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CTU criticato, consulente di parte condannato (Cass. 12490/20)

20 aprile 2020, Cassazione penale

Consulente che non si limita a proporre rilievi tecnico-scientifici, ma utilizza termini quali "incompetenza" e  "precaria conoscenza della medicina legale", usa espressioni indicative di un atteggiamento gratuitamente denigratorio, accompagnandole dall'insinuazione relativa all'omessa segnalazione dell'operato del reparto ospedaliero in cui il consulente d'ufficio presta servizio come dirigente medico: condanna per diffamazione.

In tema di diffamazione, nella valutazione del requisito della continenza, necessario ai fini del legittimo esercizio del diritto di critica, si deve tenere conto del complessivo contesto dialettico in cui si realizza la condotta e verificare se i toni utilizzati dall'agente, pur se aspri, forti e sferzanti, non siano meramente gratuiti, ma siano, invece, pertinenti al tema in discussione e proporzionati al fatto narrato e al concetto da esprimere: il contesto nel quale la condotta si colloca può essere valutato ai limitati fini del giudizio di stretta riferibilità delle espressioni potenzialmente diffamatorie al comportamento del soggetto passivo oggetto di critica, ma non può in alcun modo scriminare l'uso di espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona di quest'ultimo in quanto tale.

"espletamento di un incarico in ambito giudiziario, la cui delicatezza e rilevanza dovrebbe imporre al consulente di esercitare la propria funzione con particolare scrupolo ed attenzione, anche nella misura delle parole 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE V PENALE

Sentenza 11 febbraio - 20 aprile 2020, n. 12490

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCARLINI Enrico V. S. - Presidente - Dott. PISTORELLI Luca - Consigliere -
Dott. BELMONTE Maria Teresa - Consigliere - Dott. ROMANO Michele - Consigliere -
Dott. CAPUTO Angelo - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sul ricorso proposto da:

O.M., nato a (OMISSIS);
SENTENZA
avverso la sentenza del 28/02/2019 della CORTE APPELLO di TORINO;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. ANGELO CAPUTO;

Uditi in pubblica udienza:

il Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte di cassazione Dott. Epidendio Tomaso, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

per la parte civile, l'Avv. DOO, che ha depositato conclusioni e nota spese;

per il ricorrente, l'Avv. VNDA, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Con sentenza deliberata il 28/02/2019, la Corte di appello di Torino preso atto della rinuncia alla prescrizione da parte dell'imputato - ha confermato la sentenza del 18/10/2011 con la quale il Tribunale di Aosta aveva dichiarato O.M. responsabile del reato di diffamazione aggravata (per avere, nella relazione redatta quale consulente di parte in una causa civile e, segnatamente, nelle osservazioni alla consulenza
tecnica d'ufficio, offeso la reputazione del consulente B.G.) e lo aveva condannato alla pena pecuniaria di giustizia e al risarcimento dei danni in favore della parte civile, liquidati nella misura di 7 mila Euro.

2. Avverso l'indicata sentenza della Corte di appello di Torino ha proposto ricorso per cassazione O.M., attraverso i difensori Avv. RDV e Avv. VNDA, articolando tre motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1.

2.1. Il primo, diffuso, motivo denuncia erronea applicazione della legge e vizi di motivazione. La conferma dell'affermazione di responsabilità non è derivata dalla riscontrata falsità delle conclusione dell'imputato, ma solo dalla severità, ritenuta eccessiva e quindi denigratoria, del linguaggio impiegato, laddove l'atto di appello aveva sottolineato come le osservazioni del ricorrente fossero consistite in rilievi tecnico-scientifici e avessero investito, con pari efficacia critica, sia il versante delle cognizioni medico-legali, sia il concreto modus procedendi del perito, non potendo fare a meno di constatare l'assenza di specializzazione del Dott. B. in settori della medicina che avrebbero dovuto essere compiutamente governati dal consulente del giudice. La perentorietà della terminologia impiegata doveva essere valutata in rapporto di proporzione diretta con la gravità della omissione e/o dell'inesattezza riscontrata: come evidenziato dall'atto di appello, il consulente del giudice si era avvalso di una guida orientativa superata, della quale aveva peraltro travisato le indicazioni anche in merito alla quantificazione della percentuale del danno, per di più omettendo di considerare gli esiti anatomici radiologicamente rilevabili (ossia i postumi delle fratture vertebrali) ai fini della valutazione del danno biologico da invalidità permanente. L'attendibilità della critica all'elaborato del consulente non può mai essere disgiunta dalla valutazione della sua preparazione professionale, sicchè l'imputato ha agito al solo scopo di rimarcare l'erroneità e la fallacia delle conclusioni peritali e la terminologia impiegata, lungi dall'essere stata finalizzata, in via principale o anche solo prevalente, alla denigrazione o alla ridicolizzazione del consulente d'ufficio, era sempre rigorosamente agganciata alla critica svolta al suo operato e non certo alla sua persona. La motivazione della sentenza impugnata è illogica lì dove non ha considerato che il richiamo dell'imputato all'incompetenza del consulente d'ufficio in certi rami della scienza medica era impiegato per avvalorare, con maggiore forza ed incisività, le critiche al suo operato, ossia i plurimi vizi ravvisati nelle conclusioni e nel carattere inappropriato, anche sotto il profilo deontologico, del comportamento del perito, che senza ricorrere all'ausilio di specialisti, aveva preferito avventurarsi in valutazioni diagnostiche che solo uno specialista del settore avrebbe avuto piena legittimazione ad esprimere: al riguardo l'imputato aveva, ad esempio, censurato il rifiuto immotivato del consulente del giudice di espletare accertamenti diagnostici durante tutte le operazioni peritali e di sottoporre la periziata ai necessari accertamenti psichiatrici. L'atto di appello aveva evidenziato che i rilievi mossi alla competenza del consulente d'ufficio in certi rami della medicina non erano mai stati disgiunti dalla critica, pur aspra e sferzante, alle valutazioni espresse proprio con riferimento alle discipline nelle quali egli era sprovvisto di specializzazione, sicchè non si trattava di una gratuita denigrazione della persona, ma della necessità di avvalorare le critiche all'operato del perito.

L'imputato si è mosso nel perimetro segnato dalla consulenza tecnica d'ufficio, criticandone il contenuto e, di conseguenza, l'autore, ma senza degenerare in una
gratuita e immotivata invettiva legata alla persona, trattandosi di critica sempre dettata dal radicale dissenso rispetto al modus procedendi e alle conclusioni del perito. Ciò vale anche con riguardo al passaggio della relazione dell'imputato in cui segnala il completo silenzio del consulente del giudice su un'ulteriore, assai significativa, circostanza, ossia sul fatto che ben tre delle quattro fratture riscontrate nella perizianda non fossero state diagnosticate al momento del ricovero presso il reparto ortopedico dell'(OMISSIS): secondo i giudici di merito l'imputato avrebbe accostato in modo suggestivo la coincidenza del reparto ospedaliero al quale era ascrivibile l'omessa diagnosi al luogo in cui B. prestava servizio come dirigente medico, ma nell'atto di appello si era dedotto - con argomentazioni ancora una volta ignorate dal giudice di secondo grado - che O. si era limitato a segnalare due circostanze obiettive, ossia l'omessa indicazione da parte del perito dell'errata diagnosi del reparto ortopedia dell'(OMISSIS) e che B. lavorava come dirigente medico presso quel reparto, laddove prevalenti ragioni di opportunità e di tutela dell'interesse all'imparzialità (anche apparente) del consulente d'ufficio avrebbero dovuto consigliare soluzioni diverse per fugare ogni potenziale sospetto di incompatibilità dello stesso perito per ragioni "ambientali".

Quanto al dolo, che obiettivo del ricorrente non fosse la denigrazione del consulente d'ufficio, ma l'esposizione nel modo più convincente delle proprie ragioni trova ulteriore conferma nella conclamata assenza di un pregresso rapporto di conoscenza che potesse accreditare il sospetto di motivi di astio, di rancore o di inimicizia tra i due: deduzione, questa, articolata con il gravame, ma ignorata dalla sentenza di appello, che ha confermato l'affermazione di responsabilità sulla base di una sorta di normativizzazione della responsabilità dolosa, così assimilando al dolo la semplice inosservanza di regole precauzionali.

2.2. Il secondo motivo denuncia inosservanza della legge penale e vizi di motivazione in ordine al denegato giudizio di prevalenza delle pur applicate circostanze attenuanti generiche.

2.3. Il terzo motivo denuncia inosservanza della legge penale e vizi di motivazione in ordine all'entità della somma liquidata a titolo di risarcimento dei danni.

3. Il difensore della parte civile Avv. LS ha depositato il 30/01/2020 una memoria di replica con la quale chiede che il ricorso sia dichiarato inammissibile o, in via subordinata, rigettato. La memoria deduce che l'appello dell'imputato non riguardava circostanze fattuali, ma si limitava a riproporre una diversa valutazione delle questione già risolte dal giudice di primo grado, sicchè non sussiste la violazione dell'obbligo di motivazione denunciato dal ricorso. Quanto alla lamentata assenza di dolo, la censura si risolve in un inammissibile accertamento di merito e, comunque, risulta contraddittoria atteso che è lo stesso ricorrente ad evidenziare che le affermazioni offensive sono frutto di un risentito sdegno nei confronti del consulente d'ufficio. Infondata è la doglianza relativa al superamento della continenza, posto che l'imputato non si è limitato a proporre rilievi tecnico-scientifici, ma ha usato espressioni indicative di un atteggiamento gratuitamente denigratorio nei confronti della parte civile, accompagnate dall'insinuazione relativa all'omessa segnalazione dell'operato del reparto ospedaliero in cui il consulente d'ufficio presta servizio come dirigente medico.

Motivi della decisione

1. Il ricorso non merita accoglimento.

1.1. In premessa, mette conto rilevare che la memoria della parte civile è tardiva, non potendo la stessa essere considerata "memoria di replica" data l'assenza di deposito di memorie della controparte (cfr. Sez. 2, n. 32033 del 21/03/2019, Berni, Rv. 277512) e non essendo stato osservato il termine di 15 giorni, previsto dall'art. 611 c.p.p. relativamente al procedimento in camera di consiglio e applicabile anche ai procedimenti in udienza pubblica (Sez. 1, n. 19925 del 04/04/2014, Cutrì, Rv. 259618; conf. Sez. 3, n. 50200 del 28/04/2015, Ciotti, Rv. 265935).

2. Ciò premesso, il primo motivo non è fondato.

2.1. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, in tema di diffamazione, nella valutazione del requisito della continenza, necessario ai fini del legittimo esercizio del diritto di critica, si deve tenere conto del complessivo contesto dialettico in cui si realizza la condotta e verificare se i toni utilizzati dall'agente, pur se aspri, forti e sferzanti, non siano meramente gratuiti, ma siano, invece, pertinenti al tema in discussione e proporzionati al fatto narrato e al concetto da esprimere (Sez. 5, n. 32027 del 23/03/2018, Maffioletti, Rv. 273573; conf., ex plurimis, Sez. 5, n. 4853 del 18/11/2016, dep. 2017, Fava, Rv. 269093); in tema di diffamazione, dunque, il requisito della continenza postula una forma espositiva corretta della critica rivolta, ossia strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione (Sez. 5, n. 37397 del 24/06/2016, Rv. 267866), sicchè il contesto nel quale la condotta si colloca può essere valutato ai limitati fini del giudizio di stretta riferibilità delle espressioni potenzialmente diffamatorie al comportamento del soggetto passivo oggetto di critica, ma non può in alcun modo scriminare l'uso di espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona di quest'ultimo in quanto tale (Sez. 5, n. 15060 del 23/02/2011, Dessì, Rv. 250174).

2.2. Ritiene il Collegio che i giudici di merito abbiano fatto buon governo dei principi di diritto richiamati. In estrema sintesi, la sentenza impugnata ha sottolineato il tenore delle espressioni utilizzate dall'imputato e dei toni adoperati, indicati come esagerati, sarcastici, gratuitamente offensive, sbeffeggianti, con l'utilizzo di espressioni inutilmente denigratorie e gratuitamente infamanti. A sua volta, la sentenza di primo grado, richiamata dalla conforme sentenza di appello, aveva in particolare stigmatizzato il passaggio della relazione dell'imputato nella parte in cui, per il tramite dell'accostamento tra l'omessa diagnosi ascrivibile al reparto di ortopedia dell'(OMISSIS) e l'informazione che lì lavorava il consulente del giudice, attribuiva a quest'ultimo lo scopo di tutelare la reputazione del reparto ospedaliero presso il quale prestava servizio.

Le censure del ricorrente non minano la tenuta logico-argomentativa della motivazione della sentenza impugnata. Le diffuse doglianze del ricorrente (articolate anche sotto il profilo del vizio di motivazione rispetto alle deduzioni prospettate con il gravame) circa il legame che dovrebbe essere instaurato tra le critiche all'elaborato e all'attività del consulente del giudice e i riferimento al suo autore non inficiano il nucleo essenziale della ratio decidendi della sentenza impugnata, ravvisabile, ad
avviso del Collegio, nel rilievo del "superamento del limite della continenza determinato dall'utilizzo di espressioni gratuitamente denigratorie, sovrabbondanti e sproporzionate rispetto alla finalità di critica tecnico-scientifica cui esse erano destinate nell'ambito della causa civile": superamento che i giudici di merito, con motivazione esente da vizi logici, hanno individuato negli insistititi riferimenti denigratori alla persona del consulente (alla sua prospettata "incompetenza", "precaria conoscenza della medicina legale", etc.). Considerazione, questa, riferibile, anche all'"accostamento" tra l'omessa diagnosi ascrivibile al reparto di ortopedia dell'(OMISSIS) e l'informazione che presso quel reparto lavorava la persona offesa, posto che, ad avviso del Collegio, di tale passaggio della relazione non è dato cogliere neppure la pertinenza con l'oggetto della controversia civile, che, secondo quanto è dato comprendere dal tenore dell'imputazione (ed in assenza di più specifiche deduzioni del ricorrente), in alcun modo coinvolgeva l'ospedale e i suoi medici.

Nè è ravvisabile il dedotto vizio motivazionale, posto che i vari argomenti spesi nel gravame di cui si lamenta la carente valutazione in nessun modo risultavano in grado di disarticolare l'intero ragionamento svolto dal giudicante, determinando al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione (Sez. 1, n. 41738 del 19/10/2011, Longo, Rv. 251516). Del tutto infondate risultano le censure relative all'elemento soggettivo, per la cui sussistenza è sufficiente il dolo generico e che comunque implica l'uso consapevole, da parte dell'agente, di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, ossia adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere (Sez. 5, n. 8419 del 16/10/2013, dep. 2014, Verratti, Rv. 258943).

3. Nè meritano accoglimento il secondo e il terzo motivo.

Quanto alla conferma del giudizio di equivalenza delle circostanze eterogenee, la Corte distrettuale ha valorizzato plurimi elementi, tra i quali la realizzazione del fatto diffamatorio attraverso l'"espletamento di un incarico in ambito giudiziario, la cui delicatezza e rilevanza dovrebbe imporre al consulente di esercitare la propria funzione con particolare scrupolo ed attenzione, anche nella misura delle parole". Il rilievo dà conto di una valutazione operata con riferimento al peculiare contesto in cui il fatto è stato commesso e risulta in linea con i dati probatori richiamati ed immune da vizi logici.

Anche il terzo motivo non merita accoglimento: la Corte distrettuale fa un riferimento al discredito causato alla parte civile (a fronte del prestigio di cui godeva, dimostrato dal conferimento dell'incarico di consulente d'ufficio), mentre la sentenza di primo grado aveva sottolineato la diffusione in un ambiente piccolo, liquidando il danno in via equitativa. Le censure del ricorrente non inficiano le valutazioni delle conformi sentenze di merito, dando corpo, al più, ad inammissibile censure di merito.

4. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato e il ricorrente deve essere condannato alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, che, vista la nota spese depositata e considerata la rilevata tardività della memoria depositata, devono essere liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè alla refusione in favore della parte civile B.G. delle spese del grado che liquida in Euro duemila, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 11 febbraio 2020. Depositato in Cancelleria il 20 aprile 2020