La responsabilità civile del magistrato è sempre stato un tema di ampio dibattito, a causa della sua delicatezza ma anche e soprattutto a causa della sua disciplina di palese inefficacia: ma in un momento in cui ingegneri e medici sono chiamati a rendere conto del rispetto della “regola d’arte”, il giudice è ancora libero di interpretare il diritto in modo personale e originalissimo?
Responsabilità civile del magistrato penale: una guida*
Carola Delli Santi
La responsabilità civile del magistrato è sempre stato un tema di ampio dibattito, a causa della sua delicatezza ma anche e soprattutto a causa della sua disciplina di palese inefficacia.
Il merito di aver riacceso i riflettori su una simile problematica spettò al caso Tortora, risalente al 1983, al termine del quale risultarono intaccati i principi base del procedimento stesso, ad iniziare dalla presunzione di non colpevolezza[1] e dall’“oltre ogni ragionevole dubbio”, quest’ultimo indubbiamente codificato nel 2006 grazie alla legge Pecorella all’interno del codice di procedura penale[2], ma base imprescindibile del procedimento giurisdizionale già da molto tempo. Ne risultò evidentemente segnata anche l’opinione pubblica.
A seguito di tale vicenda si ottenne infatti il superamento della vecchia disciplina, prevista negli articoli 55, 56 e 74 del codice di procedura civile, conseguentemente ad una consultazione referendaria del 1987 (passata con un quorum del 65,1% e con una percentuale di sì pari all’80%), la quale costrinse il legislatore ad intervenire nuovamente sul tema. Si ottenne la legge 117 del 1988 (legge Vassalli). Nella stessa era previsto un sistema di risarcimento, a favore del cittadino, a fronte di "un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia?" [3]causa di un danno ingiusto (patrimoniale ed anche non patrimoniale nel caso di privazione della libertà personale). Legittimato passivo lo Stato nella persona del Presidente del Consiglio.
La riforma del 27 febbraio 2015 numero 18, infine, dopo 27 anni di vigenza della vecchia normativa, è intervenuta sulla legge 117 del 1988, perché l’Italia potesse adempiere agli obblighi derivati dalle pronunce della Corte di Giustizia Europea, in particolare la sentenza Traghetti del Mediterraneo s.p.a. e la sentenza 24 Novembre 2011.
La legge Vassalli, così come prevista dal legislatore del 1988, sebbene subentrata alla vecchia disciplina codicistica con le migliori aspettative, presentava infatti notevoli ostacoli ad una sua effettiva applicazione ed a dimostrazione di ciò i numeri: secondo i dati raccolti dall’Avvocatura dello Stato alla fine del 2010 risultavano 400 le cause proposte, solo 34 quelle che avevano superato il vaglio di ammissibilità e di queste 34 solo 4 quelle che erano terminate con una condanna.
Appare palese quindi già il primo grande limite della legge Vassalli nella sua originaria formulazione: la presenza di un giudizio di ammissibilità della domanda, il quale oltretutto, in sostanza, rappresentava un vero e proprio giudizio di merito anteriore a quello effettivo.
Ma vi erano altri aspetti della legge fortemente criticati dalla dottrina. Trattasi per esempio della c.d. clausola di salvaguardia ex art 2, comma 2, legge 117 del 1988, in base alla quale:
"Nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove".
Si capisce bene come l’attività di interpretazione e valutazione sia, all’interno dell’esercizio della funzione del magistrato, di così ampia esistenza da potersi ricondurre a questo solo comma gran parte dell’inefficacia della legge Vassalli.
Il limite più grande posto alla normativa in questione però è sicuramente derivato, in fase di applicazione, dalla giurisprudenza stessa.
La Corte di Cassazione ha interpretato in modo restrittivo la lettera della legge, così creando orientamenti ben radicati, come quello in virtù del quale si riconosceva, nel campo di applicazione della legge 117 del 1988, esclusivamente la negligenza inescusabile che si sostanzia nella violazione evidente, macroscopica e grossolana della norma[4]. A dimostrazione della coesione sul punto, si parlò a tal riguardo di una vera e propria condizione (creata ex novo) di procedibilità di natura giurisprudenziale.
Così come spesso accade soprattutto in tema di diritti individuali in relazione al processo è l’Europa il fattore di evoluzione anche delle singole normative nazionali, si pensi al giusto processo ed alla riforma dell’articolo 111 della Costituzione, si pensi alla grande lentezza dei procedimenti italiani ed alla emanazione della Legge Pinto.
In tema di responsabilità civile del magistrato (rectius: responsabilità dello Stato per fatto del giudice) la Corte di Giustizia Europea ha ammonito l’Italia (e non solo), esortandola a modificare la disciplina e la prassi applicativa della stessa.
La prima importante pronuncia sul tema si è avuta nella sentenza Köbler[5]. Tale decisione ha rappresentato infatti la base per le ulteriori pronunce, direttamente riguardanti l’Italia. In tale vicenda si deduceva la responsabilità della Repubblica d?Austria per la decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado (il Verwaltungsgerichtshof) contrastante con il diritto comunitario direttamente applicabile. Centrale il punto in cui la Corte stabiliva che:
"[..] il principio secondo cui gli Stati membri sono obbligati a riparare i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario che sono loro imputabili si applica anche allorché la violazione di cui trattasi deriva da una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado. Spetta all'ordinamento giuridico di ciascuno Stato membro designare il giudice competente a risolvere le controversie relative a tale risarcimento."
Le condizioni necessarie perché lo Stato ne potesse rispondere erano tre:
- che la norma di diritto comunitario violata fosse preordinata ad attribuire diritti ai singoli;
- -che la violazione fosse sufficientemente caratterizzata[6];
- che sussistesse un nesso causale tra questa violazione ed il danno subito dalle parti lese.
Si inserisce in questo solco la sentenza Traghetti del Mediterraneo s.p.a.[7], la quale ha avuto il grande merito di affermare che:
“[..] il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un?interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale. Il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente, quale precisata ai punti 53-56 della citata sentenza Köbler.”
Infine troviamo la sentenza 24 novembre 2011, che ha portato alla condanna dello Stato italiano per inosservanza degli obblighi derivati dalla sentenza Traghetti del Mediterraneo s.p.a. sopra analizzata, in quanto la normativa italiana escludeva e continuava ad escludere“qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o di valutazione di fatti e prove effettuata dall’organo giurisdizionale medesimo” e limitava e continuava a limitarne l’applicabilità ai casi di dolo e colpa grave.
Da queste pronunce della Corte di Giustizia Europea è derivata confusione dottrinale sul tema, essenzialmente creata dallo scontrarsi di vedute differenti: quella di chi continuava a difendere l’applicazione della legge Vassalli così come prevista, dimostrando probabilmente poca consapevolezza o poca apertura verso una modifica che si rendeva ormai necessaria, e quella di chi auspicava o la totale disapplicazione della stessa oppure un intervento chiarificatore del legislatore.
Sullo sfondo, alle pronunce della Corte di Giustizia ed all’ampliamento del dibattito sulla responsabilità civile del magistrato si accompagnò una polemica che prese toni pesanti, racchiusi nello slogan fortemente mediatico: “chi sbaglia paga!”.
Si voleva semplicemente sottolineare la mancata applicazione di questo semplice principio alla figura del magistrato. Ed effettivamente quanto meno una limitazione della responsabilità dello stesso si era incontrata in ambito di responsabilità civile ed amministrativo-contabile[8].
Indubbiamente tale posizione di pensiero trovò terreno fertile in ambito legislativo. Emblematico l’intervento di Enrico Boemi, relatore della proposta di legge sulla responsabilità civile del magistrato, approvata nel 2015, il quale affermava a questo proposito:
“in un momento in cui ingegneri e medici sono chiamati a rendere conto del rispetto della “regola d’arte”,il giudice è libero di interpretare il diritto in modo personale e originalissimo”.
Volendo quindi meglio analizzare la riforma del 2015, si può innanzitutto dire, con onestà intellettuale, che essa ha avuto il grande merito di sbrogliare le più grandi matasse del problema.
Essa ha imposto una deroga alla clausola di salvaguardia, per cui, oltre al dolo del giudice, questa non si applica nei casi in cui l’interpretazione si risolva in una violazione manifesta della legge o del diritto dell’Unione Europea[9]o nel caso in cui la valutazione dei fatti o delle prove non si trasformi in travisamento degli stessi.
Altre grandi novità sono state:
- l’eliminazione del filtro di ammissibilità. Sono però subito nati a riguardo dubbi di illegittimità, dovuti ad una pronuncia della Corte Costituzionale, secondo la quale: “la previsione del giudizio di ammissibilità della domanda (art 5) garantisce adeguatamente il giudice dalla proposizione di azioni "manifestatamente infondate, che possano turbarne la serenità, impedendo, al tempo stesso, di creare con malizia i presupposti per l’astensione o la ricusazione”;
- la natura obbligatoria dell’azione di rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato, adesso esplicitata per evitare dubbi interpretativi all’art 7, comma 1, il quale così recita: "Il Presidente del Consiglio dei ministri, entro due anni dal risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o di titolo stragiudiziale, ha l'obbligo di esercitare l'azione di rivalsa nei confronti del magistrato nel caso di diniego di giustizia, ovvero nei casi in cui la violazione manifesta della legge nonche' del diritto dell'Unione europea ovvero il travisamento del fatto o delle prove, di cui all'articolo 2, commi 2, 3 e 3-bis, sono stati determinati da dolo o negligenza inescusabile" (e l’innalzamento della soglia alla metà dello stipendio annuale);
- l’eliminazione dell’inciso del primo comma dell’articolo 2, che limitava la risarcibilità dei danni non patrimoniali ai soli casi di privazione della libertà personale
- La parziale modificazione delle fattispecie di colpa grave e quindi del relativo comma 3, dell’articolo 2, il quale adesso prevede tali fattispecie:
- La violazione manifesta della legge nonché del diritto dell'Unione europea;
- Il travisamento del fatto o delle prove;
- L'affermazione di un fatto la cui esistenza e' incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;
- La negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento;
- L'emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione.
- il concorso tra azione di rivalsa e giudizio di responsabilità contabile. Il richiamo lo si ritrova all’interno del nuovo comma 3 bis dell’art 2, nell’inciso: "fermo restando il giudizio di responsabilità contabile di cui al d.l. 23 ottobre 1996, n.543 (conv. Con modificazioni dalla l.20 dicembre 1996, n. 639)".
È il caso di dire però che la nuova normativa lascia dietro di sé dubbi e presenta aspetti quanto meno discutibili. A titolo esemplificativo: nel primo senso, si è deciso di intervenire sulla vecchia legge piuttosto che abrogarla ed emanarne una nuova, con ciò ottenendo meno chiarezza sul tema. Inoltre, nel secondo, la rivalsa, seppur resa obbligatoria, è esclusa in alcuni casi di responsabilità dello Stato per fatto del giudice, non elencati all’articolo 7, comma 1, sopra richiamato.
Concludendo, si consideri come alla base della questione "responsabilità civile del magistrato" ci siano problematiche che riguardano l’organo giudiziario in se stesso.
Sancirne una responsabilità diretta è sempre stato escluso dalla dottrina maggioritaria in virtù dei principi costituzionali di indipendenza ed autonomia del giudice e questo è ben comprensibile ed accettabile, anche tenendo in considerazione il fatto che il sereno svolgimento dell’attività giurisdizionale è un interesse di tutti.
Bisogna però anche considerare che ad oggi si sono affermate prassi potenzialmente lesive come il copia-incolla delle richieste di carcerazione preventiva nei provvedimenti di sottoposizione alla stessa o come la ?cattiva? gestione delle indagini preliminari, si veda ad esempio l’abuso del mezzo probatorio delle intercettazioni[10], tanto per citarne alcune, le quali risultano alla base della degradazione di un sistema di giustizia garantista come il nostro ad un sistema nei fatti tutt’altro che tendenzialmente accusatorio.
Ne è derivato inoltre un sistema caratterizzato da un facile ricorso alla custodia cautelare in carcere.
Anche in questo caso, a dimostrazione di ciò, i numeri alla mano: la popolazione carceraria in Italia è costituita per il 40% circa da persone in attesa di sentenza (dati al 31 dicembre 2012)[11].
Questo fenomeno è dovuto anche alla grande lentezza del nostro procedimento, a causa della quale i Gip preferiscono irrogare tali misure per evitare che l’indagato sconti la pena (paradossalmente) quando diventi formalmente "condannato" e quindi per evitare che la rieducazione della pena cessi di esistere del tutto. Con una più attenta riflessione invece ci si rende conto che proprio quella grande lentezza può trasformare il facile ricorso ad una misura cautelare in un danno irreparabile, tenendo anche e soprattutto in considerazione il principio di presunzione di non colpevolezza.
Di fronte a tali storture della funzione giurisdizionale è giusto interrogarsi sulla sufficienza della disciplina sulla responsabilità civile del magistrato.
In effetti, pur essendo ovviamente altri gli strumenti utilizzabili per l’ottenimento di una magistratura efficiente, questa normativa (tra le altre) costituisce una forma "reale" di tutela del cittadino da comportamenti della magistratura costituenti violazione della legge e danno ingiusto, anche se una quantificazione economica non può completamente sanare i pregiudizi derivati dalla lesione di diritti indisponibili quale la libertà personale.
[1]Art 27, comma 2 Cost: "L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva".
[2]Art. 533 c.p.p., comma 1: "Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio. Con la sentenza il giudice applica la pena e le eventuali misure di sicurezza".
[3]Art. 2, comma 1, legge 117 del 1988.
[4]Cass, sent. numero 6950/26 luglio 1994.
[5]Corte Giust. CE, 30 settembre 2003, C-224/01, in Foro It., 2004, IV, 4.
[6]A tal fine la Corte assegna al magistrato competente il compito di dedurne l’eventuale carattere manifesto ed elenca tutti gli elementi in base ai quali esperire un giudizio in tal senso (v. punto 55 e 56).
[7]Corte giust. CE, 13 giugno 2006, C-173/03, in Europa e Dir. Priv., 2008, 1,247.
[8]Per approfondimenti, si veda Vito Marino Caferra: "Il processo al processo. La responsabilità dei magistrati", Cacucci Editore, Bari, 2015.
[9]Per cui viene richiamata la giurisprudenza europea all’interno del nuovo comma 3-bis dell’art 2, che così recita:
"Fermo restando il giudizio di responsabilità contabile di cui al decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 543, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 dicembre 1996, n. 639, ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell'Unione europea si tiene conto, in particolare, del grado di chiarezza e precisione delle norme violate nonché dell'inescusabilità e della gravità dell'inosservanza. In caso di violazione manifesta del diritto dell'Unione europea si deve tener conto anche della mancata osservanza dell'obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, nonché del contrasto dell'atto o del provvedimento con l'interpretazione espressa dalla Corte di giustizia dell'Unione europea".
[10]”Funziona così: tu procuratore ricevi dodicimila pagine di intercettazioni, le inserisci integralmente nella richiesta di custodia cautelare, perché il copia-incolla è pure molto comodo, poi te le ritrovi nell’ordinanza del giudice per le indagini preliminari. Anche se alcune di queste intercettazioni non hanno alcun rilievo penale e coinvolgono la privacy di persone estranee sai perfettamente che grazie al metodo del copia-incolla rimarrà tutto lì: a ingrossare il fascicolo e a regalare qualche ottimo bignè ai giornalisti”. Così Piero Tony: “Io non posso tacere. Confessioni di un giudice di sinistra”, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2015.
[11]In approfondimento, si veda Luigi Manconi, Giovanni Torrente: “La pena e i diritti. Il carcere nella crisi italiana”, Carocci Editore, Roma, 2015.
* Ringraziamo l'autrice di averci messo a disposizione un preview della sua tesi di laurea.