Nel caso in cui il giudice togato riqualifichi il fatto in un reato di competenza del giudice di pace, resta ferma la sua competenza per effetto del principio della perpetuatio iurisdictionis, purchè l'originario reato gli sia stato attribuito nel rispetto delle norme sulla competenza per materia e la riqualificazione sia un effetto determinato da acquisizioni probatorie sopravvenute nel corso del processo.
Quando nel corso del giudizio emerge la possibilità di una riqualificazione del fatto, la difesa dell'imputato deve prevedere tra i possibili esiti del giudizio anche la riqualificazione per formulare immediatamente le conseguenti richieste.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
(ud. 27/09/2018) 03-07-2019, n. 28908
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARCANO Domenico - Presidente -
Dott. BONITO F. M. S. - Consigliere -
Dott. DIOTALLEVI Giovanni - Consigliere -
Dott. PETRUZZELLIS Anna - Consigliere -
Dott. FIDELBO Giorgio - rel. Consigliere -
Dott. RAMACCI Luca - Consigliere -
Dott. MONTAGNI Andrea - Consigliere -
Dott. DE AMICIS Gaetano - Consigliere -
Dott. PISTORELLI Luca - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
B.F.G., nato il (OMISSIS);
avverso la sentenza del 26/04/2017 della Corte d'appello di Trento;
visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;
udita la relazione svolta dal componente Dott. FIDELBO Giorgio;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Procuratore generale aggiunto Dott. IACOVIELLO Francesco Mauro, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 4 novembre 2015 il Tribunale di Trento ha assolto B.G.F. dal reato di danneggiamento (capo b), mentre lo ha ritenuto colpevole del reato di lesioni lievi (capo a) nei confronti di M.G., così riqualificata l'originaria imputazione di lesioni personali gravi, condannandolo alla pena di Euro 400,00 di multa, oltre al risarcimento dei danni in favore della persona offesa costituitasi parte civile, danni da liquidarsi in separata sede.
La Corte d'appello di Trento ha confermato la decisione di primo grado, respingendo l'eccezione di incompetenza per materia riproposta dall'imputato, secondo cui, rientrando il reato di lesioni personali lievi, così come riqualificato, nella competenza del giudice di pace, il tribunale avrebbe dovuto trasmettere gli atti al pubblico ministero, ai sensi del D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 48.
2. Contro la sentenza di appello il difensore dell'imputato ha proposto ricorso per cassazione, deducendo due motivi.
Con il primo denuncia la violazione del D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 48. Ribadendo quanto già sostenuto nel corso del primo grado e nei motivi di appello, assume che il Tribunale di Trento, una volta riqualificato il fatto contestato nella fattispecie di lesioni semplici prevista dall'art. 582 c.p., avrebbe dovuto declinare la propria competenza in favore del giudice di pace.
Con il secondo e subordinato motivo, anch'esso oggetto di specifica contestazione in appello, deduce la violazione del D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 35. Premesso che il Tribunale, dopo avere riqualificato il fatto come lesioni semplici ha applicato le sanzioni previste per i reati del giudice di pace, sostiene che per le stesse ragioni avrebbe dovuto rimettere in termini l'imputato e consentirgli di porre in essere le condotte riparatorie previste dall'art. 35 cit., come richiesto tempestivamente nel processo di primo grado, in sede di conclusioni.
3. Il difensore della parte civile ha depositato una memoria in cui contesta i due motivi di ricorso proposti nell'interesse dell'imputato, chiedendo la conferma della sentenza.
4. La Quinta Sezione, cui il ricorso è stato assegnato, ha rilevato l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale sull'interpretazione del D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 48, in relazione agli artt. 23 e 521 c.p.p., e ha rimesso gli atti alle Sezioni Unite.
Sotto un primo profilo l'ordinanza di rimessione sottolinea come il contrasto riguardi il rapporto dell'art. 48 cit. rispetto ai principi generali in tema di rilevabilità della competenza c.d. per eccesso contenuti nel codice di procedura penale. Infatti, mentre l'art. 23 c.p.p., comma 2, prevede che, quando il reato appartiene alla cognizione di un giudice di competenza inferiore, l'incompetenza debba essere rilevata o eccepita, a pena di decadenza, entro il termine stabilito dall'art. 491 c.p.p., comma 1, il D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 48 prevede una regola diversa, imponendo al giudice superiore di dichiarare la competenza in favore del giudice di pace "in ogni stato e grado del processo".
Secondo una parte della giurisprudenza di questa Corte, che l'ordinanza di rimessione ritiene maggioritaria, l'art. 48 cit. non derogherebbe al regime della non rilevabilità dell'incompetenza per materia del tribunale a favore del giudice di pace a pena di decadenza una volta trascorsi i termini previsti dall'art. 491 c.p.p., comma 1, in quanto la norma è diretta a specificare solo che a seguito della pronuncia di incompetenza gli atti vanno trasmessi al pubblico ministero e non direttamente al giudice di pace.
Questa lettura della disposizione in esame non è condivisa da alcune decisioni di questa Corte, espressione di un indirizzo minoritario, secondo cui l'art. 48 cit. è norma speciale rispetto al regime ordinario di cui all'art. 23 c.p.p.. L'ordinanza di rimessione evidenzia come quest'ultima posizione sembrerebbe in linea con la giurisprudenza costituzionale, che in più occasioni ha sostenuto la natura derogatoria del D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 48 rispetto alla disciplina codicistica della c.d. incompetenza per eccesso (così, Corte Cost., ord. n. 144 del 2011).
La stessa ordinanza sottolinea un ulteriore profilo del contrasto con riferimento ai "casi" che possono determinare l'incompetenza per eccesso nei rapporti con la giurisdizione di pace. Il riferimento è alle ipotesi di riqualificazione del fatto, operata dal tribunale, di un reato di sua competenza in un reato appartenente alla cognizione del giudice di pace, evidenziando come si ripropongano analoghe posizioni divergenti. Da un lato, un gruppo consistente di decisioni che, rispetto alla "derubricazione", sostengono che trovino applicazione gli artt. 23 e 521 c.p.p., con la conseguenza che il rilievo d'ufficio in ogni stato e grado del processo dell'incompetenza per materia è precluso qualora si versi in ipotesi di incompetenza per materia per eccesso; d'altro lato, vengono indicate alcune sentenze che affermano la portata derogatoria del D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 48, con conseguente dichiarazione di competenza in favore del giudice di pace.
5. Nel rimettere gli atti alle Sezioni Unite l'ordinanza ha riassunto la questione nei seguenti termini: "se in caso di riqualificazione del fatto giudicato dal tribunale e ricondotto ad una fattispecie di reato di competenza del giudice di pace, debba essere dichiarata l'incompetenza ai sensi del D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 48, disponendo la trasmissione degli atti al pubblico ministero".
6. Con decreto del 25 luglio 2018, il Primo Presidente Aggiunto ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l'odierna udienza.
Motivi della decisione
1. La questione rimessa all'esame delle Sezioni Unite, così come prospettata nell'ordinanza della Quinta Sezione, si compone in realtà di due nuclei problematici, strettamente collegati tra essi, entrambi relativi al ruolo del D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 48, sia nell'ambito della disciplina del processo davanti al giudice di pace, sia, soprattutto, nei suoi rapporti con le regole generali in materia di competenza previste nel codice di procedura penale.
Il primo aspetto del problema attiene alla natura dell'art. 48 cit., se cioè debba considerarsi norma derogatoria in materia di competenza per eccesso rispetto alla regola posta dall'art. 23 c.p.p., comma 2, oppure se quest'ultima disposizione debba essere ritenuta di carattere generale e inderogabile, con l'effetto di consentire la deducibilità dell'incompetenza per eccesso del tribunale solo entro i limiti temporali dell'art. 491 c.p.p.; il secondo profilo della questione riguarda, invece, i casi in cui il vizio di incompetenza per eccesso può essere rilevato, in particolare se l'incompetenza debba essere sempre dichiarata nell'ipotesi in cui il tribunale riqualifichi il fatto in un reato appartenente alla competenza del giudice di pace.
2. Correttamente la Sezione rimettente ha registrato un contrasto interpretativo su entrambi i punti della questione che, in quanto strettamente collegati, consentono un esame congiunto delle diverse pronunce.
2.1. In via preliminare, occorre precisare come il contrasto interpretativo denunciato si presenti in termini piuttosto sbilanciati, nel senso che risulta fortemente maggioritario l'orientamento secondo cui il D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 48 non deroga al regime generale previsto dal art. 21 c.p.p. e art. 23 c.p.p., comma 2, sulla non rilevabilità d'ufficio dell'incompetenza per materia per eccesso, in quanto si assume che tale disposizione ha solo la funzione di stabilire che l'incompetenza per materia in favore del giudice di pace deve essere dichiarata con sentenza, trasmettendo gli atti al pubblico ministero e non direttamente al giudice di pace (Sez. 5, n. 25499 del 27/03/2015, Spadaro, Rv. 265144; Sez. 5, n. 4673 del 25711/2016, dep. 2017, Tramonti).
Così, con espresso riferimento al tema relativo ai limiti di deducibilità dell'incompetenza per materia, si è sostenuto che l'incompetenza del tribunale a conoscere dei reati del giudice di pace, qualora non costituisca oggetto di eccezione di parte, tempestivamente proposta, nel termine di decadenza stabilito dall'art. 491 c.p.p., comma 1, non può essere rilevata d'ufficio dal giudice di legittimità, non sussistendo alcuna nullità e stante la tassatività della previsione normativa in materia (Sez. 5, n. 15727 del 22/01/2014, Bartolo, Rv. 260560; Sez. 3, n. 31484 del 12/06/2008, Infante, Rv. 240752; nello stesso senso, sebbene in riferimento al giudice di appello e alla possibilità che possa decidere nel merito ai sensi dell'art. 24 c.p.p., comma 2, anche fuori dai casi previsti dal D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 6, cfr., Sez. 3, n. 21257 del 05/05/2014, C., Rv. 259655 e Sez. 5, n. 42827 del 16/07/2014, Schintu, Rv. 262114).
Allo stesso modo, nell'ipotesi in cui il tribunale riqualifichi il fatto in uno dei reati ricompresi nell'art. 4 D.Lgs. che individua la competenza del giudice di pace, la giurisprudenza, in larga maggioranza, tende ad escludere che il D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 48 imponga al giudice "superiore" (tribunale ovvero corte d'appello) di dichiarare la propria incompetenza e di trasmettere gli atti al pubblico ministero perchè instauri il procedimento davanti al giudice di pace. Anche in questi casi l'orientamento prevalente dà rilevanza al regime della deducibilità dell'eccezione di incompetenza ai sensi dell'art. 23 c.p.p., comma 2, escludendo che l'art. 48 cit. costituisca una deroga alla regola generale stabilita nel codice, quindi riaffermando l'esistenza del limite preclusivo del termine previsto dall'art. 491 c.p.p. (Sez. 5, n. 4673 del 25/11/2016, Tramonti; Sez. 5, n. 28651 del 02/05/2016, Seletto; Sez. 5, n. 15157 del 12/04/2016, Zadra; Sez. 5, n. 25763 del 13/03/2015, Signorelli; Sez. 5, n. 39943 del 24/10720118, F.). Analoghe conclusioni anche nei casi in cui la derubricazione sia ritenuta dal giudice di appello: si è sostenuto, infatti, che se il secondo giudice, riqualificando un fatto giudicato dal tribunale, lo riconduca ad una fattispecie di reato di competenza del giudice di pace, può decidere nel merito della impugnazione senza dover dichiarare la competenza del giudice di pace e trasmettere gli atti al pubblico ministero ai sensi dell'art. 48 cit. (Sez. 5, n. 42827 del 16/07/2014, Schintu cit.; Sez. 3, n. 21257 del 05/02/2014, C., cit., in cui si valorizza la portata dell'art. 24 c.p.p.).
2.2. Poche decisioni si contrappongono all'orientamento prevalente. Tra queste la capofila, Sez. 3, n. 12636 del 02/03/2010, Ding, Rv. 246816, che nell'annullare senza rinvio la sentenza del tribunale che aveva condannato l'imputato per un reato di competenza del giudice di pace, ha disposto la restituzione degli atti al pubblico ministero ai sensi del D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 48, ravvisando la violazione della disciplina sulla competenza per materia del giudice di pace. Nello stesso senso si pongono, Sez. 5, n. 43359 del 02/07/2013, Fiorenti, che aderisce alla tesi della rilevabilità officiosa dell'incompetenza per eccesso; Sez. 5, n. 32995 del 17/04/2012, Rossetti, che ha attribuito all'art. 48 cit. un ruolo di norma fondante un potere officioso del giudice, anche nel caso in cui l'imputato, formulata tempestiva eccezione, abbia successivamente richiesto il giudizio abbreviato; nonchè Sez. 5, n. 43486 del 07/04/2014, Quitadamo, che ha riconosciuto all'art. 48 la natura di norma speciale rispetto all'art. 23 c.p.p..
3. Il primo profilo del contrasto si concentra, come si è accennato, sull'interpretazione del D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 48 e sulla sua attitudine a derogare le regole codicistiche in tema di competenza per materia per eccesso.
L'art. 48 cit. è rivolto al giudice "togato" al quale impone di dichiarare, in ogni stato e grado del processo, la propria incompetenza ove ritenga che il reato appartenga alla competenza del giudice di pace, con conseguente trasmissione degli atti al pubblico ministero. Si tratta di una disciplina che si discosta dalle previsioni contenute nel codice di procedura secondo cui l'incompetenza del giudice superiore può essere rilevata soltanto entro termini stabiliti a pena di decadenza, altrimenti il giudice incompetente per eccesso trattiene il procedimento, decidendolo nel merito. Infatti, l'art. 23 c.p.p., comma 2, prescrive che se il reato appartiene alla cognizione di un giudice inferiore, l'incompetenza è rilevata o eccepita - a pena di decadenza - entro il termine stabilito dall'art. 491 c.p.p., comma 1, in questo modo derogando, a sua volta, alla regola generale sulla incompetenza per materia che, invece, prevede la rilevabilità d'ufficio in ogni stato e grado del processo. Il minor rigore nella disciplina codicistica dell'incompetenza c.d. per eccesso si giustifica ragionevolmente, considerando che si tratta di una violazione delle norme meno grave rispetto alla incompetenza per difetto: di conseguenza, una volta superato il termine costituito dall'accertamento della costituzione delle parti il reato appartenente alla cognizione del giudice inferiore resta "incardinato" presso il giudice superiore (incompetente), in base al principio della perpetuatio iurisdictionis.
La diversa disciplina introdotta dall'art. 48 cit. trova la sua ragione nella specificità della giurisdizione onoraria e nella peculiarità del procedimento davanti al giudice di pace. La stessa competenza per materia e il catalogo dei reati attribuiti a questo giudice delineano, più di ogni altro parametro, i caratteri della sua giurisdizione, che conciliano il soddisfacimento delle esigenze deflattive, con un nuovo modello di giurisdizione volto alla composizione del dissidio interindividuale, consacrato in modo formale nel D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 2, comma 2, che funzionalizza il procedimento all'obiettivo della conciliazione tra le parti. Si tratta di un tipo di giurisdizione onoraria concorrente e, al tempo stesso, alternativa a quella professionale, con caratteristiche di originalità e capace di offrire una differente risposta giudiziaria a reati "minori". La selezione delle fattispecie individua situazioni di micro-conflittualità tra privati, connotate da semplice accertamento e da interessi confliggenti interpersonali con un livello di gravità modesto, elementi che contribuiscono a delineare un giudice risolutore e mediatore di piccoli conflitti. Nell'ambito di questa competenza si innesta un arsenale sanzionatorio anch'esso tipico e alternativo rispetto a quello utilizzato dal giudice professionale, che si ascrive ad un "diritto penale mite": sono previste solo pene pecuniarie, mentre sono bandite pene di natura detentiva; solo nei casi di reiterazione di comportamenti caratterizzati da una certa gravità sono contemplate sanzioni dotate di maggiore afflittività, quali l'obbligo di permanenza in casa o il lavoro di pubblica utilità; gli istituti premiali previsti dal codice di procedura penale sono sostituiti da meccanismi di conciliazione del giudice in cui è previsto anche l'intervento dei centri di mediazione e, soprattutto, dagli istituti dell'improcedibilità per la particolare tenuità del fatto e delle condotte riparatorie che possono determinare l'estinzione del reato. L'intero processo è imbastito in funzione servente delle specificità della giurisdizione onoraria, diretta alla piena attuazione della mediazione del conflitto interindividuale.
Di tali caratteristiche ha risentito anche la disciplina sulla competenza: il risultato è una competenza chiusa, in cui sono ridotti al minimo i contatti con i "giudici diversi", scelta che vuole preservare la specificità di questa giurisdizione.
Una conferma di questa tendenza all'autonomia rispetto alla giurisdizione professionale la si trova nella Relazione allo schema di decreto legislativo deliberato dal Consiglio dei ministri del 23 giugno 2000, in cui, sebbene con riferimento alla materia della connessione, la volontà di tracciare "un solco tra le diverse forme di esercizio della giurisdizione penale" è espressa in modo netto, specificando che l'obiettivo è quello di riservare al giudice di pace "la cura di un "orto chiuso", come già accade per il giudice minorile".
Va detto che questa iniziale impostazione radicale è stata in parte superata, anche a seguito del parere della Commissione giustizia del Senato reso il 27 luglio 2000, essendosi evidenziati i possibili effetti negativi di una soluzione così massimalista, che avrebbe avuto l'effetto di moltiplicare i giudizi aventi ad oggetto la medesima regiudicanda, con l'ulteriore rischio di giudicati contraddittori; tuttavia, risulta confermato il carattere autonomo e tendenzialmente separato di questa giurisdizione.
Del resto, la peculiarità della giurisdizione di pace è stata valorizzata in diverse occasioni dalla giurisprudenza costituzionale (Corte Cost. n. 298 del 2008; n. 426 del 2008; n. 47 del 2014) che, recentemente, ha rimarcato come il procedimento di pace presenti caratteri di assoluta specificità, che lo rendono incompatibile con il procedimento davanti al tribunale, con forme alternative di definizione le quali si innestano in un "procedimento connotato da una accentuata semplificazione e concernente reati di minore gravità, con un apparato sanzionatorio del tutto autonomo: procedimento nel quale il giudice deve inoltre favorire la conciliazione tra le parti e in cui la citazione a giudizio può avvenire anche su ricorso della persona offesa" (Corte Cost., n. 50 del 2016).
Anche le Sezioni Unite hanno avuto modo di affermare la peculiarità del modello di giustizia onoraria, sottolineando, da un lato, l'autonomia del sistema sanzionatorio, configurato "nel segno della complessiva mitigazione dell'afflittività", dall'altro, la novità del "rito orientato, più che alla repressione del conflitto sotteso al singolo episodio criminoso, alla sua composizione" (Sez. U, n. 53683 del 28/11/2017, Perini, che ha escluso l'applicabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall'art. 131-bis c.p. nel procedimento davanti al giudice di pace, dando prevalenza alla peculiarità del complessivo sistema sostanziale e processuale introdotto in relazione ai reati di competenza del giudice di pace, nei cui ambito la specifica tenuità del fatto prevista dall'art. 34 svolge un ruolo anche in funzione conciliativa, valorizzando la posizione della persona offesa).
4. A garantire lo spazio di autonomia di questa giurisdizione è l'art. 48 - oltre alle regole sulla competenza, soprattutto per connessione -, assicurando che il giudice superiore debba sempre riconoscere, in ogni stato e grado del processo, la propria incompetenza a favore del giudice di pace, così preservando non solo la tutela degli spazi operativi dell'organo giudicante, ma garantendo all'imputato di poter fruire di tutti gli istituti conciliativi e deflattivi previsti.
Riconosciuto all'art. 48 il ruolo di "custode della separatezza" della giurisdizione onoraria, appare difficile sostenere che non abbia la capacità di derogare alla disciplina codicistica di cui all'art. 23 c.p.p., comma 2.
Non può non darsi rilevanza ad alcune pronunce della Corte costituzionale che hanno già avuto modo di affermare, espressamente, la natura derogatoria dell'art. 48 cit. rispetto alla disciplina generale dell'incompetenza per materia. In tre distinte ordinanze la Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilità delle questioni riguardanti disposizioni contenute nel D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 in materia di immigrazione, rilevando la palese incompetenza per materia dei tribunali, che le avevano sollevate sull'erroneo presupposto di poter conoscere dei reati appartenenti alla competenza del giudice di pace, senza considerare l'operatività dell'art. 48, a cui il giudice delle leggi ha riconosciuto piena capacità di derogare alla disciplina generale relativa alla c.d. incompetenza per eccesso prevista dall'art. 23 c.p.p., comma 2, (ord. n. 252 del 2010; ord. n. 318 del 2010; ord. n. 144 del 2011).
Nei casi esaminati i giudici a quo avevano ritenuto la propria competenza a conoscere del reato del giudice di pace a seguito di una riqualificazione giuridica ovvero per effetto di connessione seguita da un provvedimento di separazione, quindi sulla base del principio della perpetuatio iurisdictionis, soluzione che la Corte costituzionale ha censurato, affermando che l'art. 48 deroga al regime codicistico del rilievo dell'incompetenza per eccesso anche quando derivi da connessione o da riqualificazione.
La spiegazione di questa ricostruzione la Corte costituzionale la offre in due decisioni coeve (sentenze n. 64 del 2009 e n. 56 del 2010), aventi ad oggetto entrambe la legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 6, sebbene sotto diversi profili, in cui la scelta fortemente limitativa delle ipotesi di connessione operata dal legislatore viene ritenuta del tutto legittima dal punto di vista costituzionale, in quanto diretta a valorizzare le "peculiarità" della giurisdizione di pace, evitando il rischio di svuotamento delle funzioni del giudice onorario, che sarebbe potuto derivare dall'attrazione delle competenze presso il giudice superiore se non si fosse limitata l'operatività della connessione al solo concorso formale di reati.
5. In conclusione, con riferimento al primo punto della questione, si ritiene che non possa essere condivisa quella giurisprudenza che opera una dequotazione del D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 48, negandogli la capacità di derogare alla disposizione generale contenuta nell'art. 23, comma 2, cod. proc., riconoscendogli solo la funzione di precisare che, in caso di dichiarazione di incompetenza a favore del giudice di pace, gli atti debbano essere trasmessi al pubblico ministero e non al giudice. Peraltro, questa lettura minimalista viene smentita anche dalla stessa relazione al D.Lgs. n. 274 del 2000, da cui risulta il rilievo del tutto secondario dato al tema della trasmissione degli atti: si è infatti ritenuto che la soluzione consistente nell'imporre la trasmissione degli atti al giudice non assicurasse un risparmio di tempo e di risorse, sicchè si è preferito adeguarsi alla regola generale prevista dall'art. 23 c.p.p., come emendato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 76 del 1993, prevedendo che gli atti fossero trasmessi al pubblico ministero. Tale scelta di uniformità alla regola codicistica è, pertanto, relativa alla sola fase di trasmissione degli atti, non certo alla disciplina della rilevabilità della incompetenza per eccesso prevista dall'art. 23 c.p.p., comma 2.
Inoltre, va sottolineato come anche in base ad una interpretazione meramente letterale la differenza tra le due norme risulti evidente, dal momento che il riferimento ad "ogni stato e grado del processo", contenuto nell'art. 48, segna la distanza rispetto alla regola posta dall'art. 23 c.p.p., comma 2, che prevede termini di decadenza entro cui eccepire l'incompetenza.
D'altra parte, occorre pure considerare che il modello di giurisdizione di pace si è innestato su un sistema processuale penale già esistente, in cui operava una disciplina della competenza innovata dal D.Lgs. n. 274 del 2000, artt. 4-7, 47 e 48, che hanno, rispettivamente, previsto il catalogo dei reati attribuiti al nuovo giudice, inserito il riferimento al giudice di pace nell'art. 6 c.p.p. e disciplinato il rapporto di competenza con il giudice professionale. L'art. 48 è, quindi, norma che succede all'art. 23 c.p.p., comma 2, nei cui confronti si pone come deroga: lo stesso D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 2, comma 1, norma di chiusura del sistema, nel prevedere l'applicazione nel procedimento davanti al giudice di pace delle norme contenute nel codice di procedura penale, impone comunque di verificarne la compatibilità ("in quanto applicabili"), una compatibilità che deve essere esclusa per il citato art. 23, comma 2, proprio per la presenza dell'art. 48, che ha un contenuto alternativo.
Deve, pertanto ritenersi che la disciplina prevista dall'art. 23 c.p.p., comma 2, è inapplicabile con riferimento al giudice di pace e conseguentemente escludersi che l'incompetenza del tribunale a conoscere dei reati del giudice di pace debba essere eccepita entro il termine di decadenza stabilito dall'art. 491 c.p.p., comma 1, come richiamato dall'art. 23 c.p.p., comma 2, trovando applicazione la regola contenuta nel D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 48, secondo cui la competenza del giudice di pace deve essere dichiarata in ogni stato e grado del processo.
Per le medesime ragioni non può condividersi quell'orientamento che, nell'ambito dei rapporti tra giudice di pace e giudice ordinario, risolve sulla base dell'art. 24 c.p.p. i casi in cui la "derubricazione" sia ritenuta dal giudice di appello. Secondo questo indirizzo interpretativo se la corte di appello, riqualificando un fatto giudicato dal tribunale, lo riconduce ad una fattispecie di reato di competenza del giudice di pace, può decidere, anche fuori dai casi previsti dal D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 6, nel merito dell'impugnazione, senza dover trasmettere gli atti al pubblico ministero e dichiarare contestualmente la competenza del giudice di pace (Sez. 5, n. 42827 del 16/07/2014, Schintu, Rv. 262114).
L'art. 24 c.p.p., nel comma 2, assegna un regime omogeneo a tutti i casi in cui viene riconosciuta l'incompetenza per eccesso del primo giudice, sancendone l'irrilevanza in grado di appello, regola questa, che per le ragioni sopra evidenziate, non trova spazio nei rapporti con la competenza del giudice di pace, in cui va riconosciuta la prevalenza dell'art. 48 cit., anche qualora sia il giudice di appello a operare la riqualificazione in favore della competenza del giudice onorario ovvero in quella sede venga meno il vincolo di connessione.
6. Passando ad esaminare il secondo aspetto della questione, va detto che la regola appena enunciata, destinata ad assicurare un carattere tendenzialmente esclusivo alla giurisdizione di pace, non è assoluta, in quanto va messa in relazione ad alcune vicende che possono intervenire nel corso del processo.
L'ordinanza di rimessione ha individuato alcuni casi problematici in cui il giudice "superiore" si trova a dover giudicare esclusivamente di un reato di competenza del giudice di pace: ad esempio quando vi è stato un errore nell'originaria determinazione della competenza o nella qualificazione giuridica del fatto; ovvero nel caso in cui il tribunale conosce dei reati del giudice di pace per effetto della connessione, venuta meno la quale in seguito all'assoluzione o al proscioglimento dal reato dotato di vis actractiva, residua il solo reato minore appartenente alla giurisdizione di pace; nonchè, nell'ipotesi, oggetto del presente procedimento, in cui il giudice "togato" riqualifichi il reato originariamente rientrante nella competenza per materia del tribunale, in un reato appartenente alla cognizione del giudice di pace.
La questione che si pone negli esempi appena fatti riguarda la verifica circa l'ambito applicativo dell'art. 48 cit., ovvero se il giudice "ordinario" debba sempre dichiarare la propria incompetenza a favore del giudice di pace oppure se vi siano casi in cui possa comunque giudicare del reato appartenente alla competenza del giudice di pace, in forza del principio della perpetuatio iurisdictionis.
7. In mancanza di una disposizione come quella dell'art. 48 cit. che, come si è visto, deroga alla disciplina dell'incompetenza per eccesso prevista dall'art. 23 c.p.p., comma 2, e art. 24 c.p.p., comma 2, non vi è dubbio che il giudice ordinario conserverebbe sempre la sua competenza - salvo tempestiva eccezione - e la conserverebbe utilizzando il menzionato principio della perpetuatio iurisdictionis (rectius: competentiae).
Invero, si tratta di un principio che il codice di procedura penale non menziona affatto, ma che nel nostro ordinamento è espressamente considerato dall'art. 5 c.p.c., secondo cui "la giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, e non hanno rilevanza rispetto ad esse i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo".
Tale principio è il frutto di una risalente esperienza giudiziaria penale, ribadita anche con l'avvento del processo del 1988, che lo pone, innanzitutto, in relazione all'esigenza di limitare l'applicazione delle nuove leggi ai processi pendenti e, inoltre, all'esigenza di fare in modo che il giudice procedente non sia privato della competenza per effetto di modifiche che investono il rapporto processuale ovvero di una diversa qualificazione giuridica del fatto. Evidente come alla base vi siano esigenze di certezza dei rapporti e di economia processuale, in quanto si vogliono ridurre i casi in cui il processo debba spostarsi, ad esempio ogni qual volta vengano meno le ragioni di connessione.
In questo senso, deve riconoscersi che il principio è funzionale all'interesse dell'amministrazione giudiziaria alla ragionevole durata del processo, tutelato dall'art. 111 Cost., comma 3.
D'altra parte, si osserva come il riconoscimento del principio della perpetuatio iurisdictionis possa porsi in attrito con il principio costituzionale del giudice naturale di cui all'art. 25 Cost., comma 1, dal momento che l'applicazione rigorosa di quest'ultimo imporrebbe la traslatio iudicii al giudice competente ogni volta che venga meno il procedimento che aveva determinato la competenza per connessione.
Con riferimento alla questione in esame appare allora necessario individuare un punto di bilanciamento tra il rispetto del principio della garanzia del giudice naturale e quello della ragionevole durata del processo, tenendo conto della regola posta dal D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 48 che, come si è visto, impone che il giudice ordinario si spogli della propria competenza ogni qual volta ritenga che il reato sottoposto alla sua cognizione appartenga alla competenza del giudice di pace. In una materia come quella della disciplina processuale del giudice di pace, in cui ridottissima è l'area della connessione e in cui è presente una norma come quella dell'art. 48 cit., sembrerebbe che con il venir meno del vincolo connettivo ovvero in presenza di una derubricazione si debba sempre ripristinare la competenza originaria. Ma questa regola conosce delle eccezioni.
Invero, una disposizione come quella del citato art. 48 non può ricevere un'applicazione rigida ed automatica, che cioè porti a prescindere del tutto dalle vicende e dalle modifiche che possono intervenire nel corso del processo. La disciplina posta da tale articolo a tutela della specificità della giurisdizione di pace deve tenere conto sia di un principio di natura costituzionale come quello della ragionevole durata del processo, ma soprattutto non può derogare alle regole, anch'esse di rilievo costituzionale, sulla precostituzione del giudice.
Se la competenza del giudice ordinario è stata individuata correttamente, nel rispetto delle disposizioni processuali, comprese quelle previste dal D.Lgs. n. 274 del 2000, il fatto che venga meno il reato più grave, ad esempio per effetto di una assoluzione parziale che determini la scomparsa del vincolo di connessione ovvero, come nel caso in esame, a seguito di riqualificazione, non determina l'operatività dell'art. 48.
Tale norma, infatti, non opera in presenza di una individuazione corretta del giudice competente, nel rispetto delle regole sulla sua precostituzione, ma solo nel caso in cui la competenza al giudice diverso da quello di pace sia stata individuata erroneamente.
Attribuire un diverso e più generale ambito applicativo all'art. 48 cit. porterebbe ad una irragionevole disapplicazione delle regole sulla competenza.
In questo modo, viene realizzato un bilanciamento degli interessi che devono essere presi in considerazione, in una materia dove il legislatore ha voluto garantire la specificità della giurisdizione di pace: la perpetuatio competentiae, che in questo caso è a garanzia del principio della ragionevole durata del processo, trova applicazione solo nel caso in cui tutte le regole sulla competenza siano state osservate, ciò anche a garanzia del principio del giudice naturale precostituito per legge; diversamente, troverà piena operatività l'art. 48 D.Lgs. n. 274 del 2000 in tutti quei casi dove l'errata applicazione delle regole sulla competenza (e sulla connessione) ha condotto all'individuazione di un giudice che non era competente a giudicare dei reati appartenenti alla giurisdizione di pace. In questa seconda ipotesi la dichiarazione di incompetenza a favore del giudice di pace si giustifica anche perchè non risulta rispettata, sin dall'origine, l'individuazione del giudice naturale e precostituito per legge.
In sostanza, nell'ipotesi di incompetenza per eccesso derivante da una riqualificazione ("derubricazione") di uno o più reati attribuiti alla cognizione del giudice "ordinario" l'art. 48 cit. opera solo se la competenza del giudice ordinario sia stata, in origine, erroneamente individuata, sottraendo il reato alla cognizione del suo giudice naturale, cioè del giudice di pace; invece, qualora l'attribuzione della competenza al giudice ordinario sia stata, in origine, correttamente operata e la "derubricazione" sia un effetto determinatosi nel corso del processo a seguito di situazioni sopravvenute, dovute ad acquisizioni probatorie o a modificazioni del rapporto processuale ovvero a esiti parzialmente assolutori che hanno riguardato singoli reati, resta ferma la competenza del giudice ordinario in relazione al residuo reato del giudice di pace, in attuazione del principio della perpetuatio competentiae che, in questo caso, garantisce lo stesso principio del giudice naturale precostituito per legge.
8. A sostegno di questa ricostruzione, che individua una serie di ipotesi in cui l'ambito applicativo dell'art. 48 subisce delle limitazioni, può essere evocato anche il D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 63, secondo cui quando il giudice "ordinario" è competente a giudicare dei reati indicati dall'art. 4 D.Lgs. cit., deve applicare le sanzioni del giudice di pace, in particolare l'intera disciplina prevista dal titolo II del D.Lgs. n. 274 del 2000, alcune disposizioni in materia esecutiva nonchè gli specifici istituti della particolare tenuità del fatto, delle condotte riparatorie e della sentenza di condanna alla pena della permanenza domiciliare.
Si tratta di una disposizione volta ad assicurare che il sistema sanzionatorio del giudice di pace, assieme ad alcuni significativi istituti processuali e sostanziali, trovi applicazione anche nei procedimenti che si svolgono davanti a "giudici diversi". Vi rientrano sicuramente i casi in cui i reati del giudice di pace vengono giudicati dal tribunale per i minorenni o quando il reato appartiene alla competenza di giudici speciali, ad esempio il tribunale dei ministri o il tribunale militare; non è scontato, invece, che la disposizione trovi spazio nei casi di connessione eterogena derivante da concorso formale (D.Lgs. n. 274 del 2000, ex art. 6), in quanto in tali ipotesi il tribunale applicherà la sanzione prevista dal reato più grave, che solitamente non è quello di competenza del giudice di pace. Al contrario, l'art. 63 cit. è destinato a trovare sicura applicazione proprio nei casi sopra individuati, in cui la competenza del giudice togato si radica per effetto del principio di perpetuatio iurisdictionis.
9. Va, pertanto, affermato il seguente principio di diritto:
"L'incompetenza a conoscere dei reati appartenenti alla cognizione del giudice di pace deve essere dichiarata dal giudice togato in ogni stato e grado del processo, ai sensi del D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 48, disposizione che deroga al regime previsto dall'art. 23 c.p.p., comma 2, sulla rilevabilità dell'incompetenza per materia c.d. in eccesso entro precisi termini di decadenza; tuttavia nel caso in cui il giudice togato riqualifichi il fatto in un reato di competenza del giudice di pace, resta ferma la sua competenza per effetto del principio della perpetuatio iurisdictionis, purchè l'originario reato gli sia stato attribuito nel rispetto delle norme sulla competenza per materia e la riqualificazione sia un effetto determinato da acquisizioni probatorie sopravvenute nel corso del processo".
10. Sulla base del principio enunciato deve ritenersi infondato il primo motivo del ricorso, con cui si è dedotta la nullità della sentenza per incompetenza funzionale del giudice, in quanto la Corte d'appello avrebbe dovuto dichiararsi incompetente e trasmettere gli atti al pubblico ministero, ai sensi del D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 48.
Nella specie, non può trovare applicazione l'invocato art. 48 cit. in quanto, in origine, la competenza è stata individuata correttamente, dal momento che l'azione penale è stata esercitata per il reato di lesioni personali gravi e gravissime (malattia superiore a quaranta giorni e sfregio permanente al volto della persona offesa), rientrante nella cognizione del tribunale; la riqualificazione del fatto nel reato meno grave di lesioni personali lievi, di competenza del giudice di pace, è stata operata a seguito della consulenza medico legale disposta dal Tribunale, quindi a seguito di acquisizioni probatorie sopravvenute nel corso del processo.
Il citato art. 48, come si è visto, opera nel caso in cui l'attribuzione di uno dei reati indicati nel D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 4 ad un giudice diverso da quello di pace sia frutto di un errore nell'applicazione della disciplina sulla competenza per materia, quando cioè si verifichi una indebita sottrazione della materia che la legge attribuisce alla giurisdizione onoraria. Ma nella specie ciò non è avvenuto, in quanto il reato originariamente contestato rientrava, come si è visto, nella competenza del tribunale e la riqualificazione del fatto nel meno grave reato di competenza del giudice di pace è avvenuta in seguito ad un approfondimento istruttorio eseguito nel corso del processo di primo grado, sicchè nella specie trova spazio il principio della perpetuatio iurisdictionis, con conseguente radicamento del giudice "superiore".
11. E' infondato anche il secondo motivo, con cui il ricorrente ha dedotto la violazione del D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 35, sostenendo che il Tribunale, una volta riqualificato il fatto in un reato di competenza del giudice di pace, avrebbe dovuto concedergli un termine per poter porre in essere le condotte riparatorie previste dal citato art. 35, a cui sarebbe potuta conseguire l'estinzione del reato.
Si rileva che il D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 63 prevede che nei casi in cui i reati indicati nell'art. 4 del D.Lgs. cit. siano giudicati da un giudice diverso dal giudice di pace, come nella fattispecie in esame, debbano trovare applicazione non solo le diverse e specifiche sanzioni maneggiate dal giudice di pace, ma anche gli istituti che più caratterizzano questa giurisdizione, tra cui, appunto, le condotte riparatorie di cui all'art. 35; lo stesso art. 63 cit. subordina il ricorso a tali disposizioni ad una valutazione circa la loro applicabilità in concreto.
Nel caso in esame, in cui vi è stata una riqualificazione del fatto in un reato rientrante nella competenza del giudice di pace, può trovare spazio, "in quanto applicabile", il D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 35, comma 3.
Questa disposizione prevede che il giudice di pace, su richiesta dell'imputato che, nel corso dell'udienza di comparizione, rappresenti di voler provvedere alle condotte riparatorie in favore della persona offesa e che dimostri di non averlo potuto fare in precedenza, può disporre la sospensione del processo, concedendo un termine per tali adempimenti.
Si tratta di una disposizione che non appare incompatibile con il procedimento "ordinario" e che renderebbe concreto il recupero dell'istituto delle condotte riparatorie nelle ipotesi di riqualificazione che, come nel caso in questione, avvengono nel corso dell'istruttoria dibattimentale.
Tuttavia, nella specie, l'imputato avrebbe dovuto formulare la richiesta nel corso del processo, subito dopo la perizia medico legale che ha accertato l'esistenza di una lesione lieve nei confronti della vittima, in quanto è quell'accertamento peritale che ha giustificato la riqualificazione del fatto in un reato ricompreso nella competenza del giudice di pace, mentre la richiesta di poter provvedere al risarcimento dei danni l'imputato l'ha presentata tardivamente, solo in sede di conclusione del procedimento di primo grado, a istruttoria chiusa.
Peraltro, tenuto conto che la perizia disposta dal Tribunale aveva come oggetto proprio l'accertamento della gravità delle lesioni provocate alla persona offesa, la difesa dell'imputato avrebbe dovuto prevedere tra i possibili esiti del giudizio, anche la riqualificazione del reato di lesioni gravi contestato originariamente, in quello di lesioni lievi, di competenza del giudice di pace e, in forza di tale previsione, non solo presentare la richiesta di poter porre in essere le condotte riparatorie prima della chiusura del dibattimento, ma addirittura provvedere direttamente al risarcimento del danno, che il giudice avrebbe potuto comunque apprezzare come condotta riparatoria. Come evidenziato dalla Corte d'appello, che correttamente non ha ritenuto di accogliere questo motivo, l'imputato avrebbe potuto per lo meno corredare l'istanza con la prova di aver risarcito il danno causato.
12. Pertanto, il ricorso deve essere rigettato, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 27 settembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 3 luglio 2019