E' risarcibile la lesione del diritto alla riservatezza di chi è stato inquadrato in TV come testimone senza aver dato il relativo consenso.
Corte di Cassazione
sez. III Civile, ordinanza 29 gennaio – 4 aprile 2019, n. 9340
Presidente Travaglino – Relatore Tatangelo
Fatti di causa
B.E. e P.R. hanno agito in giudizio nei confronti della RAI - Radiotelevisione Italiana S.p.A. per ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza della assunta violazione del loro diritto alla privacy per la avvenuta diffusione di dati sensibili che le riguardavano nel corso della trasmissione televisiva di un processo penale nel quale esse (quali vittime dei reati per cui si procedeva) avevano reso deposizioni testimoniali.
La domanda è stata accolta dal Tribunale di Roma.
La Corte di Appello di Roma, in riforma della decisione di primo grado, la ha invece rigettata.
Ricorrono la B. e la P. , sulla base di un unico motivo.
Resiste con controricorso RAI - Radiotelevisione Italiana S.p.A..
Il ricorso è stato trattato in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375 e 380 bis.1 c.p.c..
La società controricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..
Ragioni della decisione
1. Con l’unico motivo del ricorso si denunzia "Violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione alla falsa applicazione degli artt. 136, 137 e 139 Codice della Privacy nonché degli artt. 6, 8, 9, 10, 11 e 12 Codice Deontologico (L. n. 675 del 1996, art. 25)".
Il ricorso è fondato.
È pacifico (e del resto è espressamente ribadito nella decisione impugnata, senza che vi sia una specifica contestazione sul punto) che le riprese televisive del processo penale nel quale le attrici, parti lese, avevano reso deposizioni testimoniali, erano state autorizzate dal giudice penale e che le stesse attrici avevano autorizzato la diffusione delle proprie deposizioni, a condizione che venisse tutelato il loro diritto all’anonimato e quindi non fossero trasmesse immagini che consentissero la loro identificazione, ai sensi dell’art. 147 disp. att. c.p.p..
Secondo la decisione del giudice di primo grado, nella specie, il rispetto del principio di essenzialità dell’informazione si traduceva, quindi, "nell’ottica ci un corretto bilanciamento tra il diritto all’informazione e quello alla dignità ed alla riservatezza dei soggetti coinvolti, nell’adozione di accorgimenti atti a non svelare l’identità personale dei soggetti..."; tale principio era stato di conseguenza violato, in quanto la trasmissione delle immagini del processo, per le modalità tecniche con le quali era avvenuta, consentiva in realtà l’identificazione delle attrici, quanto meno nella cerchia dei loro conoscenti. Pur non essendo stata trasmessa la parte del processo in cui venivano espressamente indicate le loro generalità, infatti, le riprese erano avvenute in campo corto, l’oscuramento dei volti non era stato completo (ma limitato alla sola parte superiore degli stessi) e non era stata operata alcuna alterazione delle voci; inoltre, in occasione di alcuni cambi di inquadratura era risultato possibile intravedere anche il naso e l’occhio di una di esse.
Non erano stati, in altri termini, adottati accorgimenti idonei ad impedire l’identificazione delle testimoni.
Orbene, la stessa corte di appello ribadisce che "le odierne appellate ebbero a prestare il loro consenso alle riprese, purché ne fosse assicurata la non riconoscibilità e irattasi di profilo non contestato", che "... la peculiarità della fattispecie non potesse prescindere dalla divulgazione integràe delle deposizioni..." e che "l’unica ragione per la quale il Tribunale ha ritenuto violato il principio di essenzialità dell’informazione per il resto ritenuto in pieno rispettato - attiene alle inefficaci modalità utilizzate al fine di schermare l’identità delle testimoni, onde renderle irriconoscibili".
Ciò premesso, ritiene però che "... le modalità utilizzate costituiscano un equilibrato bilanciamento tra il dovere di cronaca e la tutela della riservatezza sotto il profilo della protezione dei dati personali, non potendo pretendersi l’adozione delle più penetranti modalità tecniche suggerite dal giudice di primo grado, se non privando del tutto le riprese di qualsiasi valenza".
Precisa peraltro espressamente che non ha alcun rilievo, in tema di identificabilità dell’offeso, che l’identificazione sia compiuta da un ristretto numero di persone (affermazione del resto non oggetto di specifiche censure).
In sostanza, i giudici di appello non mettono in discussione l’assunto di diritto (già fatto proprio dal giudice- di primo grado) secondo il quale l’autorizzazione ed il consenso alle riprese del processo penale e lo stesso aspetto del principio di essenzialità dell’informazione dovevano ritenersi nella specie subordinati all’adozione di accorgimenti tecnici idonee ad impedire in concreto l’identificazione delle attrici, testimoni nel processo e vittime del reato.
Tale assunto, del resto (oltre ad essere sostanzialmente incontestato sin dal primo grado e ad essere stato, almeno in modo implicito, fatto proprio dalla corte di appello), risulta - il che assume carattere assorbente - del tutto conforme, in diritto, alla consolidata giurisprudenza di questa Corte in materia, non essendo mai stata autorizzata nè dal giudice penale nè dalle interessate, ai sensi dell’art. 147 disp. att. c.p.p., la diffusione delle proprie immagini con modalità tali da consentire la loro identificazione (sia pure nella cerchia ristretta dei loro conoscenti), e non potendo ritenersi comunque tale identificazione - come è evidente in alcun modo essenziale ai fini della completezza dell’informazione in ordine ai contenuti del processo e delle deposizioni in esso rese e, quindi, lecita anche senza il consenso delle stesse interessate (cfr., in proposito: Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 18006 del 09/07/2018, Rv. 649524 - 01 e 02; Sez. 1, Sentenza n. 15360 del 22/07/2015, Rv. 636199 - Sez. 3, Sentenza n. 17408 del 12/10/2012, Rv. 624082 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 10690 del 24/04/2008, Rv. 602952 - 01; Sez. 1, Sentenza n. 11864 del 25/06/2004, Rv. 573917 - 01; Sez. 3, Senterza n. 5658 del 09/06/1998, Rv. 516218 - 01).
I giudici di merito, in base agli stessi principi ci diritto posti (e comunque da porre) a fondamento della decisione, avrebbero pertanto dovuto esclusivamente valutare, in fatto, l’idoneità degli accorgimenti tecnici adattati dalla società convenuta ad impedire l’identificazione delle attrici nel corso della trasmissione delle riprese del processo.
I suddetti principi di diritto, pur correttamente affermati, risultano però falsamente applicati dalla corte di appello.
Quest’ultima non ha infatti in alcun modo proceduto ad accertare se gli accorgimenti tecnici adottati dalla società convenuta - a differenza di quanto espressamente e motivatamente statuito dal tribunale - fossero effettivamente idonei ad impedire l’identificazione delle attrici, limitandosi ad affermare, in maniera del tutto apodittica, l’avvenuto bilanciamento tra le esigenze del diritto di cronaca e quelle della tutela della riservatezza, a prescindere dalla idoneità di quegli accorgimenti a garantire l’anonimato alle attrici stesse.
Anzi, ad avviso di questa Corte, dal complesso della motivazione della decisione impugnata - in cui non si mette in alcun modo in discussione il motivato accertamento in fatto operato dal tribunale, di assoluta inidoneità degli accorgimenti tecnici in questione - sembra addirittura emergere che tale inidoneità sia data per scontata e pacifica e che la controversia venga risolta su un diverso piano.
Ma in tal modo l’argomentazione in diritto posta dalla corte territoriale a fondamento della sua decisione risulta falsata da evidenti difetti logici.
In premessa, i giudici di appello affermano - correttamente che la tutela della riservatezza delle attrici ed il principio di essenzialità dell’informazione richiedevano l’adozione da parte della RAI di misure tecniche idonee a impedire la loro identificazione.
Riconoscono poi, in sostanza, che le misure adottate dalla RAI non avevano affatto impedito tale identificazione o, comunque (a tutto voler concedere), non accertano affatto tale circostanza di fatto.
Ne fanno conseguire, con una conclusione assolutamente contraria alla premessa ed alla logica, che la riservatezza delle ricorrenti ed il principio di essenzialità dell’informazione erano stati bilanciati e, quindi, entrambi rispettati.
A tale scopo effettuano una ulteriore affermazione: quella per cui, se si fossero adottati gli accorgimenti suggeriti dal tribunale per impedire l’identificazione delle testimoni, la valenza delle riprese sarebbe stata del tutto vanificata.
Ma tale ultima affermazione, per un verso, risulta del tutto apodittica, oltre che palesemente falsa sul piano logico e astratto: è evidente che oscurare completamente i volti, oppure riprendere le testimoni di spalle o alterare la loro voce, non può in nessun modo influire sulla completezza dell’informazione relativa al contenuto delle loro deposizioni e del processo in generale. Per alto verso, tale affermazione è comunque del tutto inconferente rispetto al sillogismo iniziale: se il principio di diritto da applicare è quello per cui la diffusione delle immagini delle deposizioni è lecita solo se attuata con accorgimenti idonei a impedire l’identificazione delle testimoni, risulta incongruo e contraddittorio affermare che, poiché gli accorgimenti tecnici suggeriti dal tribunale avrebbero impedito la "valenza delle riprese", allora dovevano ritenersi legittimi anche mezzi non idonei ad impedire l’identificazione; in tal modo, infatti, viene contraddetta la stessa premessa da cui si sono prese (o si sarebbero dovute prendere) le mosse.
Il ricorso deve essere in definitiva accolto.
La sentenza impugnata va cassata affinché, in sede di rinvio, si provveda ad accertare, in fatto, se gli accorgimenti tecnici adottati dalla RAI per impedire l’identificazione delle attrici, anche nella ristretta cerchia dei loro conoscenti, erano effettivamente idonei a tale scopo (in tal caso rigettando la domanda), ovvero se l’identificazione è risultata di fatto possibile, a causa della inidoneità allo scopo degli indicati accorgimenti (in tal caso accogliendo la domanda e liquidando il relativo danno).
2. Il ricorso è accolto.
La sentenza impugnata è cassata in relazione, con rinvio alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte:
- accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2019.
Depositato in Cancelleria il 4 aprile 2019