmia maligna), sia degli altri fattori causali stressogeni complessivamente vissuti durante il corso del litigio della vittima con gli imputati. Il giudizio controfattuale di eliminazione virtuale delle lesioni subite da R.A. , corrispondendo al venire meno dello stress, non poteva che condurre all'affermazione di responsabilità degli imputati per il delitto di concorso in omicidio preterintenzionale, sicché la sentenza d'appello, che non giunge a tali conclusioni, nonostante le premesse in fatto incontroverse, è viziata da motivazione contraddittoria e manifestamente illogica.
A tale conclusione si giunge anche se si vuol ritenere l'exitus fatale quale concretizzazione del pericolo generato dalla condotta degli agenti, la quale ha dato luogo ad "un'area di rischio" tale che "quella morte" costituisce una diretta conseguenza delle condotte degli stessi (il ricorso si richiama alla giurisprudenza di legittimità in tal senso): la vittima è morta per lo stress causato dalle aggressioni subite, le ripetute percosse e lesioni, in concorso con la malattia da cui era affetta.
3. Il Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Milano ha depositato memoria ex art. 121 c.p.p., con cui ritiene condivisibili le argomentazioni contenute nel ricorso per cassazione della parte civile e aggiunge una serie di ulteriori, concorrenti considerazioni per sostenere la fondatezza della qualificazione delle condotte degli imputati sotto l'egida normativa dell'art. 584 c.p. piuttosto che in termini di rissa aggravata. Soprattutto, si denuncia il travisamento della prova consistita dalle dichiarazioni dibattimentali del consulente tecnico del pubblico ministero, che ha certamente indicato, tra le concause possibili dello stress cui è seguito l'arresto cardiaco e la morte della vittima, tutto quanto messo in atto dagli imputati ai suoi danni, a partire dalle percosse e dalla lunga fase della colluttazione fino alle lesioni, per quanto lievi.
La stessa sentenza impugnata ammette tale ricostruzione probatoria, senza trarne le corrette conseguenze in termini di qualificazione giuridica e dimenticando che il consulente tecnico ha poi evidenziato esplicitamente che, nel caso di specie, si era di fronte ad una morte cardiaca improvvida, per la quale gli eventi descritti in atti, che hanno concretizzato uno stress fisico reale, detengono matrice e natura di fattore concausale. Si è espressamente precisato che gli eventi fattuali premortali descritti in atti - che corrispondono a quelli emersi in dibattimento - possono essere tecnicamente interpretati come elemento causale nel determinismo del decesso di R.A. .
Il ricorrente evidenzia come anche le lesioni, su domanda proprio del Presidente del Collegio, si è detto che, pur se lievi, potevano determinare la tachicardia, il picco ipertensivo, costringendo il sistema cardiocircolatorio "a lavorare in quella che si chiama reazione di difesa" con innalzamento del ritmo cardiaco, della pressione che costringe in "grande sofferenza" un cuore malato, come era quello della vittima.
Richiamandosi, infine, alla giurisprudenza sull'elemento psicologico richiesto per la configurabilità dell'omicidio preterintenzionale, il PG di Milano conclude per l'annullamento, ai fini civilistici, della sentenza impugnata.
4. Il Sostituto Procuratore Generale Pasquale Serrao d'Aquino ha concluso per l'inammissibilità del ricorso della parte civile, che non ha indicato lo specifico interesse, in termini di diversa quantificazione del danno, alla differente qualificazione giuridica del reato.
5. Gli imputati F.M.S. e F.M.S. hanno depositato memorie con le quali chiedono l'inammissibilità del ricorso della parte civile, per difetto di allegazione dell'interesse concreto ad ottenere una diversa qualificazione giuridica.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Preliminarmente, occorre rilevare come l'interesse concreto della parte civile a ricorrere debba ritenersi esistente e immediatamente evincibile nel caso della ricorrente, ineludibilmente insito nella sua domanda.
Questa Corte regolatrice, effettivamente, ha spesso fatto richiamo alla necessità, per la parte civile che proponga ricorso in Cassazione al fine di ottenere una diversa qualificazione giuridica dei fatti, di dimostrare il proprio interesse ad agire, collegandolo costantemente alla circostanza che da tale differente qualificazione possa derivare una differente quantificazione del danno da risarcire (cfr., tra le più recenti, Sez. 5, n. 25597 del 14/5/2019, Lucidi, Rv. 277311; Sez. 3, n. 16602 del 21/02/2020, N, Rv. 280124; in passato, cfr. Sez. 5, n. 12139 del 14/12/2011, Martinez, Rv. 252164 e Sez. 4, n. 39898 del 3/7/2012, Giacalone, Rv. 254672).
In sintesi, l'opinione dominante in giurisprudenza ritiene che la parte civile non possa ricorrere al fine di ottenere una più corretta decisione, ma deve essere portatrice di un interesse pratico e occorre, pertanto, che dalla riqualificazione giuridica possa derivare un'utilità concreta in tema di risarcimento del danno dinanzi al giudice civile.
Tale interesse concreto deve essere oggetto di allegazione nel ricorso, che dovrebbe indicare le ragioni per le quali si impugna la decisione: vale a dire, se la diversa gravità del reato incide sul danno, morale o biologico (iure proprio o iure hereditatis) o anche solo sulla cd. personalizzazione del danno (cfr. Sez. 5, n. 32762 del 7/6/2013, Floramo, Rv. 256952, che individua, ad esempio, un onere della parte civile di indicare le ragioni per cui il riconoscimento di un'attenuante ovvero il disconoscimento di un'aggravante incidano concretamente sulla pretesa risarcitoria).
Orbene, nel caso di specie, non può condividersi la richiesta di declaratoria di inammissibilità del ricorso - avanzata dal PG e dagli imputati - per mancanza di indicazione (allegazione) dell'interesse concreto alla diversa qualificazione giuridica dei fatti, ad opera della parte civile, essendo macroscopicamente ed immediatamente evincibile detto interesse dalla richiesta di riqualificazione proposta, argomentata in modo ampio, ancorché, come si dirà, secondo direttrici di censura inammissibili poiché "in fatto".
Il reato di rissa aggravato per cui sono stati condannati gli imputati ha escluso, infatti, sia la configurabilità dell'omicidio preterintenzionale sia dell'aggravante dettata dal comma 2 dell'art. 588 c.p. per l'ipotesi di rissa cui segua la morte di uno dei soggetti coinvolti, in tal modo negando del tutto il nesso di congiunzione causale tra il decesso della vittima e la condotta degli imputati, attribuendo loro soltanto le lesioni seguite alla rissa, delle quali si è negata la natura di fattore eziologico innescante/concorrente dell'exitus.
Non può esservi dubbio, in un tale contesto, che l'invocata, più grave qualificazione giuridica dei fatti come omicidio ex art. 584 c.p. produrrebbe effetti sulla quantificazione del danno morale o del danno biologico già riconosciuti, così configurandosi l'interesse a ricorrere della parte civile, a prescindere da qualsiasi allegazione formale e specifica della parte civile: nella specie, è evidente la distanza ontologica tra la dedotta causazione della morte della vittima, quale conseguenza delle condotte dei ricorrenti, e l'avversata soluzione della sentenza impugnata nel senso dell'accertamento di generiche e lievi lesioni riportate da R.A. come conseguenza del diverso reato di rissa; lesioni tanto lievi da essere "estratte" dal nesso di causalità con la sua morte, attribuita esclusivamente all'interazione tra la sollecitazione dello stress psicologico, neppure questo derivato dalle lesioni, e la patologia cardiaca estremamente grave di cui questa soffriva.
E la valutazione dell'interesse ad impugnare, allorché il gravame sia in concreto idoneo a determinare per il ricorrente, con l'eliminazione del provvedimento impugnato, una situazione pratica più vantaggiosa di quella realizzata dal provvedimento impugnato, va operata con riferimento alla prospettazione contenuta nel ricorso e non alla effettiva fondatezza della pretesa del ricorrente (v., specificamente, riguardo alla impugnazione volta ad ottenere la riqualificazione giuridica del fatto, Sez. 3, n. 38544 del 27/05/2015, Serafino, Rv. 264634).
La verifica dell'interesse ad impugnare, invero, ha ad oggetto l'esistenza di una ragione economica della parte proponente di ottenere una nuova decisione onde rimuovere il pregiudizio che a quella ragione arreca il provvedimento impugnato.
Tale interesse, quindi, risulta escluso solo in quanto, alla stregua della stessa richiesta della parte legittimata all'impugnazione, la decisione del giudice di gravame non inciderebbe nella sfera sostanziale della parte proponente (Sez. U, n. 40049 del 29/05/2008, Guerra, Rv. 240815 e Sez. 1, n. 47675 del 24/11/2011, Loffredo, Rv. 252183: l'impugnazione, per essere ammissibile, deve tendere all'eliminazione della lesione di un diritto, non essendo prevista la possibilità di proporre un'impugnazione che miri unicamente all'esattezza giuridica della decisione, senza che ne consegua un vantaggio pratico per il ricorrente, o addirittura ne consegua un danno).
E non vi è dubbio che, in sede civilistica, il risarcimento del danno per fatto illecito dipende anche dalla gravità del reato e dall'entità del patema d'animo sofferto dalla vittima, che non può non variare a seconda che il fatto illecito venga qualificato come omicidio preterintenzionale ovvero come rissa aggravata dalle sole lesioni della vittima, senza che la sua morte venga collegata alla condotta di reato.
In conclusione, deve affermarsi che è ammissibile il ricorso della parte civile che invochi la più grave qualificazione giuridica di omicidio preterintenzionale, in luogo di quella di rissa aggravata dalle lesioni del soggetto coinvolto, poi deceduto senza che la morte sia stata riconosciuta come collegata causalmente alla condotta di reato, poiché tale richiesta di riqualificazione determina inevitabili effetti sulla quantificazione del danno morale o del danno biologico già riconosciuti, così configurandosi l'interesse a ricorrere della parte civile, a prescindere da qualsiasi allegazione formale e specifica della parte civile riguardo a detta quantificazione.
3. Verificata positivamente la questione sull'esistenza di un interesse a ricorrere della parte civile, deve essere affrontato il cuore della richiesta avanzata con l'impugnazione, vale a dire la domanda di riqualificazione giuridica della condotta delittuosa ascritta agli imputati.
Il ricorso, sotto tale profilo, è inammissibile.
La difesa punta a rimodulare le conclusioni dei giudici di merito quanto al giudizio controfattuale di eliminazione virtuale delle lesioni subite da R.A. , che, corrispondendo al venire meno dello stress, non poteva che condurre all'affermazione di responsabilità degli imputati per il delitto di concorso in omicidio preterintenzionale: la sentenza d'appello, che non giunge a tali conclusioni, nonostante le premesse in fatto incontroverse, sarebbe viziata da motivazione contraddittoria e manifestamente illogica. Invero, nella prospettazione difensiva, pur prendendosi in considerazione le diverse opzioni giurisprudenziali emerse nella giurisprudenza di legittimità in tema di configurabilità del delitto omicidio preterintenzionale, ciò che si chiede al Collegio, in realtà, è una rivalutazione nel merito delle prove acquisite in atti e che hanno fatto sì, da un lato, che i giudici d'appello riconducessero (così come i primi giudici) la fattispecie concreta nella cornice normativa dell'art. 588 c.p.; dall'altro, che fosse escluso, sulla base degli accertamenti medico-peritali, che dalle lesioni minime seguite alla rissa fosse derivato uno stress psicofisico, tale da costituire esse una concausa della morte della vittima, avvenuta invece per un'aritmia maligna letale, dovuta ad una malattia congenita, ignota alla stessa persona deceduta.
Tale aritmia maligna letale, si è stabilito con le ampie argomentazioni del provvedimento d'appello, scevre da errori logico-giuridici, non ha potuto essere collegata, al di là di ogni ragionevole dubbio, neppure alle lesioni - di poco momento e indeterminate - causate alla vittima dalla partecipazione alla rissa, poiché dette lesioni non si è accertato con adeguata sicurezza probatoria che abbiano influito sul generarsi di quello stato di agitazione che determinò l'exitus (cfr. pag. 26 e 27 della sentenza impugnata, in particolare).
Il nucleo centrale della doglianza difensiva è rappresentato dalla qualificazione giuridica del reato di rissa, osteggiata nel ricorso della parte civile.
E tuttavia, proprio tale configurazione risulta essere la porzione più convincente della sentenza impugnata, che è coerente sul punto con quella di primo grado, da cui si discosta solo per evidenziare come neppure possa ritenersi integrata l'ipotesi del comma 2, primo periodo, prima parte dell'art. 588 c.p., estrapolando la morte dalla sua derivazione dal reato di rissa, che ritiene, pertanto, aggravato dalle sole lesioni prodotte alla vittima, prima del decesso.
I passaggi ricostruttivi della sentenza dedicati alla qualificazione dell'accaduto come rissa, e non già aggressione unilaterale ai danni della vittima, sono ampiamente argomentati, basati sulle testimonianze plurime che indicano la dinamica dei fatti come reciprocamente offensiva tra due fazioni di persone, diversamente composte, e su alcuni riscontrì ulteriori che la confermano (vedi pagine da 21 a 25, in particolare).
La mancanza dell'uso di armi e l'accertamento di spintoni, schiaffi e pugni reciproci tra i componenti dei due gruppi contrapposti, senza che la vittima ricercasse la fuga, ma, anzi, con la prova che accettasse lo scontro e insistesse nel misurarsi con gli altri contendenti, hanno condotto a ritenere, da un lato, la certa configurabilità del reato come rissa, ancorché aggravata dalle lesioni che non solo R.A. , ma anche alcuni altri partecipi, avevano riportato; dall'altro, ad escludere una gravità della contesa tale da considerare l'ordinario stress derivatone capace di innescare la reazione mortale poi verificatasi.
A tale conclusione, la Corte d'Assise d'Appello è stata indotta, invero, dalle risultanze medico-legali: la causa di morte della vittima risulta individuata dai consulenti in un iperacuto scompenso aritmico maligno dovuto ad una precorrente cardiocoronaropatia cronica, scompenso derivato dallo stress emotivo e fisico personale per il litigio, prima ancora che sfociasse in rissa, e non direttamente dalle lesioni causate dalle percosse ricevute nel corso dell'escalation violenta.
Più specificamente, indagando sul se tale stress possa essere derivato dalle lesioni, la sentenza impugnata evidenzia, sulla base delle risposte dei consulenti in dibattimento, come non sia possibile indicare da quale dei momenti di tensione emotiva, anche precedenti alla rissa e collegati al mero insorgere del litigio verbale, si sia potuta generare l'aritmia cardiaca letale.
La Corte d'Assise d'Appello sottolinea come i consulenti abbiano riferito della difficoltà di individuare che cosa serva o sia sufficiente per il verificarsi di un esito letale in un paziente con un cuore comunque compromesso così gravemente come quello della vittima, sicché neppure con il criterio della probabilità logica o della credibilità razionale sarebbe possibile affermare - secondo la sentenza - che le lesioni abbiano concorso all'incremento dello stress, certamente provato dall'R.A. già nei prodromi del litigio, durante i quali, forse, era già in scompenso cardiaco (come evidenziano i giudici).
Di qui, l'esclusione anche dell'aggravante della morte di uno dei corrissanti, rispetto al ritenuto reato di cui all'art. 588 c.p..
3.1. Dinanzi a tale tessuto di prova ed a tali approdi, le richieste della parte civile di addivenire ad una soluzione diversa in punto di qualificazione giuridica si rivelano inammissibili, poiché volte a proporre una diversa lettura delle complesse risultanze di fatto accertate, anche e soprattutto dal punto di vista medico-legale.
Nulla aggiunge la memoria ex art. 121 c.p.p. depositata dal Procuratore Generale presso la Corte d'Appello, che si limita, in più, a denunciare il travisamento della prova relativa alle testimonianze dei consulenti medici, in realtà proponendo soltanto una lettura differente dei medesimi dati, incontroversi, che, a suo giudizio, non lascerebbero dubbi sulla possibilità di ritenere derivata causalmente la morte della vittima dallo stress psicofisico causato dalla contesa violenta.
Come noto, in tema di giudizio di cassazione, sono precluse al giudice di legittimità - a meno che non si rivelino fattori di manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato - la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (cfr., tra le più recenti, Sez. 6, n. 5465 del 4/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 280601; Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482).
Quanto alla configurabilità del reato di rissa, la decisione appare consapevole della giurisprudenza di legittimità in tema e corrisponde ad essa.
Invero, non integra il delitto di rissa la condotta di colui che, aggredito da altre persone, reagisca difendendosi (Sez. 5, n. 22587 del 2/2/2022, Paladino, Rv. 283398), mentre configura il reato la condotta di due gruppi contrapposti che agiscano con la vicendevole volontà di attentare all'altrui incolumità (presupposto che non è integrato, ancora una volta, qualora un gruppo di persone assalga altri soggetti che fuggano dall'azione violenta posta in essere ai loro danni: tra le molte, cfr. specificamente Sez. 6, n. 12200 del 4/12/2019, Pagano, Rv. 278728; in motivazione, la Corte ha precisato che il reato di cui all'art. 588 c.p. richiede la partecipazione di almeno tre persone, in quanto rileva anche la contrapposizione tra due soggetti contro una sola persona).
Anche il fattore "iniziativa" non ha valore, per l'esclusione del reato: ai fini della configurabilità del delitto di rissa, una volta accertata l'esistenza di gruppi contrapposti con vicendevole intenzione offensiva dell'altrui incolumità personale, è irrilevante individuare chi per primo sia passato a vie di fatto (Sez. 1, n. 18788 del 19/1/2015, Garau, Rv. 263567; Sez. 5, n. 4878 del 28/3/1984, Quaglio, Rv. 164470).
La decisione impugnata è coerente con i presupposti giurisprudenziali che ritengono configurabile il reato; la fattispecie, così come esposta nella sentenza - insulti reciproci; situazione dinamica in cui entrambe le fazioni (quella della vittima e dei suoi congiunti e quella dei tre fratelli F. e del loro cugino) si sono scambiate spintoni ed alcuni schiaffi e pugni; nessun tentativo di fuga da parte del deceduto, ma anzi accettazione da parte sua dello scontro e, finanche, una prima possibile aggressione fisica da lui proveniente, quando gli fu richiesta la restituzione del debito contratto (vedi pag. 23) - integra pienamente i caratteri di tipicità del delitto ex art. 588 c.p., siccome declinati dal diritto vivente.
3.2. Non occorre richiamare gli orientamenti di questa Corte, invece, in tema di configurabilità del reato di omicidio preterintenzionale, poiché, appunto, il ricorso non centra la modalità di proposizione delle doglianze, ritenendo manifestamente illogiche le conclusioni dei giudici di merito quanto alla configurazione del reato di rissa, che, pur opinabili, nella complessità della ricostruzione della vicenda concreta - complessità non nascosta dalla sentenza - sono invece plausibilmente esposte.
La Corte d'Assise d'Appello giunge a ritenere che nessuna aggressione unilaterale vi sia stata ai danni della vittima, ma ci si sia trovati dinanzi ad una fattispecie di reciproca e contestuale, improvvisa esplosione di ira tra i soggetti coinvolti, nessuno dei quali si è sottratto alla lite. Non vi sono iati logici rispetto a tale ricostruzione, a dispetto delle assertive proposizioni della ricorrente e della memoria del Procuratore Generale d'appello, che ritengono dagli elementi di prova emerga una diversa dinamica, con la vittima inerme aggredita.
3.3. La successiva derivazione causale della morte dal reato, infine, avrebbe potuto essere contestata con riguardo al delitto previsto dall'art. 588 c.p., al fine di ritenere sussistente l'ipotesi aggravata del comma 2, primo periodo, prima parte della citata norma, piuttosto che esclusa, come stabilito nella sentenza impugnata, rimodulando la decisione del primo giudice, ma tale obiezione non è stata sollevata esplicitamente dalla ricorrente, nè può desumersi dalla più grave, invocata qualificazione giuridica ex art. 584 c.p..
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.